di GRUPPO INCHIESTA SULLA PRECARIETA’ E IL COMUNE IN CALABRIA (in Uninomade.org, maggio, 2012)
Questo scritto nasce dentro l’esperienza d’inchiesta sulla precarietà e il comune in Calabria, portata avanti da un gruppo di compagni incontratosi a valle del seminario di ricerca “New Welfare per un sud comune”, tenutosi tra dicembre 2011 e febbraio 2012. Nelle pagine che seguono vengono illustrate le prime questioni affrontate dal gruppo di lavoro negli ultimi mesi. Farà seguito al presente testo, che è da intendersi come una “prima parte” di un lavoro in progress, una “seconda parte” (già in corso di sperimentazione) relativa alle tematiche dell’alienazione ed alle ipotesi politiche che stanno emergendo e che sono materiale di discussione con i nostri primi interlocutori, gli operatori di call center.
L’obiettivo è quello di condividere il lavoro in corso con altre esperienze d’inchiesta politica e con ricerca oggi attive in più parti d’Italia, al fine di favorire la critica e l’efficacia complessiva dell’inchiesta e dei processi di soggettivazione che questa implica.
I. Lo sfruttamento del lavoro immateriale nei call center
L’operatore precario di call center è un soggetto esemplare per quanto riguarda lo sfruttamento del lavoro immateriale. Esemplare, in questo caso, vuol dire tradizionale. Nuovi soggetti al lavoro e vecchie forme di sfruttamento, cosi potremmo sintetizzare i rapporti interni di un call center, dove gli operatori sono imbrigliati (loggati) in una rete informatica, comandati attraverso procedure simili a quelle della fabbrica tayloristica e sfruttati sulla base del tempo come misura del valore lavoro. Il tempo è tutto in un call center, come ha efficacemente osservato Paolo Greco, in un interessante contributo apparso sul portale di Uninomade 2.0, «la vita dell’operatore è segnata dal controllo costante dei tempi». Sfruttamento tradizionale in questi termini, come sfruttamento di ogni secondo che l’operatore passa al videoterminale, al pari di quando il plusvalore veniva generato alla catena di montaggio, perché, per dirlo con una nota critica di Marx, «se l’operaio consuma per se stesso il proprio tempo disponibile egli deruba il capitalista». Ma ciò che è richiesto all’operatore di call center è imparagonabile a quanto richiesto all’operaio massa della trascorsa stagione industriale: perché nei call center non si produce nulla, ma si vendono servizi e assistenza, e per far ciò servono abilità non materiali, qualità che gli operatori acquisiscono attraverso l’educazione familiare, le loro esperienze di vita e socializzazione, insomma “fuori” dal posto di lavoro. Queste qualità sono indivisibili e inseparabili dal soggetto che le detiene. Non è più possibile, a fronte del lavoro di operatore di call center (e del lavoro immateriale in generale), applicare il primo principio dell’organizzazione scientifica del lavoro per il quale, come deposto da Taylor, «la direzione si assume il dovere di raccogliere decisamente tutta la massa di conoscenze che nel passato erano patrimonio dei lavoratori e poi le registrano, le radunano e, in certi casi, le riducono a leggi, regole e perfino formule matematiche (…) il primo di questi principi, quindi, può essere chiamato lo sviluppo di una scienza che rimpiazzi le vecchie conoscenze approssimative degli operai»[i]. Gli “organizzatori scientifici” del call center non possono radunare e formalizzare nulla, perché è impossibile separare l’operatore dallo strumento chiave che genera il valore; non possono, in altri termini, “rimpiazzare le conoscenze operaie” perché queste sono ormai qualità indivisibili dai soggetti che le detengono. Un’intervista condotta con un operatore, protagonista di una rocambolesca occupazione svoltasi lo scorso inverno in provincia di Cosenza, è esemplificativa di quanto stiamo dicendo:
«la capacità produttiva di ogni singolo operatore di call center consiste in una serie di caratteristiche intrinseche provenienti comunque dalla propria forma mentis culturale, dal grado di istruzione e dalla capacità di saper ascoltare e saper cogliere nelle parole dell’interlocutore il momento opportuno per proporre la vendita del prodotto che si vuole piazzare»
