di CARLO CELLAMARE (in comune-info.net-dicembre 2017)
Siamo chiamati da tempo a cambiare la prospettiva e la direzione dello sguardo sulle città. Non appena riusciamo a superare la dicotomia tra Stato e cittadini, ci si apre la possibilità di cogliere la complessità dei processi e dei loro intrecci, che spesso producono i luoghi, ma anche le relazioni sociali e le culture, e che attivano la dimensione del “comune”, ovvero una dimensione collettiva e non istituzionalizzata. Così, la città è di fatto ridisegnata da processi e pratiche che assumono però caratteri molto diversi tra loro. Se ne discute in un rilevante convegno internazionale dall’11 al 13 dicembre alla facoltà di Ingegneria di Roma
In maniera sempre più consistente le città (e non solo) sono diffusamente attraversate da processi e pratiche di autorganizzazione: pratiche che vanno dal riuso di immobili dismessi come luoghi di produzione culturale, orti urbani, aree verdi autoprodotte ed autogestite, produzione di spazi pubblici, organizzazione di servizi locali di accesso pubblico, fino alla produzione di veri e propri servizi sanitari o di welfare per arrivare alle occupazioni a scopo abitativo o alla gestione autorganizzata delle assegnazioni di case (sia di immobili dismessi sia dell’edilizia pubblica).
Si tratta di un vastissimo campo di attività e di esperienze, con il diffuso coinvolgimento ed il protagonismo degli abitanti, organizzati o meno in comitati o associazioni, e degli altri soggetti locali, che assume caratteri sia “illegali” che legali, e che mette in discussione la relazione ed il senso stesso delle istituzioni.
Peraltro dobbiamo pensare non solo a grandi processi organizzati, ma anche alle ordinarie pratiche urbane che trasformano la città diffusamente. Vi è un vasto campo di azioni e relazioni che vengono sviluppate ordinariamente e che costituiscono il nucleo fondamentale del “fare città”.
Siamo di fronte ad uno stato dell’arte che ci porta a cambiare il modo con cui si guarda alla città e alla sua costruzione, superando la dicotomia tra Stato e cittadini, per cogliere la complessità dei processi e dei loro intrecci che producono i luoghi, ma anche le relazioni sociali e le culture, e che attivano la dimensione del “comune”, ovvero la dimensione collettiva, dell’in-between, che non sia istituzionalizzata e che si radichi nella “società istituente”. L’autorganizzazione rappresenta pratiche e processi fondamentali, in tutti i tempi, per la costruzione della città (si potrebbe forse dire che le nostre città sono per l’80% informali).
La città è di fatto ridisegnata da questi processi e da queste pratiche, ma essi assumono caratteri molto diversi e spesso ambigui, legati ad intenzionalità, culture, progettualità, modelli di convivenza e idee di città diversi tra loro. Ad esempio, esprimono “culture di pubblico” molto diverse, da quelle più aperte alla costruzione collettiva, all’inclusione e al ripensamento della convivenza a quelle invece di carattere più proprietario e privatistico (come in molti processi di edilizia abusiva).
In molti casi, si tratta di pratiche e processi di ri-appropriazione della città che sono anche processi di risignificazione di spazi e produzione di luoghi, dove agisce una creatività radicata nei contesti, dove si producono legami costruttivi e di significato con i territori dove si vive. Sono spesso esperienze dove si costruiscono politiche che dovrebbero essere fatte proprie dall’amministrazione pubblica e dagli enti locali piuttosto che condotte dalle forme organizzative sociali e dei cittadini, anche di carattere illegale, come le politiche di riuso e recupero del patrimonio edilizio e delle aree dismesse e abbandonate, le politiche di consumo di suolo zero, le politiche di risposta alla domanda abitativa, le politiche di sostenibilità ambientale e di efficienza energetica, ecc.
Sono spesso esperienze dove si produce cultura, ma anche dove si produce cultura politica “significante”, riportando al centro dell’attenzione il dibattito sulla “democrazia istituente”. Sono esperienze dove è rilevante la dimensione dell’azione, il realizzare concretamente e da subito, senza aspettare le istituzioni, un mondo diverso. Esse ridisegnano il senso e lo spazio di azione del conflitto sociale.
Al di là di possibili forme di romanticismo, bisogna leggere con attenzione e sguardo critico questi processi e decostruirli, soprattutto nelle loro ambiguità, aprendo a prospettive di ripensamento della città attuale.
Se da una parte questi processi esprimono una grande produzione culturale e di valori ed una ricostruzione di relazioni significanti con i propri contesti di vita, da un’altra sono anche una risposta alle mancanze e alle carenze dell’amministrazione pubblica, sono la risposta a bisogni sociali disattesi (e che richiederebbero un’azione di “reclaiming”), svolgono un ruolo sostitutivo, spesso azzerando il conflitto sociale, o comunque ridimensionandolo.
Alcune città, come Roma, sono caratterizzate da una grande diffusione di questi processi, ma si tratta di processi e pratiche che hanno comunque grande diffusione in tutto il territorio italiano e in Europa in genere. Se poi usciamo dal mondo occidentale, tali processi e tali pratiche hanno una grandissima diffusione. Se pensiamo agli slums di Mumbai o di altre città simili, si potrebbe dire che sono questi processi e queste pratiche che stanno producendo oggi la città. Essi producono anche parti importanti delle economie. Questo spinge anche a riflessioni più strutturali e a interrogativi profondi e problematici.
La diffusione delle forme di autorganizzazione sembrano essere complementari all’arretramento del welfare state e quindi ad una nuova fase del capitalismo neoliberista, che mette a valore anche questi processi e li mercifica.