Intervista a Giorgio Griziotti
in Sudcomune. Biopolitica inchiesta soggettivazioni, n. 1-2, 2016 (Ed. Deriveapprodi)
Sudcomune. Nei primi capitoli di Neurocapitalismo descrivi la formazione e lo sviluppo del capitalismo cognitivo in stretta relazione con lo sviluppo dell’informatica e delle tecnologie ad essa connesse. E’ particolarmente interessante il tuo approccio, tra le altre cose, perché leggi tale sviluppo non come l’esito di una o più scoperte scientifiche – come il mainstream impone – ma come il risultato di condizioni materiali e politiche formatesi in seno al capitalismo industriale. Unix e l’interrupt, Linux e il free software diventano passaggi chiari anche per i non addetti. Nella prima parte del libro scrivi: «dopo l’era del vapore e quella dell’energia elettrica il real time apre la terza ed ultima fase dell’era industriale: la forza termodinamica entra in gioco nella prima, l’elettricità e il fluido immateriale che irriga il corpo della fabbrica nella seconda, i flussi informazioni e le reti sono invece le fibre nervose che animano in modo autonomo le azioni sofisticate e complesse nella terza». Poche pagine più avanti, quando parli della macchina informazione dell’impresa, aggiungi: «E’ il ciclo di lotte condotte dall’operaio-consumatore massa nel ventennio Sessanta-Ottanta che determina la crisi strutturale del modello fordista caratterizzato da grandi volumi, rigidità e standardizzazione e che dà la spinta essenziale a concepire robot e sistemi intelligenti di pilotaggio e monitoraggio delle macchine». Dalla Ford T a Linux il passo è lungo, scrivi, documentando con dovizia le innovazioni che hanno permesso di compierlo. Ci illustri, anche se in sintesi, i momenti salienti di questo lungo passo?
Giorgio Griziotti. Mi è difficile sintetizzare in poche righe un passaggio tanto complesso ed articolato. Per questa ragione ho scelto la Ford T e Linux come simboli. In fondo non ho trattato questo passaggio solo nella prima parte, quella del “Produrre”. I momenti salienti emergono nella trama del libro: per esempio la fulminea diffusione della telefonia mobile, accessibile a quasi tutti gli umani in soli venti o trent’anni. Una delle tecnologie che più hanno influito sui cambiamenti di soggettività che cerco di indagare nel percorso del libro.
Ho esposto inoltre in qualche paragrafo alcune caratteristiche della fabbrica toyotista e poi l’irrefrenabile ascesa della robotizzazione con tutte le conseguenze sociopolitiche. Infine il mutamento del rapporto fra spazio e tempo indotto dal capitalismo cognitivo tramite le nuove mediazioni tecnologiche. Ovviamente ho privilegiato per ragioni di conoscenza ed esperienza le TIC ma tutti i rami delle tecnologie, che d’altronde si ibridano a gran velocità, sono connessi in questo processo. Mi sono quindi limitato a qualche accenno rispetto all’ingegneria genetica o all’influenza esercitata dal settore Biopharma un’incredibile macchina di controllo dei corpi che è anche la più grande fonte di profitto e rendita esistente. Per tornare a Linux: in realtà l’ho scelto per rappresentare il Free Software, il perno centrale di un modo alternativo di produrre nel passaggio dall’economia industriale a quella della conoscenza. Nella sussunzione di quest’ultima operata dal capitalismo cognitivo anche il free software non ne esce indenne e su questo punto torneremo magari in seguito.
SC. Bioipermedia. Ci introduci questo concetto? come, quando e perché è stato formulato? Che significa che rappresenta l’estensione di internet a corpi, emozioni, affetti e sentimenti?
