di STEFANO TACCONE
Todo modo è la locuzione abbreviativa della massima di Sant’Ignazio di Loyola, fondatore dell’ordine dei Gesuiti, Todo modo para buscar y hallar la voluntad divina, ma essa è ormai più famosa come titolo del romanzo di Leonardo Sciacia risalente al 1974 o del film di Elio Petri che da esso è tratto. Nel romanzo lo scrittore siciliano denuncia gli effetti deleteri cui un tale metodo può condurre. Sorta di personificazione del Todo modo può considerarsi uno suoi dei principali personaggi, don Gaetano, il quale, trovandosi sul non meglio geograficamente identificato Eremo di Zafer, lo applica guidando periodicamente ritiri spirituali per persone di alta estrazione sociale – ministri, politici, direttori di banche…, eppure alla fine tutto riesce a conseguire tranne qualcosa che somigli alla volontà di Dio. «I preti buoni», si legge in un dialogo del romanzo, «sono quelli cattivi. La sopravvivenza e, più che la sopravvivenza, il trionfo della Chiesa nei secoli, si deve più ai preti cattivi che ai buoni».
La storia del sacerdote Fabrizio Valletti (Roma, 1938) potrebbe leggersi come un continuo tentativo di smentire la tesi di Sciascia. Tenuto conto naturalmente della specificità del momento storico in cui quest’ultimo scrive, Padre Fabrizio o semplicemente Fabrizio – ché così lo chiamano affettuosamente i suoi tanti figli spirituali o simpatizzanti di tutte le età, sparsi in varie parti d’Italia e non solo, visto che ha conosciuto anche la dura realtà africana – gli risponderebbe senz’altro che non bisogna confondere il metodo con il merito. I lunghi anni di strenuo lavoro materiale, psicologico e spirituale trascorsi nel quartiere Scampia – ben prima che cominciasse ad essere pressoché più noto come il “quartiere di Gomorra” –, nonché il loro antefatto sono ora da lui stesso riassunti nel volume Un gesuita a Scampia. Come può rinascere una periferia degradata (Edizioni Dehoniane, Bologna, 2017), con prefazione di Franco Roberti e postfazione di Marco Rossi-Doria.
Tornando alla immaginaria querelle Sciascia-Valletti, non esiste – aggiungo io – una sola tipologia di sacerdote – questo non è che un pregiudizio che può appartenere ai non credenti, ma anche ai credenti! -, giacché non esiste una sola modalità di vivere e portare il Vangelo, bensì tante modalità quanti sono i sacerdoti, benché naturalmente il rischio di disancorarsi dal Vangelo – per tanti ed opposti motivi – sia sempre costante, ma anche a questo, ogni sacerdote potrebbe dire, serve la preghiera. Non esiste una sola tipologia di sacerdote perché oltre alla vocazione vera e propria esistono le vocazioni in senso più specifico, le vocazioni ad interpretare il Vangelo in un certo modo piuttosto che in un altro ed ognuna è legittima nella misura in cui il Vangelo non viene tradito.
La vocazione specifica di Padre Fabrizio ha senz’altro una forte caratterizzazione sociale, nonché un forte amore per la cultura, ma soprattutto una grande fiducia nella sua preziosità come occasione di riscatto per le classi subalterne – ché le classi esistono ancora, eccome! -, consapevolezza da cui deriva la sua preoccupazione affinché essa non sia mai intesa come patrimonio personale da tesaurizzare, bensì da condividere il più possibile con chi non ha altrimenti nella sua vita grandi possibilità di accedervi. «Non basta avere una brocca d’acqua fresca», mi disse un giorno durante una delle rare ma intense conversazioni che ho avuto il piacere di intrattenere con lui, «occorre che a questa brocca vi si possa attingere!».
