di GRUPPO DI INCHIESTA SULLA PRECARIETA’ E IL COMUNE IN CALABRIA (in Uninomade.org, agosto 2012)
Questa funzione di sorveglianza, di direzione, e di mediazione diviene la funzione del capitale da quando il lavoro che gli è subordinato diviene cooperativo, e come funzione capitalista essa assume caratteri speciali.
K. Marx, Il Capitale,I, XIII
Ore 20.30, un ricercatore precario torna a casa, l’attendono i figli e la moglie, anche lei tornata da poco dal lavoro. Posa la borsa, bacia i figli, toglie la giacca, va a lavarsi le mani… squilla il telefono. Il nostro ricercatore già sa chi l’attende dall’altro capo della cornetta: è fastweb, o meglio il call center che gestisce per fastweb alcune promozioni. Già conosce il motivo della telefonata, aveva accettato la promozione via telefono ma non aveva firmato il contratto, nel frattempo si era pentito di aver detto sì all’operatrice che gli proponeva grandi vantaggi sulla bolletta:
«pronto sono Simona dalla fastweb, telefono per la promozione alla quale lei ha aderito» …
«sì, ricordo, ma guardi ho cambiato idea, non m’interessa più la vostra proposta, non intendo cambiare»
«ma come lei ha dichiarato durante una telefonata registrata che accettava la promozione, non sa che gli impegni si rispettano?»
«Guardi le ho già detto che non sono più interessato, lei non sa che non si chiama per queste cose ad ora di cena? eppoi mi lasci in pace, della promozione non se ne fa niente, non ho firmato nessun contratto e non sono interessato punto!»
«guardi che così non è corretto, il suo comportamento non è leale, aveva preso un impegno» … «senta, adesso mi ha davvero scocciato, chiama a questo orario dopo una giornata di lavoro e mi devo sorbire anche da una ragazzina morali sulla lealtà e il comportamento, lasci perdere» «Ah! Da una ragazzina, allora sa cosa le dico: vada affanculo lei e quella stronza di sua moglie!».
L’operatrice di call center non c’è l’ha fatta, non ha resistito. Al termine della giornata con quel vaffanculo ha dato sfogo a settimane di stress, trasgredendo la regola fondamentale del proprio lavoro, ripetuta alla noia nei corsi di formazione e messa nera su bianco nelle dispense degli stessi a proposito dell’empatia: «per riuscire a gestire le obiezioni dunque è necessario evitare assolutamente lo scontro con il cliente e mettersi dalla sua parte. Questo non significa dargli ragione, bensì creare le condizioni per un dialogo».
Quando racconto questo fatto ad una amica che lavora nei call center da più di cinque anni, subito mi dice che la telefonata sicuramente non proveniva dalla postazione di lavoro, in quei casi – sotto l’occhio vigile del team leader – non si sbotta quando un cliente ti aggredisce, cosa che avviene quotidianamente e di frequente, al limite ci si mette a piangere, di solito di nascosto, al termine della telefonata. Le rispondo che forse è meglio sbottare con una parolaccia che mettersi a piangere, ma lei non è d’accordo e mi dice che, a partire dalla sua esperienza, quando arrivi a trattare male i clienti vuol dire che hai accumulato un tale stress e cosi tanta negatività che è il caso di abbandonare immediatamente il lavoro, pena il rischio di seri esaurimenti nervosi. Mi diceva che lei ha avuto tre amiche che, via parolaccia o via pianto, sono passate direttamente dal call center al lettino dello psicanalista.
Al termine di un precedente scritto apparso su UniNomade 2.0 (Sullo sfruttamento e la produzione di soggettività nei call center) avevamo accennato al problema del disagio e dei disturbi psicofisici generati dal lavoro di operatore call center, lavoro che induce spesso quelle che in psicologia si chiamano ingiunzioni paradossali, ossia situazioni in cui l’intimazione di un superiore, nel caso di un team leader, mette il lavoratore in una posizione insostenibile, una posizione per cui se realmente obbedisce all’ordine che gli è stato rivolto di fatto disobbedisce. Per fare degli esempi: se, quando gli sono chiesti i motivi di un suo calo di produttività, risponde che è causa delle liste di clienti che sono vecchie e inservibili, di fatto esce fuori dal seminato perché il problema deve essere inquadrato e ribaltato sul lavoratore, dire che sono le liste che sono lo scarto dello scarto equivale ad essere mobizzato. Ancora, se durante una telefonata, prolissa a causa della cliente, fa proprio il principio della cordialità e cortesia e non attacca oltre un certo limite temporale ribaditogli dal team leader, disobbedisce pur avendo obbedito ai principi generali del call center. E così via, ecco perché si generano situazioni insostenibili, perché comunque vada, obbedienza e disobbedienza sono dimensioni che, in certi casi, diventano indipendenti dai valori che hanno ispirato il comportamento effettivamente mantenuto.
É il caso adesso di soffermarsi su queste situazioni insostenibili in quanto rivelatrici del fatto che nel nuovo capitalismo, di cui il lavoro di call center è un caso esemplare, «declassamento e precarietà non sono solo il frutto dell’inasprimento dello sfruttamento più classico ed economico del termine ma vanno anche di pari passo con un’alienazione crescente del lavoro»[i].
I. Inbound/Outbound
Gli ambiti nei quali si generano le pressioni alle quali l’operatore è sottoposto durante il suo lavoro: la corretta gestione delle telefonate, l’abilità nell’affrontare le lamentele e superare le obiezioni, la capacità di gestire i diversi tipi di clienti in base alla loro personalità e cosi via. Tutto ciò nel minor tempo possibile, altrimenti il richiamo del team leader sarà diretto ed esplicito.
L’obiettivo centrale dell’azienda, è noto, è quello di gestire il maggior numero di chiamate per ottenere maggiori margini di guadagno. Non importa se l’operatore condivide l’ideologia ufficiale o se le pressioni con le quali convive siano divenute nel tempo insostenibili.
Bisogna comunque dire che, il livello di pressione, stress e negatività a cui sono sottoposti gli operatori di call center è differente a secondo del lavoro effettivamente svolto: livello maggiore (e di gestione particolarmente complessa) se si tratta di operatori outbound, livello minore, e di gestione meno complicata, se si tratta di operatori inbound. Questo, come rilevato in quasi tutti gli incontri tra il gruppo d’inchiesta e gli operatori, non dipende dal fatto che nel primo caso è l’operatore ad eseguire la telefonata mentre nel secondo si trova a riceverla e fornire assistenza ad un cliente, quanto piuttosto sembra dipendere dal contenuto sociale della telefonata stessa. Gli operatori outbound, in altri termini, ritengono che l’empatia da stabilire con il cliente sia molto difficile da raggiungere dal momento che essi stessi giudicano scadente la qualità del prodotto o del servizio che stanno propinando. Sono costretti cioè a chiamare le persone, a mettersi “dalla loro parte”, a creare una condizione di dialogo con l’unico intento di strappare un contratto, quando già sanno che quel prodotto – servizio è una fregatura. In questi casi ciò che disturba molto gli operatori è che il loro lavoro ha le finalità tipiche dell’“inganno”, un inganno che gli permette di incrementare il modesto salario mensile ma li pone anche in una situazione incresciosa dove non è possibile mantenere alcuna remora morale. Da questo punto di vista, il lavoro outbound, nonostante le diverse strategie aziendali predisposte a neutralizzare tali remore, non riesce a far aderire gli operatori alla mission aziendale, non riesce in altri termini a farli immedesimare del tutto nelle logiche e pratiche del call center.
«Per me l’aspetto più frustrante è avere a che fare con dei clienti che hanno dei grossi problemi, che hanno ragione, e sapere di non potere fare niente per loro, e dovergli raccontare: “stia tranquillo, tra 48 ore la contatto… stia tranquillo faremo qualcosa per lei”. Cioè tranquillizzare la persona e non poter far niente… sapere che il problema non verrà risolto, che quando tu porterai il caso al tuo responsabile si farà una risata, tanto è un cliente consumer, e il ricaricabile non gli interessa (…) “sì signora, stia tranquilla che tra una settimana riavrà il suo cellulare”. Non lo rivedrà più probabilmente o, se lo rivedrà, ci vorranno tre – quattro mesi… probabilmente verrà mandato all’assistenza e non verrà più sostituito (…) la cosa più frustrante è quella di raccontare la storiella dell’uva al cliente. In breve, imbarcare la gente…»[ii]
Il controllo, e non il consenso, diventa a questo punto l’elemento necessario ai fini della produzione. Per tali ragioni, il “teatrino” messo in piedi dai vertici aziendali durante i corsi di formazione e/o prima di un’assunzione viene miseramente a cadere agli occhi e nella mente dell’operatore, così come vengono a cadere quei modelli identificativi e di condivisione nei quali gli operatori sono stati irreggimentati.