GG. La definizione che ne do nel libro è: «Bioipermedia è l’attuale dimensione della mediazione tecnologica. Una nuova generazione di dispositivi mobili si affianca ai media tradizionali ed alla generazione dei desktop nel disegnare e plasmare l’esperienza del quotidiano di vita; è l’intera esistenza ad essere coinvolta nell’iper-realtà. I device, quali smartphone, tablet, ultrabook, reader ed ibridi sono gli strumenti fisici di mediazione dell’homo cognitivus con lo spazio-tempo in un continuum in cui interagiscono corpi viventi, macchine, codici, dati e reti: l’ambiente del Bioipermedia, termine derivato dall’assemblaggio di bios/biopolitica e ipermedia. Le tecnologie connesse ed “indossabili” ci sottomettono ad una percezione multisensoriale in cui spazio reale e virtuale si confondono estendendo ed amplificando gli stimoli emozionali».
Ora questo potenziale è fortemente aumentato dall’espansione dell’Internet of things, l’Internet cose. Un mondo di oggetti connessi capaci di dialogare sia con gli umani che con altre macchine. Nel libro cerco di spiegare come i modi d’interazione della prima fase dell’informatica ed anche dei primi PC, che passa attraverso un’attività razionale come la scrittura, vengano sconvolti dal diffondersi dei dispositivi dell’Internet mobile. I sensi sono direttamente coinvolti, e suscitano un flusso di distrazioni e di emozioni. Anche affetti e sentimenti sono implicati, ma il gioco d’influenza esercitato dal Neurocapitalismo tramite le tecniche del Marketing sensoriale e quello della customer experience si concentra proprio sulle emozioni. Le grandi linee direttrici di queste metodologie impongono di saturare la vita di emozioni che favoriscano il consumo, e cercano d’impedire che il susseguirsi delle emozioni si cristallizzi in sentimenti compiuti. Scrivo infatti (pag. 167): «La mercificazione, la videogamizzazione e la disneyzzazione del reale ci spingono verso lo stato degli organismi semplici che sono in grado d’avere un comportamento senza processi mentali; le emozioni ma non i sentimenti (…) È ormai scientificamente accertato che la razionalità dei comportamenti viene meno nelle persone che non possono provare pienamente emozioni e sentimenti e, sorgono allora interrogativi inquietanti su una società in cui essi sono così fortemente e continuamente influenzati, manipolati e provocati in una ossessionante prospettiva di razionalità finanziaria». I dispositivi del bioipermedia sono gli strumenti più usati una volta che i luoghi del consumismo sono sempre meno fisici e sempre più virtuali (e-commerce). Ne conseguono inoltre modifiche comportamentali profonde: le capacità e la durata media di concentrazione dei digital natives sono in forte diminuzione. Questi ed altri profondi cambiamenti vanno posti e valutati nell’ambito del capitalismo cognitivo ed io cerco di costruire questo quadro senza la pretesa di essere esaustivo.
SC. Nella premessa al libro racconti di quelle domande giovanili che temprano la mente e la soggettività: come l’innovazione tecnologica del capitalismo può rivoltarsi in un antagonismo che trasforma in modo radicale l’esistente. E continui dicendo che ti sei ritrovato «nella posizione cerniera del tecnico che si incammina, forse un po’ inconsciamente, sui sentieri della conricerca», tematica centrale per sudcomune, in base alla quale è nata la rivista. Ci vuoi raccontare le fasi e gli aspetti salienti della conricerca nella quale ti sei incamminato?