Nei “discount della parola”, dunque, il valore è generato dai saperi relazionali degli operatori e dalle loro competenze tecnico informatiche, saperi e competenze che rappresentano il “comune” sul quale i capitalisti dei call center generano i loro profitti, ma che non viene contabilizzato in alcun modo nei salari degli operatori. Non potendo intervenire direttamente sul principale mezzo di produzione, gli imprenditori dei call center definiscono le linee di comando a monte del processo lavorativo tramite sistemi informatici che permettono la gestione del contatto con il potenziale cliente e il controllo continuo dell’attività autonoma degli operatori. A questi ultimi, infatti, viene cronometrata la giornata lavorativa in “secondi”, indipendentemente dalle abilità e doti messe in gioco durante le singole telefonate. Nei call center la “miseria della misura”, insieme all’elevato tasso di stress ed al ricatto costante della riconferma del contratto di lavoro, si riverbera direttamente sulla vita degli operatori precari che, pur di ottenere un reddito intorno alla soglia di povertà relativa, vivono come se fossero sempre al lavoro sotto un continuo e pressante controllo. Per usare le parole di un operatore cacciato via dopo un lungo periodo di mobbing: «come se avessimo sempre quelle maledette cuffie addosso»:
«Tu sei controllato dal momento in cui sei sempre connesso, loggato diciamo noi. Praticamente essere loggato vuol dire essere sempre sotto controllo, nel momento che tu accedi al sistema informatico si sa tutto di quello che fai, con chi parli, cosa dici, quanto tempo ci metti per fare una chiamata, per dare delle risposte eccetera. Questo diciamo è il controllo di quello che fai durante la giornata, di quanto stai connesso e di cosa fai quando sei sul sistema…».
II. La produzione di soggettività adeguata nei call center
Il sogno di ogni team leader (e prima di lui di ogni padrone) è quello di avere a che fare con operatori “produttivi” che hanno fatto propri i valori aziendali. Il team leader sa bene, però, che si tratta di un sogno irrealizzabile. Nei periodi in cui le cose vanno bene, quando cioè si danno contemporaneamente retribuzioni intorno ai mille euro, per gli operatori precari, e margini di profitto elevati per l’azienda, il sogno appare come un ideale perseguibile. Nei periodi come il nostro invece – nel quale diminuiscono gli investimenti delle imprese committenti, e/o calano le vendite dei servizi agli utenti finali, oppure quando il rapporto di forza tra l’impresa committente e l’azienda call center è fortemente a vantaggio della prima (clausole stringenti, imposizione del raggiungimento di elevati obiettivi di vendita, eccetera) – il sogno del team leader si tramuta facilmente in incubo e, con esso, i valori aziendali spacciati fino a quel momento come “vincenti e positivi” si rivelano a tutti gli effetti come costrutti ideologici. In questi periodi l’adattamento dell’operatore precario inizia a vacillare ed il team leader, progressivamente, sveste gli abiti del consigliere e indossa quelli del capetto e del cronometrista. In tale stato di cose il processo di adattamento (produzione) dell’operatore all’azienda si inceppa irrimediabilmente; e i valori aziendali, fino a poco tempo prima “convincenti”, rivelano il loro ruolo di veicolo di prescrizioni comportamentali a cui attenersi, indipendentemente dal fatto se ci siano le condizioni (oggettive e soggettive) che permettono all’operatore di rispondere adeguatamente alle richieste del team leader e dell’azienda. Quando ciò avviene la “farsa” della mission aziendale mostra tutta la sua materialità: il ritornello dei dirigenti, per voce del team leader, sono sempre gli stessi a fronte di condizioni materiali e organizzative del lavoro sostanzialmente peggiorate. Si genera cosi una situazione di conflitto interno all’organizzazione difficile da pacificare (se non per brevi periodi contraddistinti dall’acquisizione di buone commesse), che spesso è contraddistinta da “esplosioni” di rabbia e dall’allontanamento, più o meno forzato, degli operatori mostratisi recalcitranti, non integrabili nel sistema aziendale; in una parola: inaffidabili.