Preferiscono il lavoro inbound perché riescono a tollerare meglio lo stress e le negatività che questo comporta. Nell’inbound, inoltre, hanno la percezione che le loro “qualità” sono messe al lavoro per fini di assistenza, quindi utili al cliente ed all’impresa in generale. L’outbound, di converso, è la terra degli ultimi, di chi si affaccia al call center con necessità materiali precise e si trova dinanzi un’organizzazione gerarchica con ruoli strutturati, nella quale potrà trovare posto se sarà rispettoso dei comandi, flessibile nelle prestazioni e negli orari, e, qualora ce ne fosse bisogno, abile nell’arte dell’inganno.
II. Organizzazione/Controllo
I call center hanno un’organizzazione verticale, gerarchica: all’apice c’è il “direttore”, che viene supportato da altre figure come i “manager” che si occupano della formazione degli operatori e il personale impiegato nella gestione delle risorse umane. A seguire troviamo i “supervisor”, che gestiscono e coordinano le attività. Accanto ai supervisor, ma più in basso, ci sono i “team leader” che svolgono un ruolo di coordinamento, controllo e supporto dei gruppi di operatori a loro assegnati. Alla base troviamo gli operatori che, a loro volta, si distinguono a secondo delle attività svolte (inbound/outbound) e del loro inquadramento (dipendente a tempo indeterminato, dipendente a tempo determinato, collaboratore a progetto e così via).
Tale organizzazione rappresenta un potere costante ed omogeneo che investe non solo il tempo lavorativo ma l’intera vita degli operatori: ogni gesto, espressione, condotta, attività. La sorveglianza in un simile contesto svolge un ruolo preciso e duraturo, funzionale all’esercizio del “potere del buon addestramento”; potere che non solo assoggetta gli operatori, ma li rende strumenti stessi del proprio esercizio. Il potere che si esercita nei call center deve rendere tutto calcolabile (a partire dai comportamenti degli operatori) ed a tal fine mette in campo tecniche di sorveglianza multiple e incrociate, che consentono ai controllori (team leader e supervisor) di osservare senza essere visti.
Si tratta di un potere che compara, gerarchizza, misura e indica la conformità da raggiungere: compara, perché le singole condotte vengono selezionate in base ai comportamenti che raggirano i sistemi di punizione; gerarchizza, poiché differenzia gli individui in base alla regola/norma/programma/regolamento; misura, in quanto produce differenze quantitative tra gli operatori che vengono dunque classificati in base ai “valori” conformi alla mission aziendale; indica, dal momento che pone gli obiettivi inerenti la conformità che gli operatori devono raggiungere e, contemporaneamente, stabilisce le “punizioni” alle quali si va incontro quando non si segue una “condotta retta”.
Tali dispositivi disciplinari e di sorveglianza riportano alla mente il panopticon di Bentham, la prigione a forma circolare, ad anello, al centro della quale c’è un cortile e una torre dalla quale possono essere osservati tutti i detenuti contemporaneamente. Per Foucault il panopticon è la sintesi di tutti quei poteri che dominano sugli individui, dal momento che – inverificabile – induce nel detenuto uno stato cosciente di visibilità, che lo porterà a non assumere comportamenti devianti ed a garantire, di fatto, il funzionamento automatico del potere.
