Sulla “città accogliente”

di ANDREA CEGNA (in Effimera.org, agosto 2018)

Lo scorso anno all’indomani della manifestazione “Milano senza muri” che portò in piazza 100’000 persone contro il razzismo, e mostrò visivamente una falla dentro le maglie del Partito Democratico che, da una parte si faceva promotore con Majorino della manifestazione, dell’altra governando, a livello nazionale, varava la legge Minniti-Orlando, vero atto di guerra contro poveri e migranti, scrivendo per Effimera un pezzo sulla giornata sostenevoche avevamo l’urgenza di contrapporre alle città del decoro quella “accogliente”.
Majorino e il sindaco di Milano Sala non hanno certamente aperto una critica diretta al governo e alla tremenda legge sopracitata, hanno provato a portare un generico discorso di buon senso sulla necessità di accogliere. Senza parlare di cosa significhi accogliere. Nella preparazione della manifestazione era però emersa una rete, Nessuna Persona è Illegale, che ha portato in piazza una posizione certamente radicale, capace di mettere a critica il governo, l’idea stessa di accoglienza e aprendo la discussione e spostando il tema dal governo dei flussi al diritto di migrare. Quel giorno emergeva con forza uno scontro tra la città vetrina di Expo e la città dei diritti sociali, con l’ipocrisia in seno alla “sinistra” PD che nel nome del grande evento imponeva, con il decoro, speculazioni e un progetto urbano volto all’attrazione di capitale ma dall’altra chiedeva una condotta “umana” nella gestione dei flussi migratori, con una dose massiccia di carità, e parimenti una democratizzazione del capitalismo. Certamente anche oggi il decoro e la sua perversa ideologia restano una modalità di governo del territorio che risponde alle logiche di accumulazione di ricchezza tramite turistificazione e investimenti privati. Recentemente il Subcomandante Galeano (il nuovo nome che ha assunto Marcos) ha detto”Ogni città ne contiene molte altre, ma una centrale: la città del capitale. I muri che circondano questa città sono formati da leggi, piani di urbanizzazione, poliziotti e gruppi di scontro.”. Uso la citazione a supporto di quanto scrivevo lo scorso anno, e ampliando il discorso: abbiamo bisogno di un idea di città da contrapporre a quella dominante, che oggi non è più quella del decoro ma è quella che usa il decoro, il razzismo e forme subdole di narrativa politica per rispondere ai bisogni (reali ed indotti) di cittadini spaventati e impoveriti. Insomma la città accogliente (o come si vuole chiamare) una volta definita potrebbe essereidea minima da utilizzare sia come antibiotico alla città ostile ai poveri/chiusa/speculativa fondata sulla deriva razzista/nazionalista che in Italia e nel mondo occidentale vediamo avanzare e che ha come ricetta economica l’illusione di portare l’orologio del capitalismo indietro di 20 anni, quando la ricchezza era più distribuita tra le mura del mondo occidentale. Sia come alternativa teorica alle ambiguità dei “centro sinistra”, che come si è visto a Milano il 20, maggio o nella giornata d’opposizione al meeting Salvini-Orban (28.08.2018) riescono a ritagliarsi spazio d’ambiguità dentro i percorsi di rifiuto ai razzismi conclamati pur essendo tra gli attori ed estensori della città del decoro, delle retoriche della sicurezza e facilitatori del capitalismo.
Quindi a differenza di quanto sostenevo, oggi la contrapposizione con la città del decoro è inutile al cambiamento radicale e paradigmatico. Ma la città dell’accoglienza potrebbe invece essere una risposta paradigmatica alla città del capitale, che è ben più ampia della sola città del decoro, e alle ipocrisie della politica.
A questa introduzione, sicuramente rapida e quindi fallace aggiungo alcuni paragrafi per entrare nel merito del discorso. E provando a definire alcuni parti essenziali, provando a spiegare perché essenziali.
