Sussunzione vitale, debito e precarietà nel capitalismo bio-cognitivo


di ANDREA FUMAGALLI (in Sudcomune. Biopolitica Inchiesta Soggettivazioni, n. 1/2, 2016, Ed. Deriveapprodi)


1. Introduzione: dalla sussunzione formale alla sussunzione reale.

Nei primi decenni del XIX secolo, con il passaggio alla sussunzione reale, il processo di sfruttamento e di estrazione del plus-valore del sistema di produzione capitalistico passa dalla fase dell’estensificazione a quella dell’intensificazione del processo lavorativo. Tale passaggio avviene tramite il succedersi di tre tipi di organizzazione. L’iniziale “cooperazione semplice”, tipica della prima fase della sussunzione formale del pre-capitalismo, lascia spazio al sistema della “manifattura” della fine del XVIII secolo, nella quale, il lavoro ha ancora un contenuto e l’operaio utilizza un suo strumento, seppur in modo sempre più esclusivo e in aree ristrette. E’ la fase descritta da Adam Smith (1), quando la “cooperazione semplice” muta configurazione e si trasforma in divisione del lavoro con l’obiettivo di scomporre l’attività artigiana in operazioni differenti ed eterogenee, ciascuna delle quali assegnate in modo permanente a singoli operai. La fase organizzativa della “manifattura”, a metà del XIX Secolo, si trasforma poi nel terzo modello organizzativo che Marx denomina ”fabbrica”, dove viene meno ogni specializzazione e l’operaio è costretto dalla “macchina” a compiere operazioni monotone per tutto l’arco della giornata lavorativa. L’operaio diventa così del tutto servo della macchina, riducendosi egli stesso a macchina che agisce senza dover pensare. E in questo ultima trasformazione che si attua il passaggio alla sussunzione reale del lavoro al capitale. L’estrazione di plusvalore (ora relativo) è così determinata dall’incremento dell’intensificazione dei ritmi, dettati dalla velocità della macchina. Tale intensificazione (che gli economisti chiamano “produttività del lavoro”) è finalizzata ad abbreviare il tempo di lavoro socialmente richiesto per la produzione di una merce, così da consentire che a parità di tempo di lavoro il volume dell’output risulti maggiore. 


Concordiamo con C. Vercellone quando afferma:

«Il processo che conduce alla sussunzione reale del lavoro al capitale si avvia con la prima rivoluzione industriale. Si basa su una serie di tendenze che sfoceranno nel fordismo: la separazione progressiva del lavoro intellettuale e del lavoro manuale, quella dei compiti concettuali e materiali, la polarizzazione dei saperi e la parcellizzazione del lavoro determinano la dinamica di cambiamento tecnico e organizzativo attraverso cui il capitale afferma progressivamente il suo controllo sul prodotto e sul processo di lavoro» (2).


Soprattutto a partire dalla rivoluzione taylorista dei primi decenni del XX secolo, il tempo di lavoro immediato (direttamente impiegato nell’attività di produzione) diventa il principale metro di misura e l’origine della ricchezza. 

«In effetti, prima della rivoluzione industriale, la distinzione tra lavoro e non-lavoro era quasi assente (in un universo in cui dominavano ancora la poliattività e la polivalenza degli individui). Il lavoro (l’attività in generale) era la misura di un tempo non costretto dalle regole d’efficacia dell’orologio e del cronometro» (3). 


In seguito allo sviluppo dell’impresa capitalistica, “questo rapporto s’inverte: è il tempo che diventa la misura del lavoro” (4)  e, pertanto, diventa anche la norma di valutazione della produzione e della distribuzione della ricchezza. E’ con l’affermarsi del sistema fabbrica il tempo diventa la misura del lavoro e il tempo di lavoro emerge come fattore socialmente centrale. Il tempo dell’orologio e del cronometro come mezzi per quantificare il valore economico del lavoro e prescriverne i modi operativi rappresenta così, insieme alla macchinismo, l’essenza della trasformazione economica e culturale del lavoro determinata dalla rivoluzione industriale e le caratteristiche fondamentali della sussunzione reale.

