di GIORGIO GRIZIOTTI
“Il capitale odia tutti [1], fascismo o rivoluzione” di Maurizio Lazzarato fa parte del gruppo ristretto dei libri che segnano una svolta nella riflessione sugli attuali “tempi apocalittici” a cui si accenna nell’introduzione.
Il sentimento di trovarsi davanti a un libro “importante” emerge man mano che, percorrendo le pagine, si delineano il vasto scenario e le cause della sconfitta storica del post ’68. Situazione che si aggrava man mano che entriamo nell’era del “crollo” senza che sinora siano apparse diagnosi credibili proprio perché alla sconfitta politica corrisponde quella teorica che coinvolge tutto il pensiero dell’epoca, da Foucault e Deleuze a Negri ed Agamben per restare in un registro italo-francese che corrisponde alle due patrie dell’autore.
Per farci comprendere che il problema è essenzialmente politico Lazzarato ci ricorda come nel secolo scorso masse di quasi analfabeti siano riuscite a compiere rivoluzioni in paesi poveri e colonizzati, che nel caso di Cina e Russia si trasformano in durature potenze mondiali, mentre oggi il tanto da noi celebrato General Intellect, all’origine dei nuovi paradigmi tecnologici (p. es. il free software), subisca nell’impotenza d’ascesa del fascismo 2.0. Cherchez l’erreur!
Lazzarato rimprovera al pensiero postsessantottino di aver accreditato una visione in qualche modo “positiva” del binomio produzione e innovazione del capitalismo, dove il lavoro creerebbe e riprodurrebbe le condizioni della vita. Se questo è stato in parte valido nei “trenta gloriosi” del dopoguerra con l’avvento del neoliberismo alla fine degli anni ’70, produzione e lavoro capitalisti creano condizioni di distruzione (della biosfera per esempio) e morte. Il fatto è che dal ’68 in poi sono stati usati gli strumenti politici e teorici del XIX secolo per trattare i problemi del XXI. Strumenti incapaci, per esempio, di prendere in conto “l’emergere di soggetti politici difficilmente identificabili con la classe operaia (il movimento di decolonizzazione e quello femminista, fra gli altri)”. Movimenti su cui si esercitano modalità di comando ed anche di produzione specifiche che al “classico” sfruttamento economico associano il dominio razziale e di genere.
Specificità che non possono essere affrontate con le ricette politiche ed organizzative tradizionali della classe operaia. O per dirla con un eufemismo: leninismo e dittatura del proletariato non esercitano nessun fascino sull’ecologia politica o il femminismo…
Nel frattempo, per completare il quadro, la frattura delle due guerre mondiali e poi della guerra fredda scuote dalle fondamenta la centralità della categoria marxiana della «produzione», la cui caduta trascina con sé la classe operaia, il soggetto che aveva operato la rottura della prima rivoluzione globale nel 1917.
La produzione allora diventa solo un momento della circolazione delle merci e della logistica, ispirata dall’incredibile macchina in opera dall’esercito Usa durante la seconda guerra mondiale, di cui la piattaforma globale Amazon, è oggi l’incarnazione più simbolica. E poi, col neoliberismo la preponderanza della circolazione dei flussi immateriali d’informazione e conoscenza prende il sopravvento. Su quest’ultimo aspetto la tesi di Lazzarato sembrerebbe non discostarsi troppo da quella del Capitalismo Cognitivo. Quest’ultimo è invece criticato proprio perché mette l’attività cognitiva sullo stesso piano dominante ed egemonico che era stato occupato da quella operaia della produzione industriale nella precedente era capitalista. E qui sta secondo l’autore, il fatal error che non è solo del Capitalismo Cognitivo ma addirittura di Marx: un eurocentrismo che impedisce di prendere correttamente in conto che l’accumulazione capitalista cammina da sempre su due gambe.
La prima gamba è quella dello sfruttamento del lavoro produttivo, a cui si riferisce la teoria marxiana del valore lavoro per intenderci. L’altra è l’accumulazione per appropriazione ed estrazione del lavoro e delle risorse non pagate umane ed extraumane.
