di GUIDO VIALE (in Il Manifesto, aprile 2019)
Nella ricorrenza di ieri della «giornata della Terra» è un passo avanti che il movimento Friday for future abbia posto all’ordine del giorno il tema dei cambiamenti climatici prossimi a una deriva irreversibile e catastrofica.
Il movimento, cresciuto intorno alle comparse mediatiche di Greta Thunberg, insieme al più recente Extinction Rebellion, hanno posto all’ordine del giorno del pubblico – in gran parte tenuto all’oscuro da media, politici e accademia della gravità e dell’urgenza del problema, soprattutto in Italia – il tema dei cambiamenti climatici, ormai prossimi a una deriva irreversibile e catastrofica per la vita umana sul nostro pianeta. Una specie di «lettera scarlatta» del nostro tempo che, come quella del racconto di Poe, non riusciamo a vedere proprio perché ce l’abbiamo davanti a noi.
«Non c’è più tempo»: mancano pochi anni al punto di non ritorno: dodici per gli scienziati dell’IPCC, solo cinque per James Anderson che analizza l’evoluzione dei ghiacci sulla Terra. L’umanità tutta, i suoi governi, il suo establishment, i suoi membri arrivano completamente impreparati a questa scadenza, nota da decenni. Non è «l’inerzia» dei governi il nostro principale nemico, bensì il fatto che sia loro che noi continuiamo a bombardare il pianeta con tutte le cose che ci stanno portando alla catastrofe. Invece dovremmo tutti considerarci in guerra: non «contro il clima», ma contro le cose che facciamo o subiamo tutti i giorni. Ma per andare in guerra occorre riconvertire in tempi rapidi sia la produzione che il nostro stile di vita, dotandoci da subito delle armi necessarie a combatterla e vincerla. Lo avevano fatto in tempi strettissimi tutte le potenze impegnate nella Seconda guerra mondiale. Lo si può e deve fare anche adesso, con una mobilitazione generale.
In mezzo a tante cose giuste, Greta fa un errore, più volte ripreso dai suoi giovani seguaci: «I politici sanno che cosa bisogna fare, ma non lo fanno». Non è vero; i politici non sanno assolutamente che cosa fare, non ci hanno mai veramente pensato (pensano ad altro, al PIL, alla crescita, alle grandi opere e ai grandi eventi, al loro elettorato, alle tangenti) perché i problemi da affrontare sono troppo grandi per loro; per questo preferiscono nascondere la testa sotto la sabbia.
Certo, gli scienziati sono ormai (quasi) tutti d’accordo sull’origine antropica e l’imminenza del disastro e le tecnologie necessarie a decarbonizzare il pianeta sono ormai disponibili.
Ma la transizione comporta sconvolgimenti radicali di tutti gli assetti sociali che né i politici, né il mondo delle imprese e meno che mai la generalità dei cittadini sanno come affrontare. Ma è ora di cominciare a delineare a grandi linee i passi da compiere; la loro definizione non può essere affidata solo ai tecnici, come quelli che l’economista liberista Jeffrey Sachs ha convocato a Milano il 2 e 3 aprile per discutere di come decarbonizzare il mondo. Manca in tutto questo la politica, quella vera, cioè il coinvolgimento e l’autogoverno dei cittadini in un rapporto dialettico tra alto (i Governi) e basso (le comunità locali). Manca una road map che occorre mettere in discussione senza lasciarsene spaventare. Qui si prova a indicarne almeno alcuni passi:
1. Dichiarare, come hanno già fatto alcune città e università , lo stato di emergenza climatica. Vuol dire bloccare il più rapidamente possibile tutte le attività che producono gas climalteranti, dando la priorità a tutte quelle che concorrono alla decarbonizzazione;
2. Garantire un reddito certo a tutti i lavoratori che perderanno il lavoro – o non lo troveranno – nelle imprese soggette a chiusura, in attesa di una loro ricollocazione in imprese e progetti impegnati nella transizione energetica;
3. Spostare tutti gli investimenti e gli incentivi pubblici diretti dalle attività legate ai fossili a quelle legate alla transizione. Non si tratta di noccioline: significa, nell’immediato, bloccare produzione e importazione di auto individuali e di barche da diporto, comprese le crociere, e convertire gli impianti per produrre mezzi di trasporto collettivo o condiviso (l’elettrico, di per sé, garantisce scarsi benefici climatici, anche se emette meno inquinanti) e impianti di generazione elettrica alimentati da fonti rinnovabili; bloccare tutte le centrali termoelettriche e tutti i consumi energetici superflui; trasformare nel più breve tempo possibile involucri e alimentazione energetica di tutti gli edifici; convertire agricoltura e alimentazione alle produzioni biologiche e di prossimità , riducendo il consumo di carni, ma soprattutto di acqua e lo sfruttamento senza rigenerazione dei suoli; ridurre al minimo trasporto aereo, vacanze esotiche, import-export di merci superflue, traffico transoceanico;
4. Fissare delle sanzioni per gli Stati e le corporation che non si adeguano a queste esigenze con piani dettagliati, sottoponendoli a un monitoraggio sovranazionale. Altro che accordi di Parigi…
5. Coinvolgere il numero maggiore possibile dei residenti di ogni comunità nella definizione, nella progettazione e nella realizzazione a livello locale di questi obiettivi, perché le misure per farvi fronte non possono essere determinate in modo centralistico dagli Stati. È a questa attività , oltre che a fare pressione sui Governi, che dovranno dedicarsi fin da subito le diverse espressioni che assumerà il movimento per la salvezza climatica. La transizione che ci attende non è un’opzione tecnica, ma una rivoluzione dei consumi, degli stili di vita, degli assetti produttivi, dei rapporti di potere i cui elementi determinanti sono il conflitto e la partecipazione; per questo sono inaccettabili dall’establishment al potere, come ha cercato di spiegarci Naomi Klein nel suo libro Una rivoluzione ci salverà .
Oggi sembrano cose impossibili anche solo da concepire (e Greta viene trattata come una «deficiente»: da compatire o da lusingare; senza conseguenze). Tra pochi anni sembreranno ancora del tutto insufficienti.