«In tal modo, il lavoro diventa sempre più astratto , non soltanto sotto la forma del valore di scambio, ma anche nel suo contenuto, svuotato di ogni qualità intellettuale e creativa» (5).


In altre parole, la sussunzione del lavoratore al capitale diventa reale quando avviene all’interno del processo di produzione e non più soltanto dall’esterno. Essa viene dettata dalla tecnologia e dal carattere ormai esterno al lavoratore collettivo della massa dei saperi che struttura la divisione del lavoro e permette il coordinamento della cooperazione produttiva. La costrizione al lavoro salariato non è più solo di natura monetaria, ma anche tecnologica, endogeneizzata dal progresso tecnico. In tal modo, la forza lavoro individuale del produttore, ridotta sempre più a semplice appendice viva del sistema delle macchine, «non è più di per sé di alcuna utilitàquando non venga venduta al capitale» (6).


Il passaggio dalla sussunzione formale a quella reale modifica il rapporto tra forza-lavoro e macchine, ovvero tra lavoro vivo e morto, ovvero tra capitale costante e capitale variabile. Possiamo descrivere questo processo anche come una metamorfosi del rapporto tra sapere e lavoro. 


Nella sussunzione formale, l’artigiano trasformato in operaio di mestiere salarizzato mantiene comunque il controllo, seppur parziale, della sua capacità lavorativa (know how). Ciò che gli viene alienato è il valore d’uso ma non la sua professionalità. Il capitale si valorizza così ex post. Nella sussunzione reale – che arriva al suo massimo livello con lo sviluppo dell’organizzazione tayloristica del lavoro portando all’estremo la parcellizzazione del lavoro e l’automazione della produzione – il sapere e la capacità lavorativa vengono totalmente espropriate dal capitale e inglobate nel capitale costante. Si assiste così al passaggio del sapere dal lavoro vivo al lavoro morto (delle macchine).  Il capitale tende ora a autovalorizzarsi. E’ sulla base di questo passaggio che si sviluppano le principali dicotomie che irrigidimentano il sistema di produzione tayloristico: in primo luogo quella tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e quella tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro. Da tali dicotomie si dipanano altre dicotomie, quali quella tra produzione e riproduzione/consumo, ovvero tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo (che assume, socialmente, le forme di  una divisione di genere), la cui separazione sta alla base del processo di accumulazione tayloristica sino a innervare anche la struttura sociale in modo disciplinare e, per l’appunto, rigido. La divisione del lavoro che ne deriva innerva la divisione sociale e le modalità dei processi di istruzione. La formazione scolastica viene strutturata sulla base della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e tra lavoro produttivo e improduttivo.


In ultima analisi, la sussunzione reale consente al capitalismo industriale di inglobare l’insieme della società, attraverso la generalizzazione del rapporto salariale e del valore di scambio, con profondi effetti sulle abitudini e le modalità di vita dei salariati. 


2. La sussunzione del lavoro al capitale nel capitalismo bio-cognitivo: la sussunzione vitale.


Con la crisi del paradigma fordista-taylorista, si entra in una nuova fase dell’evoluzione del sistema capitalistico di produzione, al cui interno anche le caratteristiche del processo di sussunzione del lavoro al capitale si modificano, ma sono lungi dallo scomparire. Assistiamo così ad una metamorfosi delle forme dello sfruttamento.


La nuova configurazione capitalistica “post-fordista” tende a individuare nella merce “conoscenza” e nello “spazio” (geografico e virtuale) i nuovi cardini su cui fondare una capacità dinamica di accumulazione. Si vengono così a determinare due nuove economie di scala dinamiche che stanno alla base della crescita della produttività: le economie di apprendimento (learning) e le economie di rete (network). Le prime sono legate al processo di generazione e creazione di nove conoscenze (sulla base delle nuove tecnologie comunicative e informazionali), le seconde sono derivate dalle modalità organizzative distrettuali (network territoriali o aree-sistema), non più utilizzate per la sola produzione e distribuzione delle merci, ma sempre più come veicolo di diffusione (e controllo) ella conoscenza e del progresso tecnologico.


