di OLIMPIA MALATESTA (in connessioniprecarie.org, luglio 2017)
Governance» è una delle parole maggiormente utilizzate nel lessico politico contemporaneo. Ricorre con frequenza nei documenti ufficiali dell’OCSE, della Banca Mondiale e dell’Unione Europea e designa il passaggio dalle forme decisionali verticistiche e «Stato-centriche del policy making (tipiche del fordismo)» a forme di coordinazione politica ed economica orizzontali in cui i programmi da attuare vengono concordati attraverso reti che intrecciano diversi livelli: locale, regionale, statale, europeo e globale. Inserendosi nell’ampio novero di studi governamentali sul neoliberalismo, il libro di Giuliana Commisso, dal titolo La genealogia della governance: Dal liberalismo all’economia sociale di mercato (Asterios, 2016), si pone l’obiettivo di far luce sul significato e i limiti della governance, espressione nient’affatto disinteressata di un mondo che si vorrebbe post-ideologico. A tale scopo l’autrice individua nelle categorie concettuali foucaultiane lo strumento più adatto per ripercorrerne l’origine e si cimenta in un impegnativo riepilogo dei principali nodi teorici del pensatore francese, riuscendo a restituire la complessità del «dispositivo potere-sapere», a ricostruire la nascita della ragion di Stato nella sua accezione di pratica di governo e ad evidenziare il passaggio da questa alla governamentalità liberale prima e a quella neoliberale poi.
A dispetto di quanto annunciato dal sottotitolo del libro, che recita L’ordoliberalismo tedesco, il significato e la portata storica e politica di quest’ultimo vengono presi in esame solamente negli ultimi capitoli, ciò nondimeno densi e ricchi di spunti: se, da una parte, Commisso propone un’efficace sintesi dei principi fondamentali della teoria ordoliberale, dall’altra, la sua totale adesione all’interpretazione foucaultiana dell’ordoliberalismo ‒ oggi dominante anche grazie alla sua ripresa da parte di Pierre Dardot e Christian Laval in La nuova ragione del mondo ‒ pone dei seri dubbi sulla capacità di quest’ultima di afferrare un aspetto cruciale del pensiero ordoliberale: la decisa neutralizzazione dello scontro di classe da realizzare attraverso uno Stato che, come sottolinea Commisso, assimila i meccanismi della governance senza che ciò comporti la sua scomparsa.
Il filo rosso che unisce le diverse sezioni del libro, infatti, è l’argomento secondo cui nel contesto europeo della governance lo Stato non scompare affatto: semmai diviene lo spazio istituzionale attraverso il quale imporre i nuovi vincoli politici ed economici, che vedono nell’esautorazione della sovranità democratica la vera condizione di possibilità della loro esistenza. Emblematico in questo senso è il ruolo che gli ordoliberali ‒ gruppo di economisti che avviano le loro riflessioni alla fine degli anni Venti e che nel ’48 fondano la rivista «ORDO» ‒ assegnano allo Stato, trasformato in un arbitro incaricato di vegliare sulla concorrenza: rifiutando sia i principi del liberalismo del laissez faire – basato su una visione autoregolativa e armonizzante del mercato – sia qualsiasi forma di pianificazione economica di stampo keynesiano – ai loro occhi intrinsecamente totalitaria – quegli economisti asseriscono che la dinamica capitalistica non sarebbe governata da un «fatalistico processo di sviluppo» (Eucken), essendo piuttosto il risultato di un ordine economico-giuridico, in quanto tale modificabile. Conseguentemente, la crisi del ’29 non viene ricondotta alle contraddizioni inerenti al modo di produzione capitalistico condannato alla sua Selbstaufhebung ‒ alla sua autodissoluzione ‒ ma esclusivamente alle modalità miopi e irresponsabili con cui il suo processo era stato gestito a livello tecnico. Occorreva, quindi, costruire quelle «condizioni quadro» che, come puntualizza Wilhelm Röpke, avrebbero assicurato «attraverso la legislazione, l’amministrazione, la giurisprudenza, la politica finanziaria e le direttive spirituali ed etiche» il corretto funzionamento dell’economia di mercato e della sua dinamica concorrenziale senza, ovviamente, intervenire attivamente in essi. Tra queste condizioni quadro Walter Eucken individua nella stabilità monetaria (quindi nel principio anti-inflazionistico), sottratta a ogni controllo politico, il dogma sacro da non violare. Di qui anche l’abbandono deciso di ogni politica di pieno impiego: «se l’azione di governo si limita a controllare l’inflazione e a ridurre la fiscalità, il tasso di disoccupazione si stabilirà a un tasso “naturale” relativo», chiarisce Commisso. Un tasso «naturale» che l’Unione Europea fissa oggi attraverso il NAIRU (Non-Accelerating Inflation Rate of Unemployment), l’indicatore economico del tasso di disoccupazione che non genera spinte inflazionistiche (nel caso dell’Italia oscilla tra il 10,5% e il 12,7%!).
