di GIROLAMO DE MICHELE (in il manifesto.it, dicembre 2017)
«La speranza è una cosa infame inventata dai padroni», dice Mario Monicelli nel suo videotestamento spirituale. È la trappola nella quale è caduta Taranto con la fabbrica, come riconosce uno degli operai intervistati da Marta Vignola nel suo La fabbrica. Memoria e narrazioni nella Taranto (post)industriale (Meltemi, pp. 214, euro 16), libro d’inchiesta, ma anche di denuncia del paradigma dello sviluppo e del progresso. Libro che mette al lavoro la memoria, attraverso interviste narrative incrociate con un’accurata conoscenza dei documenti e dei fatti; ma che fa, anche, della memoria oggetto d’indagine, perché «la formazione di una memoria collettiva è un processo sociale». E anche, perché l’accumulo delle voci dell’inchiesta decostruisce la memoria apparente e consolante, il falso ricordo di un’età dell’oro pre-Italsider.
IL RAPPORTO di servaggio della città verso la fabbrica era già precostituito alla fine dell’800, con la costruzione di Arsenale militare e cantieri Tosi, che fanno «progredire» la città verso la modernità, ma al prezzo di bloccarne lo sviluppo, impedire la formazione di un ceto imprenditoriale dinamico e svincolato dal clientelismo, e creano le condizioni di sistema per spuntare la forza della nascente classe operaia. Lo stesso dispositivo si concretizza nel dopoguerra, attraverso l’intervento pubblico che favorisce lo sviluppo industriale del Meridione, ma lo incanala al servizi delle esigenze e degli interessi dei gruppi capitalistici e industriali del Nord, come riconosce un Rapporto Svimez del 1991 citato nel libro, che sembra parafrasare quel Stato e sottosviluppo di Ferrari Bravo e Serafini del 1972.
Vignola è puntuale nel mostrare la costruzione dei falsi miti della «retorica sviluppista» che abbelliscono un «colonialismo assistenziale che considerò territorio e società come oggetto di esperimento e sfruttamento ad opera di tecnocrati aziendali e presunti riformatori», attraverso una clientelizzazione dei rapporti sociale della quale il sindacato è stato complice.
Le voci dell’inchiesta scandiscono le fasi che portano Taranto da «capitale dell’acciaio», alla crisi del modello industriale e alla devastazione sociale e ambientale, con la progressiva consapevolezza dell’essere una città di guerra: «un’identità ferita e resa fragile ma anche pienamente consapevole dai danni che un modello di sviluppo ha prodotto sui propri corpi». Fino all’ultima illusione: quel fermento che si diffonde con l’avvento di una nuova classe dirigente – i Vendola, gli Stefano, i Fratoianni: le «buone pratiche pugliesi» – che genera una presa di coraggio e la percezione che il vento possa cambiare. E al tradimento, «la presa per il culo della legge antidiossina», come dichiara un operaio Ilva, che svuota di contenuti e di strumenti le richieste degli ambientalisti.
È IL MOMENTO in cui la classe dirigente pugliese si schiera nel conflitto fra padrone e ambiente col padrone – i «comuni valori cristiani» che Vendola rintracciò fra sé ed Emilio Riva, le telefonate per «frantumare» il direttore dell’Arpa, l’opposizione al referendum popolare contro il «polmone produttivo della Puglia». Fino a quel 26 luglio 2012 nel quale tocca alla magistratura affermare, in una città in cui «un morto o un malato in casa non è la singolarità, ma una narrazione condivisa», che salute e vita umana sono «beni di rango costituzionale» non assoggettabili. Resta la tragedia di un deserto chiamato progresso, che non ha trovato riparazione simbolica né possibilità di riscatto, se non in alcune pratiche «dal basso», nate dalla presa di coscienza dell’essere diventati i diritti sociali, nell’età del neoliberalismo, «una variabile dipendente dall’economia».
Soffia, al termine del libro, un vento gelido, nel quale il possibile paragone di Taranto con la città calviniana di Zenobia che «riesce a dar forma ai desideri» non può nascondere la possibilità che Taranto sia, come Zenobia, città di quelle «in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati».