di SUDCOMUNE
Una figlia per un regno
Partiamo dal nome Rende pare che derivi originariamente da “Acheruntia”, utilizzato dagli enotri per nominare «le case dei forti presso le acque del fiume», e che mutò in Arintha per come lo storico Ecateo da Mileto la citò nel 500 avanti cristo. E’ più semplice però credere che Rende provenga dal francese antico «Renne», cioè regno, e che divenne di uso comune sul finire dell’anno mille quando, per decisione di Belmondo d’Altavilla, gli ingegneri militari seguirono i lavori del Castello da cui si domina la valle del Crati. Il castello era indicativo di un regno, un regno vivace, già municipio durante la dominazione romana, durante la quale i rendesi seguirono numerosi Spartaco e la sua armata. Altre esperienze di sudditanza e resistenza caratterizzarono Rende nei secoli: nel VI° cadde sotto le mani dei barbari e nell’VIII° contrastò le dominazioni dei bizantini e dei musulmani fino al X° secolo. Poi fu il momento degli Angioini fino al XV° secolo e poi quello degli Aragonesi. Ma non intendiamo qui proseguire sulle sequenze di sudditanza e resistenza dei rendesi quanto piuttosto sul fatto che Rende, da sempre, riscuote notevole interesse da parte del potere costituito per alcune qualità proprie del suo territorio. Valga, in termini paradigmatici, la storia della famiglia dei Sanseverino, nobili di origine normanna, il cui capostipite Luca venne investito della Contea di Rende dal Re Ferrante d’Aragona nel 1460, che però gliela tolse nel 1487 accusandolo, ma poi perdonandolo, della sua partecipazione alla “congiura dei baroni”. Con l’arrivo di Carlo V la Contea fu affidata a Pedro Gonzales d’Alarcon de Mendoza (la cui stirpe la governerà fino ai primi anni del XIX° secolo quando i napoleonici abolirono la feudalità) e i Sanseverino, non datisi per vinti, fecero di tutto per dare in sposa la loro figlia Eleonora al figlio di Don Pedro, Ferdinando, a patto però che questa divenisse di fatto e di diritto amministratrice di Rende. Una figlia per un regno, pensarono, è un affare da non perdere.
Prima inter ultimae
Se ragionassimo come fanno gli economisti e, sulla loro scia, spesso in modo caprino, giornalisti e opinionisti di sorta, dovremmo felicitarci del fatto che Rende, in Calabria, è prima in quasi tutti gli indicatori socio economici, una sorta di cittadella sui generis estranea a quelle dimensioni tipiche di ciò che conoscemmo come sottosviluppo. Rende prima tra le ultime: per numero di laureati sulla popolazione (24%, contro la media regionale di 11%); per tasso di occupazione (42,5%, contro il 37%); per tasso di attività (50% contro 45%); e per numerosi altri indicatori di sviluppo che potremmo elencare se non fosse tedioso farlo.
Ma, com’è noto, il nostro è un mondo che riesce a produrre, quando non inventare ex nihilo, una ricchezza straordinaria e incredibilmente ampia solo in modo antagonistico, soltanto se con essa viene prodotta anche povertà e restrizione; soltanto se i criteri di appropriazione di questa ricchezza, socialmente prodotta, sono esclusivamente privati. Ed allora è il caso di non lasciarsi baloccare dalle classifiche e di far proprio l’assunto per il quale ogni processo di sviluppo economico, capitalisticamente inteso, ha sempre due facce e quella “brutta” è condizione essenziale di quella “bella”.
Una città, due facce
Se ci spostiamo dal versante squisitamente economico queste due facce le rintracciamo a diversi livelli di analisi. Rende è infatti un caso significativo di ciò che definimmo nella rivista «Sudcomune» mezzogiorno globalizzato e neofeudale; non a caso, ad esempio, se osserviamo la città sotto il profilo del “lavoro cognitivo”, da un lato troviamo la Rende globalizzata dell’Università e del terziario avanzato, la Valley delle competenze tecnologiche che, in loco formate, presto abbandonano le colline di Arcavacata per il centro nord o l’estero. Dal lato opposto troviamo invece la Rende neo feudale dei call center, l’altra Valley, quella dello sfruttamento del lavoro cognitivo a basso costo sulla quale ci siamo intrattenuti ampiamente in altre sedi. Ed ancora, se osserviamo Rende dal punto di vista della mobilità del lavoro, constatiamo da un lato la “fuga” di giovani laureati (ed anche di tecnici e operai diplomati) come conseguenza dello scarto tra le qualità da questi acquisite e le capacità imprenditoriali locali di trattenerli e, dal lato opposto, l’approdo di numerosi giovani est europei e asiatici, spesso occupati in modo precario nell’edilizia e nei servizi di cura alla persona. Un terzo esempio di quanto Rende sia insieme globalizzato e neofeudale lo ricaviamo dal sistema politico locale che, tradizionalmente clientelare (nello specifico un feudo di frazioni socialiste calabresi), grazie a processi sovranazionali incontra oggi sempre maggiori difficoltà (economiche e regolamentari) a governare nei termini delle tradizionali catene clientelari. Detto altrimenti, se le reti politico clientelari rendesi, come la gran parte delle reti clientelari meridionali, per più di mezzo secolo sono riuscite a garantire coesione sociale, governabilità e stabilità elettorale, oggi, ai tempi della globalizzazione e nella nuova dimensione europea, riescono a farlo in misura ridotta trovandosi a fare i conti con tutta una serie di problematiche legate all’utilizzo dei fondi strutturali, ai vincoli di spesa pubblica e di bilancio imposti a livello europeo, nonché ai nuovi valori di partecipazione democratica e di rispetto ambientale che le nuove generazioni hanno fatto propri.
Ripartire dai beni comuni urbani
Che le tradizionali reti clientelari non siano capaci come un tempo di “ordinare” il territorio e stratificare i gruppi sociali in base alla loro affiliazione clientelare lo si può osservare anche da alcuni segnali venuti fuori dalle ultime tornate elettorali. Ad esempio, il raggruppamento che ha vinto le elezioni nel 2014 e nel 2019 non presenta nessun partito politico ma solo liste civiche. Questo fatto, che di per se non è sintomo di cambiamento, è però di buon augurio dal momento che il sindaco in carica, ormai da sei anni, pare abbia fatto propria l’idea di beni comuni più avanzata oggi a livello nazionale. Una idea che non rimanda a una finta partecipazione, come furbescamente avviene in molte amministrazioni locali, dove padre, figlio, zio e nipote, si auto eleggono a rappresentanti di collettività inesistenti per acquisire impropri finanziamenti, ma che implica la «democrazia assembleare» come metodo di discussione e decisione sullo sviluppo di qualsiasi progetto di cura e rigenerazione dei beni comuni urbani. Questo è il perno intorno al quale ruota il “Regolamento” approvato dal Comune di Rende, mentre i patti collaborativi, i tavoli di lavoro e tutte le altre tecnicalità nel Regolamento descritte, sulle quali giornalisti e altri si sono confusamente intrattenuti in questi giorni sulla stampa, sono secondarie, conseguenze procedurali che hanno ragion d’essere solo se i cittadini vorranno organizzarsi in comunità ed eleggeranno assemblee di autogoverno delle stesse. Si badi, e la specifica è d’obbligo, che il vero lavoro da svolgere in quest’ottica è proprio quello di individuare le cosiddette comunità di riferimento ed eventualmente di assemblarle a partire dagli elementi materiali e valorali che accomunano le singolarità costituenti. Nulla è precostituito e sarebbe un grave errore, conoscendo un po’ il “regno” del quale stiamo parlando, pensare il contrario. Va da sé, che se comunità effettive già si danno avranno il profumo delle rose e nulla potrà impedirgli di fiorire.
testo ripreso in estratto dalla Gazzetta del Sud del 19/02/2020 con il titolo L’associazione Sudcomune interviene sul PSC
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