Si tratta dei medesimi principi che ispirano il Trattato di Lisbona, che all’articolo 2.3 indica in «un’Economia sociale di mercato fortemente competitiva» ‒ espressione coniata dall’ordoliberale Müller-Armack nel 1947 ‒ il quadro di riferimento per «uno sviluppo durevole dell’Europa fondato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi». L’indipendenza della BCE e le regole di bilancio dell’Unione sono perfettamente in linea con i principi economici ordoliberali. Si pensi per esempio al pareggio di bilancio inserito in Costituzione all’articolo 81 che, vincolando la spesa pubblica, elimina ogni spazio operativo per politiche fiscali espansive da parte dello Stato. Anche il principio di sussidiarietà, di esplicita derivazione ordoliberale, orienta l’intero quadro del Trattato di Maastricht: esso «vincola la potenza pubblica, sia lo Stato che la comunità, dall’intervenire in quei settori sociali in cui le “persone” e le “aggregazioni della società civile” (ad esempio, le imprese sociali, le associazioni, il volontariato, il terzo settore) possono provvedere al soddisfacimento dei bisogni sociali». In questo contesto, se è pur vero che la capacità dei singoli Stati di modificare le condizioni quadro del mercato viene sistematicamente ridotta – se non eliminata del tutto –, essi, lungi dallo scomparire, incorporano attivamente i nuovi criteri gestionali, mentre, come puntualizza Commisso, «l’Unione ha il potere di coordinamento e di sorveglianza, e la possibilità di raccomandare modifiche nella politica fiscale e applicare sanzioni contro i governi per la violazione delle norme concordate».
Michel Foucault si accorge prima di molti altri che la specificità della governamentalità ordoliberale non consiste tanto nella chiara delimitazione del campo di azione dello Stato – quale era invece l’operazione condotta dal liberalismo del laissez faire – quanto, piuttosto, nella ridefinizione del suo ruolo: lo Stato diviene il garante del meccanismo concorrenziale. Commisso elogia la straordinaria preveggenza di Foucault nell’aver compreso con estremo anticipo i meccanismi della governance, molto prima, cioè, che si manifestassero i segni della sua attuale crisi. È però arrivato il momento di riflettere sui limiti della lettura foucaultiana che non sono solo di natura puramente storiografica, come Commisso puntualmente segnala. Si deve infatti riconoscere che, diversamente da quanto afferma Foucault, l’ordoliberalismo non fu affatto una corrente d’ispirazione liberale sorta dalle ceneri della Seconda guerra mondiale e affetta da una «fobia dello Stato». Semmai sarebbe più opportuno parlare di una ‘fobia dirigistica’, e cioè di una profonda sfiducia verso qualsiasi forma di pianificazione economica. L’impiego dell’espressione «fobia dello Stato» conduce a facili fraintendimenti (anche se una lettura attenta di Nascita della biopolitica dovrebbe prevenirli). Gli ordoliberali, infatti, non difendono in alcun modo una concezione di Stato minimo à la Nozick: la simpatia non troppo velata di Alfred Müller-Armack per il fascismo italiano, ma anche la fraseologia antidemocratica che auspica l’intervento di uno Stato forte ‒ di esplicita derivazione schmittiana ‒ che avrebbe dovuto ristabilire una netta separazione tra lo Stato e la società civile viene impiegata senza eccezioni da tutti gli ordoliberali già all’inizio degli anni Trenta. Anche se sarebbe ingiusto, prima ancora che scorretto, liquidarli come dei criptonazisti. L’insopprimibile disprezzo da essi manifestato nei confronti delle masse proletarie colpevoli di esercitare pressioni sullo Stato non può però di certo farli apparire come dei campioni di democrazia parlamentare, contrariamente alla mitologia sociale che all’alba della fondazione della Bundesrepublik Deutschland li voleva da sempre coraggiosamente antinazisti e convintamente democratici.