L’autore sta lavorando per approfondire l’aspetto del lavoro non retribuito anche in relazione all’ecologia con un interesse particolare ai lavori di Jason Moore e sta facendo pubblicare in Francia Antropocene e Capitatocene[2] di cui scrive la prefazione. Il suo proposito è di continuare a lavorare sull’analisi di un lavoro umano non pagato, estratto di forza o meno, in cui c’è di tutto: dal lavoro di riproduzione sociale e di cura svolto dalle donne a quello dei postcolonizzati dei paesi poveri e poi ancora quello dei migranti e del crescente esercito dei poveri nei paesi ricchi ma anche, e questa è la novità del neoliberismo, tutto il lavoro gratuito estratto in rete globalmente e tramite le tecnologie.
Nell’appropriazione proveniente dall’extraumano c’è il lavoro della terra, quello dei non umani, ma anche lo sfruttamento delle risorse inorganiche. Questi elementi possono quindi essere definiti come un “surplus ecologico” in quanto prodotti da nature diverse.
Inutile dire che sin dal 1492, anno in cui secondo Braudel e Wallerstein nascono l’economia-mondo ed il capitalismo, quest’ultimo pratica queste appropriazioni umane ed extraumane, in qualsiasi modo: furto, saccheggio, espropriazione violenta, guerra e genocidi.
Lazzarato ci fa appunto notare che neanche Marx, pur avendo trattato dell’appropriazione a proposito dell’accumulazione primitiva, non aveva in realtà integrato questo aspetto fondamentale alla teoria del valore.
Ci troviamo quindi di fronte ad una tesi convincente in cui si traccia, in sintonia con quanto scrive Jason Moore, una visione ampia e coerente della strategia globale del capitalismo. In tale quadro si delineano sia le ragioni della lunga sconfitta del ‘68 che la fugacità e la debolezza dei movimenti dell’inizio del XXI secolo (Altermondialismo, Primavera araba/Occupy) che non riescono a trovare una strategia.
Mi pare inoltre che le tesi dell’autore siano confortate dalla realtà a cui ci troviamo di fronte: da un lato il declino dei movimenti che vedevano il cognitariato urbano come asse dell’antagonismo trainante (si pensi per esempio a S. Precario in Italia) e dall’altro l’emergere di due grandi movimenti globali, rispettivamente femminista (ed in particolare NUMD) ed ecologista e di uno, i Gilets Jaunes, più localizzato in Francia, ma dalle connotazioni politiche più marcatamente antineoliberiste.
In queste condizioni seguire il suggerimento del compagno Bifo[3], di guardare a Silicon Valley come Lenin guardava alle officine Putilof, vincendo, e gli autonomi a Mirafiori negli anni ’70, perdendo, sarebbe un diabolico perseverare nell’errore e nella sconfitta!
Trump e le macchine di guerra
Una delle argomentazioni più significative della ricca seconda parte del libro, “Macchina tecnica e macchina di guerra”, porta sulla disfatta in corso del neurocapitalismo. Lazzarato ha pienamente ragione quando afferma che “Le imprese della Silicon Valley hanno largamente contribuito a creare la situazione che ha permesso a Trump di prendere il potere” e che “la distribuzione orizzontale del potere promessa dalla miniaturizzazione dei computer ha condotto al suo opposto, dei monopoli che hanno largamente superato quelli dell’epoca industriale”. L’enorme dispiegamento effettuato dalle piattaforme globali che, negli ultimi due decenni, ha fatto del bioipermedia[4] una sfera sussunta dal capitalismo aveva come obbiettivo primario la creazione di soggettività sottomesse e compatibili con l’ideologia neoliberista. Ora possiamo constatare come tale obbiettivo sia in gran parte fallito.
Le esplosioni sempre più diffuse ed intense contro le condizioni di vita imposte dal neoliberismo nei paesi del Sud: Equador, Cile, Venezuela, Bolivia, Haiti, Algeria, Iraq, Libano, Sudan o Honk Kong solo per citare le più recenti e le vittorie del fascismo 2.0 soprattutto al Nord (Trump, Johnson, Bolsonaro, Orban etc.) dimostrano perlomeno che:
- La ribellione che esplode al Sud e l’ascesa elettorale del fascismo 2.0 al Nord costituiscono una dicotomia reale pur avendo in comune una causa principale, il neoliberismo e un’origine, la crisi irrisolta del 2008.