Proviamo adesso, con il supporto degli operatori che hanno fatto propria l’esperienza dell’inchiesta, a descrivere in modo sintetico in cosa consiste il “processo di produzione” di un operatore di call center affidabile, partendo da chi svolge attività outbound (chiamare le persone per proporre la vendita di un prodotto). I momenti di tale processo, in generale, sono di tre tipi: percorsi formativi (a monte e durante il periodo lavorativo), incontri vis a vis con il team leader durante la giornata lavorativa (le “chiamate”), riunioni di gruppo con responsabili aziendali e/o team leader).
I corsi di formazione, generalmente di breve durata, sono concepiti ed erogati al fine di selezionare gli operatori e valutare i potenziali di affidabilità dei singoli. Generalmente il corso comincia con la comunicazione degli obiettivi che un “bravo” operatore deve raggiungere grazie alla sua capacità di gestire in modo professionale il maggior numero di chiamate nel minor tempo possibile. Già dagli obiettivi sono ravvisabili le “pressioni” che l’operatore si troverà a subire: da un lato quella dei “tempi” (pressione che permette al call center di realizzare i propri guadagni), da un altro lato quella della “professionalità” (pressione volta a garantire l’impresa committente del servizio). Il corso di formazione è utile all’operatore in quanto gli offre degli strumenti cognitivi per sopportare queste due pressioni, che non di rado si presentano come contraddittorie. Come scritto nelle dispense e ribadito a monte di ogni corso di formazione per operatore di call center: «l’operatore deve saper gestire correttamente la telefonata, deve saper affrontare le lamentele, superare le obiezioni e gestire i diversi tipi di clienti in base alla loro personalità». Il tutto nel minor tempo possibile, ossia nel “tempo medio di conversazione”[ii].
I metodi e le tecniche per raggiungere tali obiettivi (“gestire clienti in base alla loro personalità”) sono praticamente i contenuti di un corso, contenuti che affondano le loro radici nelle scienze sociali americane inerenti la gestione dei conflitti nelle organizzazioni complesse: dalle teorie dell’assertività ai role playing, dai criteri di auto motivazione alle tecniche di vendita, dagli stress test a varie tecniche di autocontrollo, dai test di cultura generale ei test di logica e psico attitudinali… e cosi via per un lungo elenco formulato ad hoc dagli psicologi e sociologi del marketing.
Il corso di formazione, in poche parole, serve per convincere gli operatori di un paio di assiomi: il lavoro di call center è valutato sulla base del raggiungimento di determinati obiettivi (principio di efficacia/efficienza); gli obiettivi possono essere raggiunti attraverso il miglioramento progressivo delle performance soggettive dell’operatore. Non ci sono altre dimensioni da prendere in considerazione. Il corso di formazione illustra i binari entro i quali l’operatore si troverà a svolgere la sua esperienza lavorativa, nella quale tutto dipenderà da lui, dalle sue capacità, dalla sua flessibilità, dal livello delle performance linguistico relazionali che riuscirà ad esprimere.
Di converso è ben noto che l’operatore non è un demiurgo, che la sua capacità di vendere dipende anche dalla capacità di acquistare di chi sta all’altro capo del telefono, dall’interesse che quest’ultimo incontra verso il prodotto/servizio proposto. Detto altrimenti la capacità commerciale dell’operatore dipende in larga parte dalle liste di clienti che il call center (molto più spesso l’impresa committente) gli concede. Migliore è la lista maggiori saranno le vendite, e viceversa: i grandi Al Pacino e Jack Lemmon, in Americani di James Foley, insegnano!