La relazione tra il panopticon ed i call center non è forzosa come qualcuno potrebbe credere: anche nei call center si è sotto il controllo di un potere che vede senza farsi vedere (quando ritiene sia il caso di diventare invisibile): le celle sono le scrivanie, i detenuti sono gli operatori, i guardiani sono i supervisor, i secondini i team leader, le finestre della torre centrale sono i computer, attraverso i quali si esercita questo potere invisibile in grado di pervadere ed invadere ogni momento della giornata. Come già rilevato negli anni ’90: «nei call center gli operatori sono costantemente visibili e il supervisore ha infatti il potere di “perfetta resa” attraverso il monitoraggio dello schermo del computer e, quindi, del suo “utilizzo non necessario”»[iii]. Il controllo invisibile del supervisor possiede in altri termini le peculiarità del panopticon. Si presenta come un controllo chimerico, costante, supportato da strumenti elettronici ed informatici di sorveglianza. Un potere che forma le squadre di operatori, li “logga” e li tiene sotto controllo in modi vari: dall’invio di “messaggi motivazionali” sul personal computer, al richiamo urticante dei team leader, all‘impossibilità di scambiare qualche parola con il collega di fianco, costretto anch’èsso nella sua celletta, privo di qualsiasi forma di autonomia. La pervasività del controllo, insieme alla standardizzazione ossessiva delle mansioni degli operatori (relazionali, incentrate sulla comunicazione) configurano il call center, come abbiamo già avuto modo di dire, come una nuova catena taylorista: che questa volta investe, insieme al corpo e alla mente, anche le parole e le emozioni. Gli operatori, inizialmente illusi di una qualche forma di autonomia sul lavoro, si trovano fin da subito dinanzi a compiti tecnicamente regolati, copioni scritti ai quali attenersi, scripts da seguire. Per superare la noia, l’irritazione e la frustrazione i più utilizzano l’umorismo e l‘ironia… ma ce ne vuole troppa!
III. Stress/Burnout
É ormai assodato che la definizione dei lavoratori come risorse umane risponde soprattutto agli interessi degli imprenditori ed al cinismo degli economisti. Nei call center tutto ciò è lampante: altro che risorse da gestire… se così fosse si terrebbe conto di tutta una serie di fattori peculiari della risorsa stessa, quantomeno al fine di non usurarla irrimediabilmente. Di converso, nei discount della parola, in riferimento alle incredibili pressioni emotive, psicologiche e fisiche, possiamo parlare di operatori “usa e getta”. Nei call center ci si “ammala” di lavoro, dal momento che si convive con pressioni di diversa natura che la tecnologia invece di ridurre tende ad aumentare. Come ha sottolineato il medico del lavoro Michele Piccardo:
«dall’indagine appare chiaramente che ben pochi lavoratori dei call-center assomigliano a quelli rappresentati nella pubblicità. Le voci gentili di uomini e donne a cui esponiamo, spesso invano, i nostri problemi tecnici o a cui chiediamo informazioni o che cercano di venderci un prodotto di cui non abbiamo bisogno vengono da un mondo del lavoro moderno e tecnologico dove le persone continuano ad ammalarsi “di lavoro”. Per evitare o almeno ridurre questi danni probabilmente sarebbe sufficiente far sì che sia il lavoratore a governare ed utilizzare la tecnologia invece del contrario»[iv]
Il call center è rumoroso. Tutti gli operatori tendono ad avere un tono di voce alto nelle conversazioni, da un lato perché ciò rientra nella logica della comunicazione telefonica, da un altro lato perché tutte le voci presenti nella sala si sovrastano. Da questo punto di vista possiamo paragonare l’ambiente del call center ad un centro commerciale nei periodi di grande affluenza. Tutti gli elementi richiamati comportano malessere fisico e mentale e implicano una considerevole perdita di energie. In altri termini nella vita da call center ci si può ritrovare emotivamente esausti, in condizione di burnout.