La cultura possiede inoltre per lui almeno quattro dimensioni. Vi è una prima dimensione di carattere esperienziale, che implica il «mettersi in strada, camminare, impolverarsi e magari anche infangarsi i piedi per poter conoscere e capire una realtà a noi estranea. Incontrare, visitare, scoprire. Non stancarsi mai di cercare luoghi e persone che possano accogliere un messaggio di novità, che siano disposte a cambiare per il meglio, che sappiano liberarsi da ciò che può compromettere una vera felicità». La seconda dimensione è di carattere emotivo: «avendo a che fare spesso con persone in difficoltà, il cuore non può restare indifferente: se infatti non ci si commuove, tutto scivolerà sulle nostre coscienze, lasciandoci freddi anche di fronte alle più dolorose vicende del prossimo. Per commuoversi, per prendere coscienza, è invece necessario vivere con le persone, incontrarle, visitarle, partecipare alle loro gioie e ai loro dolori». Tuttavia il cuore «va educato a trasformare le emozioni e i sentimenti anche migliori in concrete occasioni di azione». È qui che subentra la dimensione più propriamente intellettuale della cultura, intesa tuttavia mai come mera speculazione afinalistica, bensì come pensiero che mira «a una realtà diversa, a come realizzare un mondo migliore, al modo in cui lavorare per favorire il cambiamento» e che pertanto obbliga «a sporcarsi le mani, come diceva don Milani», ma anche, «data la complessità dei fenomeni sociali ed economici», a «cercare altre mani, saperle stringere, voler stabilire alleanze, riuscire a concordare interventi comuni» Un metodo eloquentemente sintetizzato dal motto Piedi, cuore, testa, mani.
Alla radice di ciò che Padre Fabrizio è stato ed ha fatto – ed ancora è e fa – vi è innanzi tutto la figura paterna, uno stimato chirurgo pediatra il quale, «Contrario a ogni forma di violenza e di oppressione, si oppose alla guerra e al fascismo con azioni di contrasto che, come imparai solo molti anni dopo, lo esposero a seri rischi personali». «Scettico rispetto alla pratica religiosa» e «piuttosto critico verso il clero in generale», ma reo di un “madornale errore” nel quale si può riconoscere il primo seme dell’opzione verso il sacerdozio del figlio: «Unico maschio in mezzo a cinque sorelle, coccolato, viziato e sempre protetto da tutti, tranne che da mio padre, il quale preoccupato che fra tante donne potessi non ricevere una giusta educazione, a nove anni mi mandò negli scout». L’esperienza dello scoutismo e la dimensione spirituale trasmessagli dalla madre, da una parte, e l’impegno politico universitario e la coscienza politica – non slegata da una tensione verso il coraggioso agire trasmessagli dal padre, dall’altra, fanno sì che ben presto nel giovane maturi la convinzione «di poter coniugare esperienza di fede e impegno sociale, servizio agli ultimi e superamento della società classista». Niente di più naturale per lui che diventare gesuita: «Gesuiti erano stati gli assistenti ecclesiastici che avevo incontrato come scout: persone sensibili al mondo dei poveri e pieni di una spiritualità che sapeva valorizzare l’umanità della persona, la cultura e l’incontro serio e responsabile con Gesù». E così che, già studente alla Facoltà di Architettura di Roma, decide coraggiosamente «di cambiare strada e di seguire quel desiderio, che si sarebbe poi rivelato così forte da farmi rinunciare a una famiglia tutta mia e da porre in secondo piano persino la mia passione per l’arte».
I suoi primi anni successivi alla sua scelta radicale sono così naturalmente spesi nell’alveo di quel clima politico e culturale tipico della seconda metà degli anni sessanta che nell’ambito del cattolicesimo si traduce nei vari tentativi di rinnovamento postconciliari. Un clima che lo spinge anche a compiere gesti assai forti per un uomo di Chiesa. Su tutte l’occupazione, sia pure simbolica, della basilica di San Pietro: «Quando il presidente americano Nixon venne a Roma, mentre era in corso la guerra del Vietnam, insieme all’assemblea ecclesiale romana delle Comunità di Base, ai valdesi e ad altri gruppi, decidemmo di fare un’assemblea all’interno della basilica di San Pietro chiedendo a papa Paolo IV di ricevere il presidente americano non come un capo di Stato, ma come un penitente. […] Eravamo così immersi nella preghiera intorno all’altare, che neppure ci accorgemmo di molti fedeli che si erano uniti a noi. “Chi vi ha autorizzato?”, risuonò all’improvviso la voce del prefetto della basilica vaticana. Qualcuno rispose che per pregare non era necessario chiedere il permesso». Inevitabilmente il giovane Fabrizio comincia a sentirsi «stretto fra i due schieramenti: avevo amici che mi chiedevano di aggiornarli sul concilio, mentre i compagni della sinistra mi sentivano uno di loro». E ancora: «Portavo addosso l’etichetta di “rosso” e “sovversivo” e destavo preoccupazione tra i superiori della Compagnia di Gesù, tanto che la mia fedeltà alla Chiesa fu ufficialmente riconosciuta, con l’ammissione al presbiterato e poi alla professione religiosa, solo nel 1970, quando venni ordinato prete da Paolo VI».