Inizialmente tale paradigma di accumulazione è stato denominato con il termine “capitalismo cognitivo” (7):

«il termine capitalismo designa la permanenza, nella metamorfosi, delle variabili fondamentali del sistema capitalistico: in particolare, il ruolo guida del profitto e del rapporto salariale o più precisamente le differenti forme di lavoro dipendente dalle quali viene estratto il plusvalore; l’attributo cognitivo mette in evidenza la nuova natura del lavoro, delle fonti di valorizzazione e della struttura di proprietà, sulle quali si fonda il processo di accumulazione e le contraddizioni che questa mutazione genera» (8).


La centralità dell’economie di apprendimento e di rete, tipiche del capitalismo cognitivo, viene messa in discussione con l’inizio del nuovo millennio in seguito alla scoppio della bolla speculativa della Net-Economy nel marzo 2000. Il nuovo paradigma cognitivo non è da solo in grado di garantire il sistema socio-economico dall’instabilità strutturale che lo caratterizza. E’ necessario che nuova liquidità venga immessa nei mercati finanziari. La capacità dei mercati finanziari di generare “valore”, infatti,  è legata allo sviluppo di “convenzioni” (bolle speculative) in grado di creare aspettative tendenzialmente omogenee che spingono i principali operatori finanziari a puntare su alcuni tipi di attività finanziarie . Negli anni ’90 è stata, appunto, la Net Economy, negli anni 2000 l’attrazione è venuta dallo sviluppo dei mercati asiatici (con la Cina che entra nel Wto nel dicembre 2001) e dalla proprietà immobiliare. Negli anni recenti, si è  a focalizzata sulla tenuta del welfare europeo (crisi del debito sovrano). A prescindere dal tipo di convenzione dominante, il capitalismo contemporaneo è perennemente alla ricerca di nuovi ambiti sociali e vitali da fagocitare e mercificare, sino a interessare sempre più quelle che sono le facoltà vitali degli esseri umani. E’ per questo che negli ultimi anni si è cominciato a parlare di bioeconomia e bio-capitalismo (9).


A questo punto, al lettore dovrebbe essere chiaro come il termine che utilizziamo in queste note non è altro che la crasi tra capitalismo cognitivo e biocapitalismo: capitalismo bio-cognitivo come definizione terminologica del capitalismo contemporaneo.


Nel capitalismo bio-cognitivo si possono evidenziare nuove dinamiche che meglio caratterizzano l’organizzazione della produzione e del lavoro e quindi le forme della valorizzazione

  • le economie dinamiche di apprendimento e di rete danno vita a nuove forme di divisione del lavoro, ovvero, rispettivamente, divisione cognitiva e divisione spaziale del lavoro, che si sommano, e in alcuni casi si sostituiscono, alla classica divisione smithiana del lavoro tipica della produzione fordista-industriale.
  • il comando d’impresa si sposta dalla produzione delle merci al controllo della tecnologia e dei flussi finanziari, dando origine ad una nuova gerarchia internazionale, di tipo policentrica, nella quale, il controllo elle leve immateriali della conoscenza e della finanza sono l’asse portante del dominio capitalistico;
  • i processi di esternalizzazione e delocalizzazione (internazionalizzazione della produzione) portano ad un ampliamento della base capitalistica  su scala globale, con l’effetto di aumentare il numero complessivo dei lavoratori salariati industriali, ma, allo stesso tempo, rendendo centrale il ruolo del lavoro cognitivo e relazionale, che nei paesi a più vecchia industrializzazione e ovunque favorisce l’egemonia  della finanza e della tecnologia.
  • la valorizzazione del capitalismo cognitivo deriva sempre più dal valore simbolico che è associato alla merce. In un contesto, in cui il valore monetario non ha più alcun rapporto con la merce (la monta è diventata pura moneta-segno), tale valorizzazione tende a incastonarsi nel valore azionario della produzione. La finanza diventa così l’ambito in cui la valorizzazione capitalistica cognitiva prende forma, come espressione della produttività del lavoro manuale industriale (in misura decrescente) e del lavoro cognitivo general intellect (in misura crescente).