Burnout è il “non farcela più”, l’insoddisfazione e l’irritazione quotidiana, la prostrazione e lo svuotamento, il senso di delusione e di impotenza di molti lavoratori relazionali, che svolgono il loro ruolo professionale a contatto con gli altri. Il burnout induce gli operatori a diventare apatici, cinici con i propri “clienti”, indifferenti e distaccati dall’organizzazione complessiva dell’azienda; così come è causa di alti tassi di turn over e di assenteismo al lavoro. L’insoddisfazione lavorativa è figlia dello stress vissuto dagli operatori, i quali sono spesso infelici e insoddisfatti e si affaticano a mantenere il controllo. Come ha affermato Lina in uno degli incontri del gruppo d’inchiesta:
«lo stress, lo stress si avverte, c’è uno stress mentale ed anche fisico, oltretutto quello mentale si riversa sul fisico, c’è chi ha crisi di pianto, crisi di vomito, chi ha mal di testa, perché avere sempre questo fiato sul collo, la persona che ti sta dietro e come ti sente parlare al telefono ti dice chiudi, chiudi, chiudi…. le crisi di pianto ti vengono perché ti dicono “ se tu non produci non sei nulla, non vali niente…” così ti dicono e davanti a tutti. Quindi già è una mortificazione che te lo dicono davanti a tutti, perché se almeno te lo dicessero a tu per tu in altro modo non gridando davanti alla sala…»
Il lavoro nei call center viene riconosciuto e considerato dall’azienda come lavoro non qualificato, per il quale le qualità soggettive e relazionali degli operatori – principale mezzo di valorizzazione capitalistica – hanno una importanza del tutto relativa, dato l’alto grado di informatizzazione e standardizzazione delle diverse mansioni, nonché le pressioni e i ritmi di lavoro estremamente elevati. Lavoro non qualificato, dunque, nei termini di massima flessibilità e intercambiabilità degli operatori, considerati uguali gli uni agli altri, ma uguali nella loro disintegrazione ed alienazione.
In questo ambiente, dove i tempi lavorativi sono de-umanizzati, vi è una costante: stretta sorveglianza tecnologica e ripetitività lavorativa, fattori che generano insoddisfazione tra gli operatori. Il controllo elettronico favorisce l’aumento di produttività degli operatori e supporta i manager a mantenere elevato il livello. Sono loro i principali sostenitori della sorveglianza e del monitoraggio elettronico continuo, nonostante i disturbi psicofisici e la dimensione costrittiva che questi generano. A tal proposito sono significative le parole di una telefonista di Telecontact, call center catanzarese con circa 600 dipendenti, riportata in La Cina siamo noi:
«Penso di essere rimasta intrappolata, la mia paura più grande è di non riuscire più ad uscire da lì. Questo è un lavoro che ti lega e ti fa morire. Quando ti siedi al call center pensi sempre che sia per qualche mese, poi non ti alzi più. Capisco la gente che a un certo punto prende una mitraglia e fa una strage»
L’ultima frase può sembrare forte, ma si tratta soprattutto dello sfogo di una donna avvocato alla quale non è possibile lasciare un lavoro “che ti lega e ti fa morire”. Nessuna strage è ancora avvenuta nei call center, la cosa più frequente è che le pressioni diventino insopportabili e, di conseguenza, qualcuno vada in escandescenza e venga portato via in ambulanza; oppure, al trabocco della goccia, un operatore che manda affanculo i responsabili aziendali e va via gridando e sbattendo la porta. Forse, dopo, qualcuno di loro si rivolgerà al sindacato, pochi giorni prima un perfetto sconosciuto, per qualche forma di risarcimento. Questi sono quelli che non ce la fanno più e scelgono la fuga, per i team leader “sono quelli deboli, incapaci a misurarsi con gli obiettivi del lavoro”. La maggior parte degli operatori incontrati ha raccontato storie di pressioni terminate in escandescenze, storie da loro vissute come eccezioni, che confermano però la regola di una vita sotto stress.
IV. Abbiamo sin qui, a brevi tratti, descritto il modo in cui è organizzato il lavoro nei call center: le modalità d’ingresso, le mansioni svolte, la giornata lavorativa, l’organizzazione gerarchica, il tipo di controllo vigente, eccetera.