GG. Mi sono trovato su questo cammino un po’ inconsciamente perché si è trattato spesso più di una pratica spontanea che di una volontà deliberata. Non so come se la siano cavata nel quotidiano Alquati e compagni all’Olivetti, ma nel mio caso ho dovuto per lunghi periodi fare i conti con la compatibilità fra conricerca e sussistenza. Questo percorso è cominciato sin dai primi anni Settanta quando, dopo la laurea, ebbi la possibilità di creare con altri compagni una cooperativa per lo sviluppo di software. L’idea di fondo era quella di evitare lo sfruttamento e le contraddizioni che i giovani ingegneri trovavano nei posti di lavoro salariati, ma poi non fu così facile e lasciai quell’esperienza prima che fallisse (nel senso che i soci si arricchirono vendendosi all’Olivetti). Negli anni Ottanta, nelle difficoltà dell’esilio invece ci fu l’idea originale di creare un’associazione per la diffusione dei saperi della nascente micro-informatica nell’ambito di altre associazioni e nell’economia sociale ed il fatto di vivere in una grande metropoli come Parigi ci fu d’aiuto. Meno semplice ma forse più significativa è stata la lunga esperienza all’interno di una multinazionale dei servizi informatici. Un ambito che forse si sarebbe potuto qualitativamente comparare all’attività nell’Olivetti descritta da Alquati. Salvo che al posto degli operai c’erano i lavoratori cognitivi del nascente settore della telefonia mobile. Qui ci si muove sul filo d’un rasoio in cui il consulente tecnologico e funzionale è spesso costretto ad operare delle mediazioni, o addirittura dei compromessi fra le resistenze dei cognitive worker e l’aggressività delle direzioni che, in piena restaurazione neoliberista, sono ossessionate dall’accaparrarsi il più velocemente possibile di nuovi lucrosi mercati tecnologici e non.
SC. In Anni ’70. Italia ultima recalcitrante alla normalizzazione discuti il ruolo di stabilizzazione politica allora svolto dalle mafie e dalle droghe, con le quali si compie un «attacco biopolitico» ai movimenti di trasformazione di quegli anni, «uno snodo importante che porta alla confluenza progressiva del capitalismo finanziarizzato con quello mafioso». Ci fai altri esempi, magari attuali, di questa confluenza?
GG. Non sono un esperto di queste confluenze ma nella seconda “evasione” del libro, «e-waste 2.0» emerge per esempio un settore “grigio” o addirittura “nero” legato allo smaltimento selvaggio in paesi poveri dei prodotti tecnici ad obsolescenza programmata.
Per quanto riguarda il campo tecnologico presumo che le mafie internazionali si implichino anche largamente nel mercato dell’(in)sicurezza in rete. E’ risaputo per esempio che queste attività sono fiorenti nell’ambiti legati alle cyber mafie (in particolare evidenza ci sono le criminalità organizzate russa e dei paesi dell’Est europeo) che esercitano un ampio ventaglio d’attività ed inoltre forniscono i loro servizi anche ai rispettivi governi per opere di spionaggio o di cyber war. Un settore particolarmente problematico ed esposto è quello dell’estrazione dei metalli rari usati nelle tecnologie dei dispositivi mobili, mercato dominato dalla Cina e nel quale agiscono senza dubbio le organizzazioni mafiose di quel paese, le triadi.
SC.In Neurocapitalismo metti in relazione i “robot” con il Reddito Sociale Garantito, in piena sintonia con il suggestivo slogan del referendum svizzero di marzo 2016 “Robots for basic income”. Ma non voglio chiederti di basic income, argomento caro a sudcomune e già affrontato in questo numero della rivista; quanto piuttosto il fatto che al termine del paragrafo Intelligenza robotica e Reddito sociale garantito accenni «a un secondo pericolo molto più astratto e lontano e riguarda le scelte di mandato di governance all’intelligenza automatica diffusa. In pratica si tratta di operare (o meno) un controllo politico sul livello di delega da lasciare ad una intelligenza artificiale e algoritmica nella funzione di agente biopolitico diffuso». Puoi rilevare tendenze in questi termini? Ce ne parli?