Il punto che vogliamo sottolineare è proprio questo: quando si parla di capitalismo bio-cognitivo si intende la produzione di ricchezza tramite la conoscenza e la relazione cooperativa stessa, attraverso l’utilizzo di quelle facoltà della prestazione lavorativa che sono definite dall’attività cognitiva (lavoro cognitivo-relazionale), cioè principalmente di attività cerebrali e relazionali immateriali.


Essendo il cervello (come il processo di accumulazione della conoscenza) per definizione individuale, anzi elemento di definizione stessa della singola identità tramite le facoltà del linguaggio e della memoria (10), il lavoro cognitivo-relazionale è per sua natura poco omogeneizzabile, in quanto bioeconomico, vale a dire dipendente dalla biologia individuale. Proprio per la sua natura individuale, il lavoro cognitivo necessità di una elevata attività relazionale, come strumento per la trasmissione e la decodificazione della propria attività cerebrale e dei saperi accumulati: capacità cognitive e attività di relazione sono due facce della stessa medaglia, inscindibili una dall’altra, che stanno alla base del general intellect, ovvero intellettualità diffusa, già preconizzato da Marx nei Grundrisse. Il general intellect diventa così la nuova fonte principale di (plus)valore e perché diventi produttivo ha bisogno dunque di “spazio”, di sviluppare una rete di relazioni, altrimenti, se resta incorporato nella singola persona, diventa fine a se stesso, magari processo di valorizzazione individuale (valore d’uso) ma non valore di scambio per l’accumulazione della ricchezza, cioè “merce”. Il capitalismo bio-cognitivo è per forza reticolare, cioè è non lineare, e le gerarchie che sviluppa sono interne ai singoli nodi e tra i diversi nodi della rete, sono gerarchie complesse e spesso legate a fattori controllo sociale dello spazio all’interno del quale si sviluppa.


Infine, al ruolo della conoscenza e della relazione occorre aggiungere il crescente peso assunto dalla (ri)produzione sociale (11).


Il passaggio dalla produzione di denaro a mezzo di merci: (d-m-d’) alla produzione di denaro a mezzo della merce conoscenza [M(k)]: [d-m (k)- d’] ha modificato quindi il modo di produzione e il processo di valorizzazione.


Entriamo così in una nuova fase della sussunzione del lavoro al capitale, dove allo stesso tempo sussunzione formale e sussunzione reale tendono a fondersi e a alimentarsi a vicenda.


Parliamo di sussunzione formale del lavoro al capitale nel momento in cui la prestazione lavorativa fa riferimento alla capacità relazionale e ai processi di apprendimento che il singolo lavoratore detiene sulla base della sua esperienza di vita, vale a dire maturati in un periodo precedente al momento del loro utilizzo ai fini della produzione di valore di scambio. L’apprendimento e la relazione nascono come valori d’uso alla fonte e, come gli utensili e le competenze manuali degli artigiani del primo periodo capitalista, vengono poi “salarizzati”, obtorto collo (12), e formalmente sussunti nella produzione di valore di scambio. 


Come ben argomentato da Marazzi, il capitalismo bio-cognitivo tende a configurarsi come modello antropogenetico di produzione e accumulazione:


Il processo di valorizzazione avviene infatti sfruttando le capacità di apprendimento, di relazione, e di (ri)produzione degli esseri umani che si formano a monte prima dell’utilizzo diretto in produzione. Si tratta a tutti gli effetti di una sorta di accumulazione originaria in grado di mettere al lavoro e a valore quelle attività che nel paradigma fordista-taylorista erano improduttive. La sussunzione formale nel capitalismo bio-cognitivo ha quindi come effetto l’allargamento della base di accumulazione, mettendo a lavoro l’attività di formazione, di cura, di riproduzione, di consumo, di relazione sociale e di tempo libero. Cambia il concetto di lavoro: la distinzione tra lavoro direttamente produttivo (labor), lavoro artistico e culturale (opus), attività di svago (gioco e leisure) viene meno e tende a confluire in tempo di lavoro direttamente e indirettamente produttivo (13). Da questo punto si può parlare di capitalismo estrattivo e accumulazione per “spossessamento” (14).