Tale descrizione è stata possibile grazie alla elaborazione svolta in comune con gli operatori, che ci ha permesso di dibattere e approfondire i “punti di vista” che via via sono emersi negli incontri di questi ultimi mesi. E’ stato subito evidente che in questo “nuovo lavoro” immateriale non c’è più separazione tra lavoro e vita, a differenza di come è avvenuto per il lavoro operaio della grande fabbrica. Siamo partiti dalle trasformazioni del lavoro, dunque, ed abbiamo evidenziato il conflitto tra la natura postfordista del lavoro immateriale svolto dall’operatore di call center e la struttura di stampo taylorista in base alla quale sono organizzati i servizi telefonici di vendita e assistenza. Questo, in poche parole, è il leitmotivche unisce le due parti del nostro documento (v. UniNomade 2.0 del 19/05/2012), che intende testimoniare, in forma sintetica, la “questione del valore-lavoro” nei call center (e la percezione che di questa hanno gli operatori) e le conseguenze alienanti (controllo, flessibilità e precarietà) di questo lavoro sugli operatori. Ci siamo chiesti, in altri termini, come sono percepite le “qualità degli operatori” (da loro stessi e dagli altri soggetti aziendali) e “come”, “perché” e “quando” queste “qualità “ diventano conflittuali, siano motivate alla lotta.
Consci del fatto che sono gli “aspetti qualitativi” che oggi costituiscono e definiscono la prestazione lavorativa. Senza l’approfondimento di tali aspetti non riusciremmo a cogliere gli elementi di novità insiti nella condizione precaria.
Nel capitalismo cognitivo la precarietà è in primo luogo soggettiva, quindi esistenziale e generalizzata. La precarietà è condizione soggettiva in quanto entra direttamente nella “percezione del singolo”, in modo differenziato a seconda delle aspettative, dell’immaginario e del sapere acquisito. Una delle drammaticità della condizione precaria, come è stato più volte ribadito, è che non esiste un processo omogeneo di “presa di coscienza”, mentre esistono strade molteplici per attivare processi di soggettivazione, dal momento che, per usare l’efficace slogan gridato in una manifestazione da un operatore, «siamo tutti precari ma ognuno lo è a modo suo». Negli incontri abbiamo toccato con mano cosa vuol dire che la precarietà è una condizione strutturale del “nuovo rapporto” tra capitale e lavoro immateriale, che è ciò che lega la cooperazione sociale (divenuta ormai fondamentale per ogni tipo di produzione) alle gerarchie finanziarie. Abbiamo iniziato a vedere da vicino come i saperi, i linguaggi e gli affetti prodotti dalla cooperazione sociale vengono messi al lavoro e sfruttati da chi riesce a valorizzarli in termini capitalistici.
L’inchiesta sulla precarietà e il comune in Calabria nasce per favorire processi di soggettivazione ed estenderli ai diversi bacini del lavoro precario della regione. I call center ci hanno spinto finora ad affrontare prevalentemente la questione della precarietà, ma non ci hanno visto abbandonare, nemmeno provvisoriamente, la tematica del comune che, va da sé, è di estrema importanza ai fini dell’inchiesta politica. Per quel che ci riguarda, infatti, è nel comune che si trovano le condizioni di un nuovo modo di produzione della ricchezza sociale, a partire dal quale è fondamentale ripensare le categorie della politica e del conflitto. E’ il comune che ci proietta in una dimensione storica, oltre il privato e il pubblico, della quale già avvertiamo le tendenze e i numerosi segnali.
Dal punto di vista dell’inchiesta sui call center la tematica del comune apre un nuovo capitolo, ci riporta alla soggettività dei lavoratori immateriali ed agli “aspetti qualitativi irriducibili” del loro operare: problematizza, in altri termini, la questione della loro composizione politica. Noi riteniamo fondamentale che quest’ultima si dia nelle lotte per il “comune” e che non venga dissolta, come avviene miseramente oggi, nelle battaglie per il lavoro.
[iv] In generale il malessere lavorativo viene distinto in due tipologie generali. Stress psico-fisico (causato dalla monotonia e ripetitività dei compiti, intensità dei ritmi, saturazione dei tempi intesa come il rapporto tra il tempo di pausa e tempi di esecuzione dei compiti, e self-control nelle relazioni pubbliche); Stress ambientale (dovuto all’ambiente lavorativo: la qualità tecnologica degli strumenti audio-video, l’ergonomie delle postazioni, disturbi oculo-visivi, microclima e ventilazione, disturbi muscolo-scheletrici.