Col passare degli anni il mondo cambia, anche se è difficile dire che cambi in meglio. Tuttavia Padre Fabrizio non cade nei due errori complementari di tanti uomini che alla fine degli anni sessanta vedono possibile una rivoluzione che poi non avviene e dunque reagiscono o semplicemente conformandosi ad un esistente sempre più grigio oppure ripiegando sull’analisi dei massimi sistemi e dimenticando il qui ed ora. La sua fede forse in questo lo aiuta tanto a non subire il contraccolpo morale del riflusso, quanto a non rinchiudersi in una dimensione esclusivamente e privatamente spirituale, giacché se i cristiani attendono la seconda venuta di Cristo, è Cristo stesso a chiarire che «Quanto poi a quel giorno o a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre» (Marco, 13, 32). L’unico consiglio che impartisce è di vigilare «poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino, perché non giunga all’improvviso, trovandovi addormentati» (Id., 23, 35-36). Padre Fabrizio pertanto non perde tempo, ricordandosi evidentemente anche in particolare di un altro passo evangelico, ovvero «ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi» (Matteo, 25, 35-36), e interpretandolo appunto quale invito a trovare i mezzi affinché si possa fare tutto ciò nel presente, malgrado le mille difficoltà dei tempi e dei luoghi, e non rimandando a condizioni cronologiche e topologiche non ancora in essere.
Così nel corso degli anni fonda, nel quartiere popolare di Cassarello, a Follonica – ove rimane nove anni – una scuola sperimentale a tempo pieno per «i ragazzi del quartiere, i figli di operai provenienti dalle campagne o dalle Colline Metallifere». Dal 1984 viene inviato a Bologna, dove collabora alle iniziative del Centro Poggeschi, la cui proposta «prevedeva una formazione “integrata” tra fede, cultura e giustizia sociale. Si accoglievano i fedeli cristiani, ma divenne anche possibile aprirsi a chiunque, a qualsiasi fede e alle più diverse posizioni politiche e culturali. Vennero organizzati momenti di spiritualità, ritiri, esercizi spirituali, ma anche seminari di studio e mostre, nonché la scuola di italiano rivolta ai primi immigrati extracomunitari, il cui arrivo costituiva allora un fenomeno nuovo per la città; il servizio presso il carcere bolognese della Dozza; la collaborazione con la missione dei gesuiti in Ciad e le esperienze di servizio in Africa».
Poi nell’autunno 2000 la svolta: «mentre ero ancora a Bologna, i superiori della Compagina di Gesù mi proposero di sperimentare a Napoli, nel quartiere di Scampia, quanto ormai da anni si andava vivendo in molti Paesi, soprattutto dell’America Latina, dell’Asia, dell’Africa». Fin dagli anni immediatamente successivi al Concilio Vaticano II si vanno infatti consolidando esperienze che uniscono «un impegno di diffusione del vangelo e di comunità cristiane riunite intorno alla parola di Dio» e un’ «urgenza di promuovere nella popolazione più povera e deprivata una formazione che partisse dall’alfabetizzazione per poi giungere alla crescita della coscienza civile» nella prospettiva del perseguimento «di un’autonomia culturale, via maestra per la crescita personale».
Le difficoltà da fronteggiare naturalmente sono notevoli. Scampia è innanzi tutto un quasi ricercato fallimento urbanistico, ove «la concentrazione in un unico luogo di tante persone senza lavoro e che si portavano appresso forti sofferenze» – provenienti originariamente dai quartieri più poveri del centro di Napoli – «provocò piuttosto un peggioramento delle condizioni di vita di molte famiglie». Rappresenta inoltre un altrettanto ricercato fallimento sociale: «In origine il disegno del quartiere prevedeva che i cittadini potessero godere di ampi spazi verdi e di diverse opportunità di socializzazione, secondo il modello di vita di un vero e proprio villaggio urbano. […] Di fatto però il quartiere si rivelò una vera e propria “polveriera sociale”, con ben 1.950 famiglie concentrate in enormi casermoni di cemento armato, le Vele, appunto». Ma pian piano nel quartiere sorgono anche chiese, scuole ed associazioni di vario tipo a fare da argine, per quanto possibile, alle enormi situazioni di degrado. La stessa «presenza dei gesuiti nel quartiere non era nuova».