Da questo punto di vista, facendo perno esclusivamente sulle qualità dell’operatore, il corso di formazione si trova di fatto a veicolare verso il basso le responsabilità dell’azione imprenditoriale (liste scadenti, clima teso, eccetera) che vengono imputate piuttosto alle performance dell’operatore[iii].
Anche le “chiamate” e le “riunioni” svolgono la stessa funzione, ma se i corsi di formazione a monte dell’esperienza lavorativa, data anche la loro breve durata, servono soprattutto per escludere a priori soggetti potenzialmente conflittuali (o inadeguati a irreggimentarsi nelle procedure e regole del call center) le “chiamate” e le “riunioni” svolgono la funzione di controllo continuo delle performance e dell’emotività degli operatori al lavoro. Servono sostanzialmente a ribadire l’ideologia del call center, nel tentativo di “rifunzionalizzare” un operatore in calo di produttività o con disposizione conflittuale. Ecco un operatore con dieci anni di lavoro sulle spalle come descrive le chiamate e le riunioni:
«Quando hai una chiamata vuol dire che c’è qualcosa che non va bene, che è successo qualcosa; quando ti chiamano devono praticamente riprenderti per dirti che non stai andando bene…..ti chiamano in disparte per dirtelo a tu per tu…. Invece quando devono farti un complimento, quando ti devono dire che sei andato bene, te lo dicono pubblicamente davanti a tutti…. e solitamente te lo dicono vicino a qualcuno che sta andando male o che ha avuto una chiamata, in modo che lui possa sentire il complimento, per invogliarlo a vendere di più a non incorrere più nello sbaglio per il quale è stato ripreso…… la chiamata serve per dire: guarda che ti controllo, che non stai andando bene, che puoi rischiare……. oppure può essere benevola, per dire: bravo, congratulazione, siamo fieri di te, continua cosi e raggiungi sicuramente i tuoi obiettivi (…) le riunioni invece avvengono quando ti riuniscono in una stanza e ti fanno i soliti trabocchetti: ma cosa è successo…. Come mai non state andando bene….. i nostri concorrenti a parità di qualità delle liste riescono a vendere molto di più… come mai… dov’è il problema…. Fateci capire dov’è il problema»
Allo stesso operatore quando gli viene chiesto cosa rispondono alle domande che gli vengono poste, se ai responsabili ed al team leader fanno capire dov’è il problema, ecco cosa risponde:
«No! È proprio lì l’inganno. Il problema vero sono le liste di telefonate che ci danno, che magari fanno schifo e non servono a due lire…. Lo scarto dello scarto…. Ma tu questo non lo devi dire, perché se lo dici la prima volta, poi una seconda volta e cosi via a quel punto sei mobbizzato…. Loro lo sanno che sono le liste che fanno schifo ma il problema deve essere ribaltato sul lavoratore …. Tu puoi dirgli tutto ma non che sono le liste, già da come impostano il problema “fateci capire”… “dov’è il problema”…. Loro danno per scontato che il problema è nella capacità di vendita non in questioni oggettive come una lista di merda….. questo lo fanno anche per aumentare la competitività e la produttività……. ed anche per rendere più fedele l’operatore, perché se tu sai che il fatto delle minori vendite dipende dalle liste schifose ma non lo dici, perché hai paura di essere mobbizzato, accetti che ufficialmente dipende da te e quindi sei più disposto al lecchinaggio…. al contrario se invece gli dici e ripeti che il problema sono le liste prima o poi verrai fatto fuori in qualche modo».