GG. Mi fa piacere aver avuto questa intuizione in anticipo rispetto agli slogan del referendum svizzero. In fondo se ci pensi collegare il concetto di Reddito Sociale Garantito al progredire dell’automatizzazione e della robotizzazione è quasi naturale viste le dinamiche in corso. Rispetto allo specifico della tua domanda quello che temo è il diffondersi d’una ideologia di delega politica agli algoritmi. Forse bisogna riprendere il discorso sulla non-neutralità delle tecnologie da capo, anche didatticamente. Nelle varie commissioni della Nuit Debout, il recente movimento parigino, mi sono accorto che spesso molti giovani digital natives politicamente motivati sono fuorviati dall’etimologia della pur giusta battaglia detta della Net Neutrality e soprattutto hanno pochissima coscienza delle relazioni fra tecnologie e rapporti sociali di produzione. Credo che in questo senso Stallman (il creatore della Free Software Foundation e della licenza GPL), nonostante tutto quello che gli si deve, abbia delle responsabilità. Questa posizione di vestale delle 4 libertà del free software, che hanno determinato una svolta ma che restano di libertà individuali, senza che le condizioni materiali ed attuali di produzione del free software stesso abbiano ai suoi occhi alcuna importanza, come per esempio il fatto che l’85% dello sviluppo di Linux sia ormai nelle mani alle multinazionali (ma non solo quello), apre le porte al discorso libertarian o comunque a quello d’un compromesso con un “nuovo capitalismo”. Un discorso che, pervade il mondo delle startup ed anche quello hacker ed è difeso da intellettuali di rinomanza mondiale quali Benkler e Rifkin che si atteggiano a vati del “Demain” (il documentario francese peraltro interessante) ed a cui sono sensibili anche persone più vicine a noi come Michel Bauwens. Il fatto che il capitalismo sia destinato ad essere inevitabilmente ed asetticamente marginalizzato come sostiene Rifkin nel suo best-seller La società a costo marginale zero è a mio parere non solo illusione ma una mistificazione destinata proprio a scoraggiare ogni opposizione attiva. Sono rimasto abbastanza sorpreso che in una recente presentazione dle libro, uno dei partecipanti nella discussione ha definito le lotte come un’obsolescenza del XIX secolo e che oggi sia meglio parlare di “creatività” debordante in cui tutto è possibile. Non so se si tratti di una questione etimologica, ma avendo partecipato al recente movimento francese contro La loi du travail (Job acts alla francese) mi sembra che il biopotere finanziarizzato sia estremamente violento e determinato a condurre il suo progetto neoliberista senza concessione alcuna. D’altronde la grande dimostrazione di questa violenza è venuta dal trattamento riservato nel 2015 alla Grecia dall’UE sotto dominazione del capitale tedesco.
Molto si parla anche di un’intelligenza macchinica diffusa. L’estate scorsa Stephen Hawking ci ha messo in guardia rispetto alla capacità che una tale intelligenza, a cui il capitalismo finanziarizzato delega sempre più poteri, non solo diventi difficilmente controllabile ma sviluppi una sua autonomia. A me sembra che così come nel nostro divenire macchina caro al Postumano di Braidotti anche nel divenire intelligenza autonoma delle macchine nessuna etica postcapitalista è assicurata. In questo senso condivido più l’inquietudine di Hawking che non l’ottimismo di Braidotti proprio perché per il momento in queste ibridazioni le modalità del Neurocapitalismo sono molto presenti, potenti ed influenti e fra l’altro detengono l’essenziale dell’infrastruttura.
SC. Nella terza parte del libro, “Organizzarsi” (la prima parte è Produrre, la seconda Vivere) rilevi che «le tecnologie informazionali hanno favorito lo sviluppo di cooperazioni reticolari orizzontali dense ed estese ma spesso superficiali, effimere, confuse. In molti casi, anche se tali cooperazioni nascono come iniziative autonome esse vengono risucchiate nel girone del neoliberismo, e in altri l’iniziativa parte direttamente dalle imprese del capitalismo digitale, come per Facebook». Confuse, risucchiate o capitaliste sin dalla nascita. Nell’attuale fase di Neurocapitalismo, a partire dalla tua esperienza, quali reti di cooperazione (e relative TIC) sfuggono a questa triade? Quali tendenze (e segnali positivi) intravedi nella formazione di reti di cooperazione autonome, fondate sul comune e irriducibili ad un utilizzo capitalistico? Parli, tra le altre cose, di Commons di internet (ed anche, al termine del libro, del caso Faircoop). Cosa intendi?