Perché ripartire dalla città? E perché dalla città dell’accoglienza? Da qualche tempo la popolazione urbana ha superato in numero quella rurale, e i processi di accumulazione del capitalismo vedono spesso la città come luogo di sperimentazione. Dentro le città le persone imparano anche a vivere a condividere spazi, a rapportarsi con gli altri essere viventi. Diverso crescere in una città interculturale o in una città divisa in ghetti. Le città diventano oggi i luoghi del disciplinamento sociale con regole stringenti che tendono ad incanalare le vite. La città è anche il luogo di sviluppo di pratiche consolidate del capitalismo. Se pensiamo alla logica dei grandi eventi, e di come ospitare Expo, Mondiale o Olimpiadi siano occasioni di drenaggio di risorse pubbliche, stress alle maglie del diritto, creazione di stati d’eccezione e di trasformazione urbana, non possiamo non cogliere che attraverso percorsi come C40 si creino reti di metropoli mondiali che, attorno al tema del riscaldamento globale, si danno regole comuni di sviluppo. Uno sviluppo non in conflitto con il capitalismo, ma dentro alle sue retoriche green.
La città diventa il luogo di superamento delle maglie dello stato nazione, quando le maglie dello stato nazione sono ostacolanti, e di sperimentazione di nuove pratiche di accumulazione. Forse non è nemmeno un caso che la NATO si aspetti che le guerre del futuro si combatteranno proprio nelle città.
La città è anche il posto dove si può, contrapponendosi con altra idea, costruire alternativa e conflitto. Non è casuale che “le città ribelli” siano realtà, e che il dialogo tra di loro sia elemento importante di contraltare perchè porta visioni differenti di amministrazione. Ed è certamente interessante vedere come il governo cittadino di Madrid, Barcellona, o Napoli agisca contrastando nel reale alcune politiche nazionali. Ma è anche vero che le città ribelli spesso si scontrano con le contraddizioni date dal contesto, dal sistema economico e anche con l’essere percorso in divenire e in costruzione nel tempo stesso dell’amministrazione. E con la complessità che il governare obbliga. Non voglio così attaccare o difendere l’operato dei sindaci delle città sopracitate. Non conosco abbastanza il contesto per farlo, ma allo stesso tempo mi pare che dentro le problematiche esistenti quei tre esempi di governo della città abbia anche degli sprazzi interessanti.
La città accogliente deve essere idea e direzione, collettiva, che non vive però della/nella necessità di averne il governo per essere costruita, pretesa e alimentata. Certo il governo della città è occasione di velocizzazione del percorso, nel caso. La città accogliente dovrebbe essere un luogo dove si riconoscono le differenti necessità e i differenti modi di vivere e si trasformino in valore aggiunto. La conflittualità tra modi di vivere venga assunta come elemento di discussione. Dove il mutuo soccorso argina le distanze sociali indotte dalle leggi nazionali. Perchè se è chiaro che il luogo città non può agire, per esempio, sulle leggi sul lavoro può sperimentare forme di ridistribuzione e di spesa condivisa del denaro pubblico. Può quindi evitare di spendere soldi in “sicurezza” ma dare sicurezza e futuro attraverso politiche sociali e abitative. Dove il governo della città non arriva è il mutuo soccorso a sostituirsi limando le distanze sociali. E se il governo della città è ostile alla città accogliente saranno i cittadini a prendersi gli spazi di autogoverno necessari alla sua costruzione. Chi vive la città è suo attore protagonista, e non interessa più la provenienza geografica o sociale. Nella solidarietà attiva l’abbattimento delle distanze e delle paure. Costruendo l’idea di città accogliente si da forza ai percorsi di disobbedienza e rivolta, si aprono i porti quando qualcuno li chiude, si difendono case e spazi sociali, si fa mutualismo ad ogni livello. Combattendo nel terreno urbano le logiche del capitale che per riprodursi in fase di crisi crea nemici da dare in pasto alle persone che perdono certezze, risorse economiche, libertà, e futuro. Si crea così altra società, altra relazione, e altra cultura avendo uno spazio di lavoro politico e sociale ridotto, ma non meno complesso. Ovviamente la condivisione e la costruzione dell’idea di “città accogliente” ridisegnerebbe il concetto stesso di “accoglienza”, oggi usato e abusato nella politica nostrana. Sottraendolo alla logica del “governo dei flussi”, alla mercificazione e alla negazione della soggettività stessa dei migranti e quindi alle speculazioni economiche e a quelle politiche, aprendo le porte, porti, aeroporti e stazioni nel nome della libertà di movimento.
Il tutto agito contemporaneamente diventerebbe forma di contropotere, e anche di possibile altro governo, mondo, società. O semplicemente un modo per rispondere alle tante città che il capitale vuole imporre.