«Dopo un anno trascorso praticamente in treno, fu deciso il mio trasferimento definitivo a Scampia». Superati i fisiologici problemi iniziali di ambientamento, ché vi sono «Pochissimi esercizi commerciali, nessun luogo di ritrovo – né bar, né cinema, né centri sociali – a parte alcuni locali in mano a confraternite che facevano pensare a un mondo rimasto fermo ai secoli passati. Gli unici supermercati e lo sportello bancario erano nel perimetro immediatamente esterno al quartiere. Dov’ero capitato? Nel Bronx o forse piuttosto nel Far West?», Padre Fabrizio si mette subito al lavoro: «confidavo nel fatto che avrei comunque trovato qualcosa di nuovo per la mia sete di bellezza e di giustizia, sicuro di poter condividere con altri dei percorsi innovativi, di riuscire a “costruire ponti” con una Napoli che appariva tanto distante e assente, e intuivo che alla fine il cuore dei napoletani non mi avrebbe fatto sentire fuori posto».
Hanno inizio così le sue molteplici battaglie, condotte su più fronti. Quella della formazione e del lavoro come reale alternativa al sistema camorristico, ad esempio. Malgrado le perplessità nell’ «entrare nelle maglie di un’istituzione quale la Regione Campania (che) è stato come penetrare in una foresta di alberi fitti e sconosciuti con incognite dal sapore quasi magico», Padre Fabrizio comprende che è inevitabile se si vuole «costruire qualcosa in grado di offrire ai giovani di Scampia una vera opportunità di formazione professionale». Tuttavia presto l’iniziativa si scontra con «la vera e propria assenza di una “cultura del lavoro”», derivante «sia da ragioni familiari – per molte famiglie la busta paga o la pratica di versare i contributi previdenziali e gli obblighi inerenti alla sicurezza sul lavoro sono qualcosa di assolutamente sconosciuto -, sia dalla cronica mancanza di confrontarsi sul territorio con realtà produttive e commerciali». Parimenti «la disaffezione alla legalità ha radici profonde e si manifesta proprio nell’ambito del lavoro sia da parte del lavoratore, sia da parte di chi offre lavoro». Ma mancanza di “cultura del lavoro” è per Padre Fabrizio anche la «prassi contraria, ma ampiamente diffusa fra i giovani di accettare lavori sottopagati: pur di guadagnare qualche euro si sottopongono ad uno sfruttamento scandaloso».
Altra importante battaglia è quella contro la dispersione scolastica ed in risposta della emergenza educativa. Se il dato statistico segnala «una dispersione del 30% fin dalla scuola media e di un altro 30% fin dalle superiori», ciò implica «anche e soprattutto» che questi giovani siano lasciati per strada, privi di cultura di base e destinati alla non occupazione lavorativa, e dunque ad essere adescati dalla malavita organizzata». Se inoltre le cause della dispersione scolastica vanno ricondotte alle famiglie «dove permane una grave presenza di analfabetismo e la mancanza di una tradizione culturale», il dominio della «televisione come unica fonte di informazione […] determina una percezione alienata dei reali problemi dell’esistenza»; la povertà del «corredo linguistico» di molti bambini «non permette loro neppure di comprendere la comunicazione orale» e «Il vuoto di esperienze culturali che ne deriva impedisce lo sviluppo di quell’immaginario simbolico che permette a ragazze e ragazzi di entrare in contatto con i veri problemi della vita e di confrontarsi con altre realtà significative».
Un capitolo a parte merita poi la questione carceraria, particolarmente a cuore a Padre Fabrizio ancora una volta a motivo di una esperienza risalente alla sua minore età: «Quando avevo 16 anni, Ernesto Hausmann, capo scout e giocatore di pallacanestro, portava spesso me e i miei coetanei al carcere minorile di Porta Portese, a Roma, per giocare a basket con i giovani reclusi. Il direttore vedeva di buon occhio l’iniziativa, perché giocando insieme si finiva per diventare amici con i compagni di squadra. Tutti partecipavano entusiasti: a quell’età ciò che più conta è stare insieme e divertirsi. Ricordo però che c’era un giovane detenuto che se ne rimaneva in disparte. Mi venne spontaneo, allora, chiedergli il motivo. “Io lavoro co’ ste du’ dita – mi rispose – e se gioco ho finito de lavorà!” Faceva il borsaiolo e conservare la sensibilità per agguantare i portafogli per lui era essenziale! Da allora, in ogni città in cui ho prestato servizio come assistente ecclesiastico la mia attenzione alle carceri, anche a quelle per i minori, è stata costante». Da quel momento in poi «mi sono sempre domandato cosa avesse potuto determinare in tanti detenuti la scelta di andare contro la legge». Pertanto «Come unica e necessaria possibilità» per trovare una risposta gli appare indispensabile «vivere in mezzo a loro. L’ho fatto prima a Firenze poi a Bologna, per poterli accompagnare in percorsi di riconciliazione e di reinserimento nella società».