GG. Quella parte del nostro patrimonio genetico del “dentro e contro il capitalismo” sembra essersi espanso e diluito nello stesso tempo. Il termine “comune” nelle sue numerose declinazioni (il comune al singolare, i beni comuni, “commons” etc.) è sempre più d’attualità quasi a contrappeso della pesante influenza che il Neurocapitalismo esercita nei confronti delle soggettività per promuovere un individualismo sempre più esacerbato. Cito nel libro qualche esempio e fra l’altro quello della Faircoop. Potrei aggiungere qui altre esperienze ed in fondo anche il recente movimento francese è una forma di cooperazione autonoma che si orienta in maniera consapevolmente antagonista rispetto agli incessanti attacchi neoliberisti fisicamente portati in Europa (e non solo) dagli ultimi guardiani di una socialdemocrazia in decomposizione avanzata. In un altro registro pero’ il capitalismo è e resta, come scriveva Foucault, un tecnologia di potere e quindi cerca, e molto spesso riesce, ad permeare le esperienze cooperazioni autonome, sfruttando proprio il clima di grande precarietà ed attacco al reddito. Con la fine dell’epoca delle appartenenze è più difficile parlare di “isole” irriducibili di “fortini imprendibili”. Preferirei parlare della creazione di quell’infinitesimale deviazione dei flussi che meccanicamente si amplifica nello spazio-tempo. Si sta già producendo ma non so proprio se non sia già troppo tardi, per evitare le catastrofi previste da molti fra cui il compagno Bifo.
SC In questo primo numero di sudcomune recensiamo il libro «La moneta del comune», gli atti di un convegno tenutosi a Milano che ti ha visto tra i relatori. I contenuti del tuo intervento sono presenti in Neurocapitalismo quando parli di bitcoin criptomonete, in un paragrafo dal titolo Unblock The Chain. La blockchain tra distopia algoritmica e strumento del comune. Di che si tratta?
GG. E’ un tema che ho ripreso e sviluppato in Neurocapitalismo. Lo svilupparsi delle tecniche basate sulla blockchain permette in teoria uno sviluppo senza limiti d’imprese, organizzazioni contratti anche sociali decentralizzati e “autonomi” nel senso che sono esclusivamente governati da algoritmi.
«Se c’è l’idea di un software che diriga gli umani, l’impresa decentralizzata, è esattamente questo. Contrariamente alle paure, non si tratta di un diabolico robot senza cuore che si impone con un pugno di ferro all’umanità; in effetti, i compiti che una tale impresa dovrà esternalizzare sono precisamente quelli che richiedono la più grande creatività e libertà umana». Ci dice il giovane Vitalik Buterin, fondatore di Ethereum e uomo chiave in questa “mouvance” della blockchain 2.0. Io invece diffido molto di questo approccio perché il neoliberismo vorrà per esempio “concepire corporation autonome e digitali in cui i “pari” sono gli azionisti che estraggono profitto e la cui governance è determinata da algoritmi che pilotano il lavoro umano? Sarà la Blockchain 2.0 ad “attivare” i lavoratori dei contratti a zero ore? Inoltre questa idea che gli algoritmi di una blockchain che governa siano “incorruttibili ed imparziali” mentre gli uomini sono deboli e corrotti cara ai libertarian ci conduce direttamente al Leviatano tecnologico e all’integralismo arcaico foriero delle necropolitiche contemporanee di cui parlo nel paragrafo omonimo. Siamo stati informati recentemente su Effimera.org che Ethereum è stato hackerato e che il suo progetto di fornire “smart contracts” ad un grande consorzio di Banche Multinazionali quindi potrebbe essere rimesso in discussione. E’ una buona notizia ma il pericolo è solo allontanato.
Nonostante questo la blockchain resta una tecnologia che, se usata per fini diversi da quelli di cui sopra, potrà esserci utile come accennavo in precedenza nel discorso sul Basic Income.
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