di FRANCESCO PAOLELLA (in tysm.org, settembre 2018)
Studiosi o meno di filosofia, le parole e le idee di Leopardi sono per tanti un porto sicuro e una vera consolazione, a cui ritornare il più possibile e a cui concedere, soprattutto, la possibilità di vincere l’incantesimo che le eterne, facili illusioni mettono fra l’uomo e la realtà.
Ora c’è l’occasione di leggere, di due filosofi del Novecento italiano, Giuseppe Rensi e Adriano Tilgher, altrettanti volumi su Leopardi, e sul Leopardi filosofo in particolare, volumi che vengono pubblicati da Aragno e che sono stati curati da Raoul Bruni.
Si tratta di testimonianze importanti, scritte da pensatori radicali, in certo modo eretici e, senza dubbio, anticonformisti nel loro tempo; di Leopardi hanno saputo recuperare e mostrare bene la radicalità, la forza di un pensiero che una lunga tradizione nazionale ha liquidato volentieri come semplice “corredo” a un lavoro poetico.
Nei suoi saggi, Giuseppe Rensi, il filosofo dell’assurdo, ci riporta al Leopardi demistificatore, materialista e scettico a tutto campo (in rapporto al diritto, alla politica, all’estetica). Adriano Tilgher ha disegnato invece un quadro complessivo della filosofia di Leopardi, sì difendendone ed esaltandone anzi il valore di pensatore assoluto, ma senza tacerne le ambiguità e, talora, le contraddizioni. Rensi e Tilgher scrissero di Leopardi nell’epoca dell’idealismo trionfante; tanto più importante, per questo, è il ritratto di un pensatore antiaccademico, antistoricista e antiprogressista che ne esce.
Leopardi fu un vero filosofo, perché filosofo “per impeto”, dalle intuizioni rapide ed originali, che volle affrontare la durezza del reale senza rifugiarsi nei sistemi e nelle consolazioni ideologiche. Per Tilgher, Leopardi fu un grande moralista soprattutto; dallo Zibaldone è possibile ricavare, come si sa, infiniti spunti sull’amore, sull’egoismo, sulla felicità e sul piacere. Leopardi è stato un vero “analista della noia” e, come pochi, ha saputo spiegare il potere delle illusioni, come pure, ad esempio, il valore dell’ebbrezza (ma sosteneva sempre una ragionevole moderazione). Il suo celebre pessimismo e il suo materialismo sono stati radicali ma non paralizzanti: egli è riuscito, a suo modo, a esaltare la vita, la salute, la forza.
Rensi e Tilgher ci ricordano l’inconciliabilità fra il pensiero di Leopardi e il cristianesimo: nessuna pietà per il dolore degli uomini, per la loro finitezza, per la loro mortalità, ha mai potuto avvicinarlo alla fede dei cristiani. Leopardi è stato invece il sostenitore di una vera e propria “teologia negativa”, ponendosi nella tradizione che vuole il divino al di là del bene e del male. Alla stessa maniera, emerge di continuo e fortissimo lo sguardo spietato di Leopardi sugli uomini, sulla casualità assoluta della loro “civiltà” (e, per certi versi, delle loro virtù). La storia degli uomini non spinge verso alcun ideale, né verso alcun progresso liberante, per i singoli come per le masse.
Leopardi ci ha lasciato – come Rensi e Tilgher hanno mostrato benissimo – una eredità gravosa e scomoda, che non si lascia rinchiudere in un sistema né una aspirazione più o meno apertamente politica. Sono importanti, in questo senso, le pagine che Tilgher ha scritto sul rapporto fra Leopardi e Pirandello: entrambi hanno lottato per maneggiare la vita, che è sempre una potenza oscura e nemica, il caos e le nostre illusioni.