Giunto a Napoli, Padre Fabrizio trova così assolutamente naturale continuare tale esperienza, tanto più se si considera quello che a Scampia potrebbe apparire un – triste – record: «con il tempo ho avuto modo di frequentare famiglie di Scampia che contavano più membri detenuti tra genitori, figli, fratelli e altri parenti», pesante conseguenza «di un mondo fatto di illegalità, ma anche della consuetudine a vivere il costante rischio di essere arrestati quasi fosse una sfida perenne di cui compiacersi». D’altra parte non si può non rilevare come la “cultura” della camorra, così pervasiva nel quartiere, abbia prodotto «Intorno alla grande impresa del mercato della droga, […] un’organizzazione che, insieme all’azione direttamente malavitosa, ha permesso la creazione di una rete di “solidarietà”», giacché «Il clan di appartenenza provvede a una “pensione” per le vedove e per gli orfani, come pure per le donne che hanno familiari in carcere. A questi ultimi il clan fornisce anche l’assistenza legale, con il conseguente effetto di creare un legame che persiste anche una volta scontata la pena detentiva». Egli non si limita inoltre a visitare il carcere di Secondigliano – vicino Scampia -, ma entra costantemente anche nel più celebre carcere di Poggioreale e in quello minorile di Nisida, e lo fa nella consapevolezza che i detenuti, «pur essendo responsabili di reati, sono da considerarsi l’anello più debole della società, in quanto privi della libertà». Pertanto per lui consolare i carcerati non è sufficiente se «non si promuove un’azione di recupero e di formazione al lavoro». Diversamente non si può infatti pensare «che per i detenuti possano cambiare le prospettive e ci siano reali possibilità di iniziare a vivere nella legalità una volta scontata la pena». Così come è fondamentale «Accompagnare una famiglia ad affrontare la realtà del carcere e aiutarla a credere che si possa riacquistare una libertà anche interiore».
Dopo i primi quattro anni di sperimentazione, durante i quali «la sede amministrativa delle due società di formazione professionale» già istituite «era ancora fuori da Scampia», finalmente «si concretizzò la disponibilità di un locale a Scampia», il Centro Hurtado, nato nel 2005 e tutt’ora in attività e così chiamato in memoria di «un gesuita del Cile che, alla fine degli anni Trenta e nel successivo decennio, aveva contribuito alla rinascita spirituale, culturale e sociale del suo Paese», anticipando «quanto il Concilio Vaticano II e la Compagnia di Gesù […] avrebbero indicato negli anni successivi come cammino di promozione umana ispirata al vangelo e alla giustizia». Nel centro – «edificato nel rispetto di tutte le norme previste, affinché potesse essere accreditato da parte della Regione Campania come ente di formazione» – «trovarono collocazione diverse aule, uno spazio per la biblioteca, una sala per incontri, un laboratorio di informatica, una sala per proiezioni e infine, come piccolo ma fondamentale gioiello per realizzare un sogno importante il laboratorio di sartoria, ove svolgere i corsi professionali e permettere a ragazze o donne del quartiere di lavorare onestamente».
Ben presto germogliano così rigogliosi frutti: i bambini che usufruiscono della biblioteca «dichiarano con gioia di preferire il libro alla televisione, perché si sentono liberi di volare con la fantasia!»; buoni risultati ottiene anche il laboratorio di legatoria del libro, dal momento che ancora oggi quando vi si entra «si può sperimentare l’emozione di venire a contatto con chi, con la sensibilità e la passione del lavoro artigianale, produce ed esprime bellezza», o il laboratorio di sartoria, ove ci si inventa il marchio fatto@scampia®, scelto per «sottolineare, in modo volutamente provocatorio, che Scampia è un luogo in cui non solo “ci si fa” con la droga […], ma è anche il luogo di tanta gente che “fa” e che si impegna con volontà, perizia e qualità».