Quanto appena riportato è di estrema importanza. Non si tratta del caso di un singolo call center, ma di una pratica abbastanza consolidata come espresso dalla maggior parte degli intervistati. Ci si trova, impotenti, sull’orlo del precipizio, senza le argomentazioni per controbattere le posizioni padronali e con il morale a terra, svuotati delle “motivazioni” necessarie per “sorridere al cliente… e ragionare nell’ottica di quest’ultimo”[iv]. E’ ciò non può accadere, in quanto in aperto contrasto con la figura stessa di operatore di call center che, come rilevato da Francesca e Nella grazie ad un’indagine sul campo:
«quello dell’operatore è un lavoro che ti costringe, giornalmente, a vivere dietro una maschera di estrema cortesia, numerosi sorrisi e costante pazienza, necessari a gestire le innumerevoli telefonate che si ricevono nel contesto lavorativo di forte precarietà ed alienazione».
Probabilmente la prima cosa da fare con l’inchiesta politica nei call center è quella di buttare giù le maschere dei “bravi operatori”. Maschere che sono fonte di sfruttamento ed alienazione, che coprono le responsabilità del potere aziendale ed obbligano il lavoro cognitivo degli operatori a sottomettersi ad obiettivi eterodeterminati e spesso contraddittori. Ma di questo, insieme ad una appropriata analisi di contesto, ne parleremo dettagliatamente nel prossimo intervento.
Sullo sfruttamento e la produzione di soggettività nei call center
[i] “La deposizione di Taylor davanti alla commissione speciale della Camera dei Deputati” (25/01/1912), in F. W. Taylor, L’organizzazione scientifica del lavoro, Edizioni di Comunità, Milano 1952, pag. 269.
[ii] Paolo Greco, in “Analisi di un call center” (Uni Nomade 2.0 del 27/05/2011), descrive il modo in cui viene suddiviso il tempo (TMC: tempo medio di conversazione; NR: tempo in cui si è occupati in altra conversazione; WAIT: tempo di attesa tra due chiamate; NOT Ready non telefonico: tempo in cui si sta gestendo il back office) e di come tale divisione, oltre a garantire maggiori profitti al call center, sia funzionale «ai fini di controllo e di pressione nei confronti degli operatori» (pag. 4).
[iii] “Americani” è un film straordinario che descrive la vita di alcuni venditori di immobili e le pressioni che questi sono costretti a subire da parte del team leader e dei responsabili dell’impresa. Seppure le figure narrate non sono operatori di call center veri e propri, ma venditori (che lavorano comunque abbondantemente con il telefono), il ribaltamento delle responsabilità aziendali sui singoli operatori è descritto in modo esemplare. Quando Jack Lemmon dice al giovane rampante (inviato dall’impresa per motivare – in modo aggressivo e terroristico – un gruppo di venditori) che le “liste sono scadenti”, la risposta di Alec Baldwin è la seguente: «le liste sono scadenti? No, tu sei scadente!». Tra gli operatori calabresi di call center e i venditori americani di immobili probabilmente le differenze sono molte, ma l’impostazione di fondo dei rapporti interni all’organizzazione e i modi di superamento delle criticità paiono davvero molto simili, esclusivamente a carico degli operatori.
[iv] Come ha osservato Carlo Vercellone «il controllo si sposta sempre più a monte e a valle dell’atto produttivo stesso, facendo del controllo totale del tempo e dei comportamenti dei salariati la posta in gioco centrale. Esso si concretizza nella moltiplicazione di tutta una panoplia di strumenti di valutazione della soggettività del lavoratore e della sua conformità ai valori dell’impresa, inducendo spesso quelle che in psicologia si chiamano ingiunzioni paradossali (…) Bisogna notare che una delle dimensioni più pregnanti di questa evoluzione non è il solo inasprimento dello sfruttamento nel senso più classico ed economico del termine. Declassamento e precarietà vanno anche di pari passo con un’alienazione crescente del lavoro. Essa proviene da una contraddizione sempre più profonda fra la potenza di agire iscritta nella dimensione cognitiva del lavoro, da una parte, e l’obbligo di sottomettersi a obiettivi etero determinati e spesso in contrasto netto con i valori etici dei lavoratori», in “La legge del valore nel passaggio dal capitalismo industriale al nuovo capitalismo” (UniNomade 2.0 del 26/01/2012).