Parallelamente, nel capitalismo bio-cognitivo la sussunzione reale si modifica, rispetto al taylorismo, in seguito al passaggio dalle tecnologie meccaniche-ripetitive a quelle linguistico-relazionali. Dalle tecnologie statiche che aumentano la produttività e l’intensità della prestazione lavorativa tramite lo sfruttamento delle economie di scala di dimensione si passa a tecnologie dinamiche come quelle di apprendimento e di rete in grado di coniugare simultaneamente attività manuali e attività cerebro-relazionali, favorendo una nuova organizzazione più flessibile del lavoro, nella quale la fase di progettazione e la fase di esecuzione non sono più perfettamente scindibili ma sempre più interdipendenti e complementari. 

«Per la prima volta dalla rivoluzione industriale meno del 10% dei lavoratori americani sono oggi occupati nel settore manifatturiero. E dato che forse la metà dei lavoratori in una tipica impresa manifatturiera sono coinvolti in attività di servizio, come design, distribuzione e attività finanziarie, la reale porzione di lavoratori che fanno cose che potete far cadere sulle dita dei piedi può essere solo il 5%» (15). 


Occorre notare che alla riduzione dell’occupazione industriale, comunque, non corrisponde un diminuzione reale della parte di prodotto manifatturiero rispetto alla produzione totale. Negli Stati Uniti e nell’insieme dei paesi sviluppati, dal 1980, la quota manifatturiera del prodotto interno lordo è rimasta pressoché immutata.


Nel periodo precedente alla crisi che si dipana dal 2008,

«la diminuzione dei posti di lavoro nel settore manifatturiero dei paesi occidentali non è attribuibile, almeno per il momento, allo spostamento en masse della produzione verso la Cina, bensì all’aumento della produttività del lavoro industriale. In Cina la forza-lavoro impiegata nella manifatturiera è circa sei volte superiore a quella americana, ma produce non più della metà del valore in dollari dei beni industriali degli Stati Uniti. D’altra parte, dall’inizio degli anni novanta, anche in Cina, a Singapore, nella Corea del Sud o a Taiwan, l’occupazione nel settore industriale sta diminuendo. La produzione di merci a mezzo di servizi, oltre all’aumento della produttività del lavoro conseguente all’automazione dei processi produttivi (più semplice nelle imprese industriali che nei servizi), riflette la saturazione del consumo di beni durevoli e l’aumento del consumo di servizi. A partire da un determinato livello di reddito, il tasso di aumento del consumo di beni durevoli (automobili, elettrodomestici, PC) si stabilizza per poi decrescere, mentre cresce il consumo di servizi. Dal 2000, ad esempio, gli americani spendono più per la loro salute e per l’educazione dei loro figli che per l’acquisto di beni durevoli» (16).


Nel capitalismo bio-cognitivo, sussunzione reale e sussunzione formale sono due facce della stessa medaglia e si alimentano a vicenda. Esse, congiuntamente, danno vita ad una nuova forma di sussunzione, che possiamo definire sussunzione vitale. Tale nuova forma dell’accumulazione capitalistica moderna evidenzia alcuni aspetti che sono alla base della crisi del capitalismo industriale. Si tratta di analizzare le nuove fonti della ricchezza (e dei rendimenti crescenti) nel capitalismo bio-cognitivo. Tali fonti derivano dalla crisi del modello di divisione tecnica e sociale generato dalla prima rivoluzione industriale e portato alle estreme conseguenze dal taylorismo e vengono alimentati dal  ruolo e dalla diffusione del sapere che obbedisce “ad una razionalità sociale cooperativa che sfugge alla concezione restrittiva del capitale umano” (17). Ne consegue che viene messo in discussione il tempo di lavoro immediato come principale e unico tempo produttivo con l’effetto che il tempo effettivo e certificato di lavoro non è più l’unica misura della produttività e l’unica garanzia di accesso al reddito. Si attua così una torsione nella tradizionale teoria del valore-lavoro verso una nuova teoria del valore, in cui il concetto di lavoro è sempre più caratterizzato dal “sapere” e si permea con il tempo di vita. Possiamo chiamare questo passaggio come la transizione verso una teoria del valore-sapere (18) o teoria del valore-vita (19), se sapere e vita tendono ad autoalimentarsi a vicenda e dove il principale capitale fisso è l’uomo “nel cui cervello risiede il sapere accumulato dalla società” (20).   