Padre Fabrizio non manca tuttavia di riconoscere con onestà intellettuale anche i punti di debolezza dei vari progetti: poiché, ad esempio, ai corsi di formazione non si accompagna un’indagine di mercato, risulta «impossibile dar vita a un’attività produttiva per gli allievi del corso di grafica per mancanza di committenza». Ancor più nere appaiono «le prospettive per i giovani elettricisti, che tra l’altro, dovevano far fronte al costume diffuso del lavoro nero e sommerso». Ritorna poi il problema della mancanza di “cultura” del lavoro: le stesse ragazze che durante il corso di sartoria «si erano mostrate motivate e contente di quanto stavano apprendendo, nel momento in cui dovettero assumersi l’impegno di una costante presenza al lavoro cominciarono a manifestare una sempre maggiore indecisione e sembravano manifestare ogni tipo di scuse per non cogliere la disciplina che il lavoro richiede». Inoltre «A dar man forte intervennero pure i fidanzati, che giocarono la carta della gelosia, e i genitori, che si dicevano preoccupati di avere per tanto tempo le figlie fuori casa».
A tutto ciò si somma il “silenzio di Napoli”: se nel tempo si crea infatti una rete di sostenitori esterni ai progetti del Centro Hurtado, quelli «napoletani sono pochissimi. Perché? Non lo so, ma questo fenomeno mi conferma lo scarso interesse della città a investire nell’impresa e nel lavoro legale. […] A Napoli esiste una grande ricchezza in patrimoni finanziari, immobiliari e di vetuste tradizioni di impresa. La ricca borghesia cittadina è avidamente arroccata nella difesa dei propri beni e stenta a investire in attività produttive in genere, e ancor di più se ubicate in zone considerate a rischio».
Come prima dell’insediamento di Padre Fabrizio a Scampia, il quartiere non è soltanto spazio del malaffare e del malvivere, ma vi si trovano già insediate chiese, scuole e associazioni che, come oasi nel deserto, cercano di lavorare “in direzione ostinata e contraria” – come direbbe Fabrizio De André – rispetto al clima dominante, così, anche in seguito al suo arrivo continuano a sussistere quelle che egli stesso ama «definire “le buone notizie” nel senso evangelico del termine». Vi è chi, ad esempio, tenta di dialogare con le «famiglie slave e rom che vivono ai margini del quartiere»; chi sceglie il campo della salute mentale, ché «A Scampia, per cause molteplici e ancora poco esplorate, la presenza di giovani e adulti con sofferenze psicologiche e psichiatriche è numerosa», ma anche chi punta coraggiosamente sull’editoria, con l’intento «di produrre dal basso, in autogestione, un’editoria alla portata di tutti, con il coinvolgimento di autori e lettori»; sulla letteratura, organizzando un caffè letterario meritevole di aver «saputo mettere insieme una grande varietà di visioni del mondo e della vita, una diversità di culture e di esperienze anche religiose»; sulla musica, realizzando quello che «Sembrava un sogno impossibile», ovvero «formare un’orchestra con i bambini di Scampia» e persino sulla politica, con la creazione di un laboratorio che, pur sganciato dalle «forme tradizionali dei partiti o movimenti attivi in Italia», non rinuncia a fare riferimento a questa “antichissima pratica”, configurandosi come «un’esperienza di formazione e di partecipazione politica “dal basso”».
«Coniugare esperienza di fede e impegno sociale, servizio agli ultimi e superamento della società classista»: questi – lo abbiamo ascoltato sopra – sono i propositi del giovane Fabrizio al momento di scegliere la via del sacerdozio. Considerando, dopo oltre cinquant’anni, le sue parole alla luce di quello che è stato, si può dire che la sua ardita “scommessa” sia stata vinta? Senz’altro l’ultimo dei quattro termini di essa – «superamento della società classista» – oggi suona di primo acchito come il più datato, anche se non perché non esitano più le classi e neanche perché non esista più la lotta di classe – «C’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo», afferma quasi candidamente solo pochi anni fa l’imprenditore americano Warren Buffett, secondo alcuni il più grande value investor di tutti i tempi -, ma perché sebbene il capitalismo – almeno quello occidentale – sia sempre più in crisi, l’alternativa radicale – malgrado i fermenti di qualche anno successivi alla grave recessione iniziata nel 2007-2008, che non si sono rivelati, almeno per ora, che fuochi di paglia – sembra passarsela anche peggio. Per quanto Padre Fabrizio nel profondo del cuore – ne sono sicuro – continui ad auspicare grandi cambiamenti sia del sistema socio-economico sia della Chiesa cattolica, rimane pertanto deluso colui che – magari attingendo solo a qualche notizia frammentaria e filtrata da discorsi di altri – si attenda di leggere la storia di un sacerdote che innalza il pugno chiuso o attacca le alte gerarchie ecclesiastiche.