Al di là delle imprecisioni di «ordine genealogico» occorrerebbe però sondare le capacità esplicative della concezione foucaultiana del potere. Questa visione trasversale, molecolare e acefala, che disciplina i corpi e dirige le condotte individuali modulandole sulle esigenze del sistema economico nel suo complesso, fornisce indubbiamente degli strumenti preziosi per comprendere il livello «microfisico» su cui si esercita la governamentalità ordoliberale: del resto, in uno scritto del 1946, lo stesso Franz Böhm segnala la necessità di stabilire legalmente «un comportamento economicamente corretto» attraverso un sistema di «punizioni» e di «ricompense» capaci di «orientare» ‒ che qui significa ‘disciplinare’ ‒ la condotta economica del singolo individuo. Tuttavia, questa lettura ‘individualizzante’ dell’ordoliberalismo si arresta proprio lì dove una critica compiuta dovrebbe invece iniziare ad articolarsi. Essa non riesce, o forse non vuole, cogliere gli aspetti strutturali dell’ordoliberalismo: ossia la centralità che il conflitto di classe (o meglio, la sua decisa eliminazione) assume nella logica stessa del suo discorso. Ciò che Foucault in definitiva non esplicita, ma che sarebbe purtuttavia presente nelle premesse della sua analisi, è che l’obiettivo politico (teorico e pratico insieme) dell’ordoliberalismo è la disattivazione dell’opposizione di classe, la soppressione di qualsiasi immaginario di contrapposizione di interessi, quindi la creazione di una società in cui il conflitto è strutturalmente sedato.
Questa ferma negazione del conflitto si esprime nella volontà di depoliticizzare interamente l’economia ed è presente sia nella teoria ordoliberale delle origini, sia nella sua ‘applicazione’ politico-economica dell’era Adenauer, durante la quale veniva messa in piedi una potente macchina propagandistica che decretava la fine del conflitto sociale: der Klassenkampf ist zu Ende ‒ «la lotta di classe è finita» ‒ recitava lo slogan principale della campagna finanziata dalla Aktionsgemeinschaft Soziale Marktwirtschaft, think thank per la promozione dell’economia sociale di mercato composto da imprenditori ed economisti ordoliberali, tutt’oggi attivo. Si consideri a tal proposito il disprezzo di Wilhelm Röpke per quella che definisce Interessentenherrschaft ‒ «il dominio dei soggetti d’interesse», generatrice di disordine e discordia, cui contrappone invece l’ordinata e imperturbabile «democrazia del consumatore». Ciò che agli occhi degli ordoliberali risulta inammissibile è quindi quella che sempre Röpke definisce la «politicizzazione della vita economica»: che lo Stato divenga il terreno di scontro di interessi sociali tra loro confliggenti è una circostanza assolutamente intollerabile. Lo spiega bene Alexander Rüstow all’inizio degli anni Trenta, quando, richiamandosi a Schmitt, definisce lo Stato «la preda della società civile». Soltanto la «prestazione economica» del singolo individuo può incidere sui processi economici e sul successo personale, non la politische Machtstellung ‒ «posizione di potere politico» ‒ delle classi sociali, ammonisce Röpke. Si comprende come questa «morale prestazionale», basata su un sistema di ricompense e punizioni, possa funzionare solamente se applicata ad individui: è precisamente per questo motivo che ogni opposizione tra classi deve essere rimossa. Essa rappresenta un potente elemento di discordia che minaccia di turbare l’armonia della società, la quale, a sua volta, si deve appunto fondare esclusivamente sulla prestazione economica del singolo individuo, unico soggetto al quale è possibile elargire «ricompense economiche». In che modo, infatti, si potrebbe valutare la performance economica di intere classi sociali? Una risposta a questo interrogativo, forse, la formula Alfred Müller-Armack, il quale, nel ’32 elaborò l’idea profondamente antimarxista per cui le classi sociali, lungi dal risultare da rapporti di forza e di dominio, sarebbero invece conseguenza del loro «servizio al progresso» (Dienst am Fortschritt). In altre parole, il profitto non dipenderebbe affatto dal possesso dei mezzi di produzione concentrati nelle mani di pochi, ma sarebbe «un risultato della funzione dinamica», del «merito» della classe imprenditrice.
Ciò che quindi la Weltanschauung ordoliberale, così come l’ideologia della governance, sistematicamente obliterano è il conflitto sociale, di classe, consustanziale al modo di produzione capitalistico, rimosso integralmente grazie alla pervasiva diffusione del modello dell’autoimprenditorialità che sposta il conflitto dalla dimensione sociale a quella interpersonale. In definitiva, proprio perché hanno in orrore gli Interessenten e la lotta derivante dalla loro interazione politica, gli ordoliberali eliminano dal loro orizzonte di pensiero la contrapposizione di interessi caratteristica dello spazio statuale. Al suo posto, il cieco rispetto delle condizioni-quadro, ossia dei vincoli economici e politici transnazionali, da parte di una governance europea ideologicamente neutra e appassionatamente disinteressata, tenta oggi di sbarazzarsi di quell’ingombrante prodotto della modernità che è la sovranità popolare, pericoloso strumento attraverso il quale le classi subalterne potrebbero far valere la loro forza.