Quando la vita diventa forza-lavoro, il tempo di lavoro non è più misurabile in unità di misura standard (ore, giorni). La giornata lavorativa non ha più limiti, se non quelli naturali. Siamo in presenza di sussunzione formale e di estrazione di plus-valore assoluto. Quando la vita diventa forza-lavoro perché il cervello diventa macchina, ovvero “capitale fisso e capitale variabile allo stesso tempo”, l’intensificazione della prestazione lavorativa raggiunge il suo massimo: siamo così in presenza di sussunzione reale e estrazione di plus-valore relativo. 


Tale combinazione delle due forme di sussunzione – che possiamo definire sussunzione vitale – necessita un nuovo sistema di regolazione sociale e di governance politica. 


3. La governance della sussunzione vitale: debito e precarietà


Il processo di salarizzazione ha rappresentato storicamente la modalità principale che ha consentito il comando del capitale sul lavoro in presenza di sussunzione formale. La composizione e la divisione tecnica del lavoro, sia come espressione della separazione tra uomo e macchina che come disciplinamento e gerarchizzazione della prestazione lavorativa, ha invece caratterizzato la fase della sussunzione reale.


Se il processo di salarizzazione sia diretta che indiretta (21) è ancora lo strumento che, in parte, favorisce la sussunzione formale (basti pensare alla salarizzazione del lavoro di cura, di (ri)produzione, dell’apprendimento, anche se è ancora inesistente per quanto riguarda altre attività di lavoro produttivo, quali il consumo e le relazioni sociali, nonché attività di svago e culturali), nel capitalismo bio-cognitivo, la divisione tecnica del lavoro e la separazione tra uomo e macchina non sono più i fattori principali che alimentano la sussunzione reale. La crescita della produttività è infatti sempre più dipendente dallo sfruttamento delle economie dinamiche di apprendimento e di rete, ovvero da rendimenti crescenti di scala che si alimentano con lo scorrere di un tempo che non è più misurabile dall’esterno della prestazione lavorativa, così come il tempo di produzione della fabbrica era misurato dal cronometro applicato ai tempi e ai ritmi delle macchine. L’apprendimento e l’attività di rete, ovvero la generazione e la diffusione dei saperi, sono intrinsecamente legati alla soggettività, alla competenza e all’individualità del lavoratore/trice. I tempi dell’apprendimento e della relazione – i tempi del general intellect – diventano oggettivamente non misurabili e pertanto non controllabili e disciplinabili direttamene. 


E’ necessario quindi ridefinire nuovi strumenti di controllo, in grado di superare la disciplina e instaurare forme di controllo sociale. Già Deleuze aveva individuato questo passaggio, a partire dall’analisi di Foucault: 

«Foucault ha collocato le società disciplinari tra il Diciottesimo e il Diciannovesimo secolo; giungono al loro apogeo all’inizio del Ventesimo. Procedono all’organizzazione di grandi ambienti di reclusione. L’individuo non cessa di passare da un ambiente chiuso all’altro, ciascuno dotato di proprie leggi: dapprima la famiglia, poi la scuola («non sei più in famiglia»), poi la caserma («non sei più a scuola»), poi la fabbrica, ogni tanto l’ospedale, eventualmente la prigione che è l’ambiente di reclusione per eccellenza» (22).


Deleuze poi aggiungeva, con riferimento alla crisi degli anni ‘70:

«Ci troviamo in una crisi generalizzata di tutti gli ambienti di reclusione, prigione, ospedale, fabbrica, scuola e famiglia. La famiglia è un “interno” in crisi come tutti gli altri interni, scolastici, professionali ecc. I ministri competenti non smettono di annunciare delle riforme ritenute necessarie. Riformare la scuola, riformare l’industria, l’ospedale, l’esercito, il carcere: ma ciascuno sa che queste istituzioni sono finite, a scadenza più o meno lunga. Si tratta soltanto di gestire la loro agonia e di tenere occupata la gente fino all’installazione di nuove forze che premono alle porte. Queste sono le società del controllo che stanno per sostituire le società disciplinari. “Controllo” è il nome che Burroughs ha proposto per designare questo nuovo mostro e che Foucault riconosce come nostro prossimo avvenire» (23).