Egli non rinuncia in questo libro a lasciare qua e là qualche traccia più o meno esplicita di critica al sistema politico, all’assetto socio-econoimico e persino ai modi di vivere il cristianesimo vigenti.
Per quanto riguarda la prima critica l’abbiamo già udito osservare, ad esempio che «entrare nelle maglie di un’istituzione quale la Regione Campania è stato come penetrare in una foresta di alberi fitti e sconosciuti con incognite dal sapore quasi magico». Difficile pensare che si sarebbe trovato più a suo agio nelle maglie di altri enti locali, per non parlare di quelle statali, o anche dell’UE.
Per quando riguarda la secondo critica essa è identificabile nel momento in cui riconosce che la fase della progettazione di una realtà diversa – ma allude sempre ad una dimensione di micro-progettazione! – presenta enormi problemi «perché bisogna fare i conti con risorse economiche spesso insufficienti, difficoltà nell’articolare interventi sociali in collaborazione con gli apparati istituzionali» e – soprattutto! – «conseguenze pratiche di una ingiusta struttura economica e politica della società».
Infine Padre Fabrizio non rinuncia a soffermarsi più di una volta, sia pure senza avere naturalmente l’agio di approfondire, sulla sua concezione di “maturità cristiana”, come quando racconta che «Da anni ogni lunedì pomeriggio, nella sala del condominio del Lotto P o in uno degli appartamenti, incontro un gruppo di donne – madri e nonne di famiglia – per leggere insieme il vangelo della domenica. È sempre un momento molto intenso di apertura delle coscienze, di ricerca d’aiuto nella provvidenza, ma anche di responsabile riflessione su vie nuove da seguire: il felice incontro di una semplice pietà popolare con il desiderio di che cosa significa credere». Ebbene «In queste occasioni, le vicende delle singole persone, delle famiglie e della società sono rivissute con partecipazione stimolando un giudizio critico che rivela una sapienza profonda. Ciò mi spinge a pensare che se alle persone – anche quelle meno istruite – si propone un cammino di riflessione e di corretta lettura della parola di Dio, diventa possibile superare persino quelle abitudini più devozionali che, benché profondamente radicate nella cultura locale, tuttavia non portano le coscienze a una matura responsabilità e a un vero incontro con lo Spirito nel proprio vissuto».
Tuttavia, come Padre Fabrizio – lo accennavo in precedenza – non pensa mai il cristianesimo come mera attesa della seconda venuta di Cristo, così non pensa mai che l’avvento di una società e di un’economia radicalmente trasformate esimano da un impegno nel presente e sul presente. Il Todo Modo ignaziano diviene così nella sua prassi certo un metodo per fare la volontà di Dio, ma, non intendendo mai l’aiuto spirituale separato da quello materiale e morale, esso si traduce anche – come si è visto – nella collaborazione con lo stato ed i vari enti locali, così come nella collaborazione con la piccola o grande imprenditoria, nel gioco di squadra con altre realtà cattoliche, ma anche laiche, senza alcun pregiudizio, ma cercando di trarre quanto ci può essere di positivo per un maggior numero di persone possibili anche e malgrado le condizioni date e, nello specifico, anche e malgrado il profilo non impeccabile di ciascun interlocutore, che per lui è però sempre e comunque preferibile rispetto alla malavita organizzata ed alle sue nefaste logiche.
Del resto anche Gesù, gli apostoli ed i primi discepoli se talvolta vengono accolti con tutti gli onori, pure nella loro opera di evangelizzazione sono perseguitati e
lo sono – lo sappiamo – fino a morire per il Vangelo, circostanza che dovrebbe farci comprendere come fin dal principio predicare e vivere il Vangelo equivale ad una lotta con un mondo ove la maggioranza dei cuori è chiusa ed indurita perché non conosce – «La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui» (1Giovanni 3, 1) -, ma è una lotta che si combatte innanzi tutto con la più tenera delle armi, quella dell’amore.