La società del controllo è la governance della sussunzione vitale. Essa si concretizza, principalmente lungo tre linee di tendenza. 

La prima è già sottolineata dallo stesso Deleuze, quando afferma:

«È forse il denaro che meglio esprime la distinzione tra le due società, poiché la disciplina si è sempre relazionata a delle monete stampate che riaffermavano l’oro come valore di riferimento, mentre il controllo rinvia a degli scambi fluttuanti, modulazioni che fanno intervenire come cifra una percentuale di differenti monete. La vecchia talpa monetaria è l’animale degli ambienti di reclusione, mentre il serpente è quello delle società del controllo» (24).


Deleuze allude in questo passo alla costruzione di aree di controllo monetario sovranazionale (il “serpente” monetario europeo dei tardi anni Ottanta) precorrendo quello che sarà il ruolo e il compito dei mercati finanziari negli ultimi venti anni: ovvero, la gestione violenta (25) della sovranità finanziaria come strumento allo stesso tempo di ricatto e di consenso sulla possibilità di accedere a mezzi monetari e di far fronte al debito pubblico e privato. Il controllo dei flussi finanziari oggi significa controllo dei meccanismi di emissione di liquidità, formalmente effettuati dalle Banche Centrali, ma sempre più dipendenti dalle logiche di comando e dalle convenzioni dell’attuale oligarchia finanziaria. L’altra faccia di tale controllo è rappresentato dalla governance dei comportamenti individuali tramite il “debito”, non più oggi solo concetto contabile ed economico, ma dispositivo indirettamente disciplinare (e quindi di controllo sociale)  della psicologia individuale, sino a sviluppare sensi di colpa e di auto-controllo (26).


Il secondo processo di controllo sociale è rappresentato dall’evoluzione delle tipologie contrattuali del lavoro verso una condizione strutturale, esistenziale e generalizzata di precarietà. La condizione precaria oggi è sinonimo di incertezza, instabilità, nomadismo, ricatto e subalternità, psicologica e non, dai mezzi di sopravvivenza. E’ condizione di dipendenza che non si manifesta nel momento stesso in cui si definisce formalmente un rapporto di lavoro ma ne sta a monte e a valle. E’ condizione esistenziale totale che impone forme di auto-controllo e di auto-repressione  con risultati ancor più forti del disciplinamento diretto della fabbrica. La condizione precaria indica un’antropologia e una psicologia comportamentale che è tanto più forte quanto più il lavoro diventa cognitivo e relazionale (27).


Debito, da un lato, precarietà, dall’altro, sono così le due architravi principali che consentono all’attuale sussunzione vitale del capitalismo bio-cognitivo di operare e di perpetuare lo sfruttamento delle nostre esistenze.



NOTE

Le note che seguono rappresentano alcune anticipazioni di argomenti che vedranno la pubblicazione in un prossimo libro per i tipi di Ombre Corte. Ringrazio i Grateful Dead, Jimi Hendrix e The Phish per il supporto psichedelico.

(1) A. Smith, Natura e causa della ricchezza delle nazioni, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma 1975

(2)  C. Vercellone, From Formal Subsumption to General Intellect: Elements for a Marxist Reading of the Thesis of Cognitive Capitalism, «Historical Materialism», n. 15, 2007, pp.  13–36

(3) Ibidem, pag.  21

(4) R. Sue citato da F. Guedj, G. Vindt, Le Temps de travail, une histoire conflictuelle, Syros, Paris, 1997, p. 44 (ripreso da C. Vercellone, R. Herrera, Trasformazioni della divisione del lavoro e General Intellect. Una critica marxista delle teorie della crescita endogena, op.cit, nota 25)

(5) C. Vercellone, From Formal Subsumption to General Intellect: Elements for a Marxist Reading of the Thesis of Cognitive Capitalism, «Historical Materialism», n. 15, 2007, pp.  13–36. Si veda anche A. Negri, Marx oltre Marx, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 333-372

(6) K. Marx,  Il Capitale, libro I, Einaudi, Torino 1970, p. 404

(7) C. Vercellone, a cura di, Capitalismo Cognitivo, Manifestolibri, Roma 2006; A. Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo, Carocci, Roma 2007; Y. Moulier-Boutang, Le capitalism cognitif. Comprendre la nouvelle grande trasformation et ses enjeux, Ed. Amsterdam, Paris 2007

(8) D. Lebert, C. Vercellone, Il ruolo della conoscenza nella dinamica di lungo periodo del capitalismo: l’ipotesi del capitalismo cognitivo, in C. Vercellone, a cura di, Capitalismo cognitivo, op.cit., pag. 22

(9) A. Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo, cit

(10) J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, Utet, Torino 1996

(11) C. Morini, Per amore o per forza, op.cit. Si veda anche A. Fumagalli, C. Morini, Cognitive bio-capitalism, social (re)production and the precarity trap: why not basic income?, «Knowledge and Culture», 2014

(12) «In mancanza di altri mezzi di accesso alla moneta e/o all’appropriazione non-mercantile dei mezzi di sussistenza», come scrivono C.Vercellone e R. Herrera in Trasformazioni della divisione del lavoro e General Intellect. Una critica marxista delle teorie della crescita endogena, cit.   

(13) Per approfondimenti A. Fumagalli, Lavoro male comune, B. Mondadori, Milano 2013, specie cap. I

(14) D. Harvey, The ‘New’ Imperialism: Accumulation by Dispossession, «Socialist Register», n. 40, 2004: http://socialistregister.com/index.php/srv/article/view/5811/2707#. V6yi9q3tAUI

(15) C. Marazzi, Capitalismo digitale e modello antropogenetico del lavoro. L’ammortamento del corpo macchina, in J. L. Laville, C. Marazzi, M. La Rosa, F. Chicchi, a cura di, Reinventare il lavoro, Sapere 2000, Roma 2005, p. 113

(16) Ibidem, p. 113

(17) C. Vercellone e R. Herrera, Trasformazioni della divisione del lavoro e General Intellect. Una critica marxista delle teorie della crescita endogena, cit.

(18) Espressione usata a C. Vercellone e R. Herrera. 

(19) A. Fumagalli, C. Morini, La vita messa a lavoro: verso una teoria del valore-vita. Il caso del valore affetto, «Sociologia del lavoro», vol. 115, 2009, p. 94-117.

(20) K.Marx, Grundrisse, vol. II, 1977, p. 725.

(21) Per salarizzazione indiretta si intende la remunerazione di un rapporto di lavoro che non è caratterizzato da elementi di prescrittività delle mansioni giuridicamente definiti e subordinati sulla base di accordi contrattuali, bensì la remunerazione di prestazioni formalmente indipedendenti e autonomi, ma di fatto sottoposti a eterodirezione unilaterale. Facciamo riferimento, ad esempio, ai vari contratti di collaborazione oggi sempre più diffusi e in massima parte relativi a forme di lavoro cognitivo (partite Iva, opera per conto terzi, consulenze di varia natura) di tipo mono-committente.

(22) G. Deleuze, «L’autre journal», n. 1, maggio 1990, ora in G. Deleuze, Pourparlers (1972-1990), Minuit, Paris 1990, pp. 240-247: http://www.ecn.org/filiarmonici/Deleuze.html

(23) Ibidem.

(24) Ibidem

(25) C. Marazzi, La violenza del capitalismo finanziario, in A. Fumagalli, S. Mezzadra, Crisi dell’economia globale, Ombre Corte, Verona 2010.

(26) M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato, Derive Approdi, Roma 2012. Si noti che in tedesco debito si traduce con “schulde” che significa anche colpa.

(27) A. Fumagalli, Lavoro male comune, op.cit.

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