Lazzarato ci ricorda come negli anni ’60 il problema sia già stato posto da Hans-Jürgen Krahl: “se è vero che «non esiste un esempio di rivoluzione vittoriosa nei paesi altamente sviluppati», è anche verificato che le rivoluzioni non smettono di prodursi nel «terzo mondo» … ma la rivoluzione nelle colonie «non ha alcun carattere paradigmatico per i paesi capitalisti», perché in Occidente «il dominio e l’oppressione non si esercitano sulla base della miseria materiale e dell’oppressione fisica».
Questo resta d’attualità, benché la brutalità della repressione dei Gilets Jaunes in Francia abbia prodotto qualche decina di mutilati come paragonarla a quella delle rivolte nel Sud con le decine di morti della rivolta in Cile o le centinaia di quelle in Sudan o nei paesi arabi?
Krahl aveva già all’epoca spiegato che solo il superamento di tale dicotomia fra Nord e Sud avrebbe messo le basi della rivoluzione mondiale. - Le megamacchine del neurocapitalismo, cioè le piattaforme globali, non sono riuscite nel loro intento di piegare definitivamente le soggettività alla logica neoliberista della messa in concorrenza di tutti con tutti anche a livello delle popolazioni. Al contrario esse hanno contribuito ad una “devastazione sociale e psichica” senza limiti. Nel libro le piattaforme vengono addirittura definite “Tigri di carta”[5] con la metafora usata da Mao per denigrare la potenza militare Usa negli anni sessanta. Tigri di carta con un’enorme potenza neuronale ma forse effimere davanti “alle raffiche di vento e agli scrosci di pioggia”[6] del collasso in corso come inutili furono i denti atomici degli Usa, che hanno perso tutte le guerre dal 1945 in poi. Un’ipotesi che metterei in relazione con la critica fatta da Lazzarato al concetto di biopolitica foucaultiano, in cui Zuckerberg, Brin[7] e company hanno profondamente creduto e credono ancora. Se è vero che lo smartphone che ci portiamo addosso è il dispositivo di rete biopolitico per eccellenza, pare ormai evidente che questo regime reticolare neoliberista non riesce ad imporre una sussunzione vitale generalizzata (solo) tramite questi strumenti.
Al Nord i fascismi 2.0 avanzano proprio per la stessa ragione per cui Trump vince: non perché abbia saputo utilizzare tecnologie dei social media meglio di altri ma “perché ha saputo esprimere e costruire politicamente delle soggettività neofasciste, razziste, sessiste”. Ci è riuscito facendo leva “sull’annientamento prodotto da quarant’anni di politiche economiche che hanno sistematicamente impoverito tali soggettività e da politiche dell’informazione che le hanno disprezzate come «buoni a nulla», restii a qualunque modernizzazione”. Questa operazione viene resa possibile dalla morte della sinistra novecentesca mondiale in tutte le sue forme: dall’integrazione della socialdemocrazia nel neoliberismo all’abbandono di qualsiasi prospettiva rivoluzionaria del pensiero post-‘68 “che ha mostrato che quando la rivoluzione sociale si separa dalla rivoluzione politica, essa può essere integrata, senza alcuna difficoltà, nella macchina capitalista come nuova risorsa per l’accumulazione di capitale”.
Questo fallimento del neurocapitalismo della Silicon Valley come prima opzione di sussunzione spinge la governance neoliberista verso l’opzione del fascismo 2.0. A questo proposito l’autore ci ricorda opportunamente come la prima implementazione del neoliberismo sul terreno fu quella dei Chicago Boys nel Cile del dittatore fascista Pinochet; e come oggi “la rappresentanza e il Parlamento non detengano alcun potere, essendo questo interamente concentrato nell’esecutivo che, nel neoliberismo, esegue non gli ordini del «popolo» o dell’interesse generale, ma quelli del capitale e della proprietà”. La capitolazione a cui si sta avviando sul Brexit Westminster, il padre di tutti i parlamenti, potrebbe costituire il suggello finale di questa affermazione.
Con “Il capitale odia tutti” si delinea una teoria postmarxista che corregge la visione eurocentrica della teoria del valore e nello stesso tempo comincia ad integrare movimenti contro l’accumulazione per appropriazione e quelli dell’ecologia politica. L’ipotesi, sostenuta maggioritariamente nel post ’68 della sinistra antagonista, Tronti ed operaisti in testa, che la rivoluzione mondiale potesse e dovesse cominciare nei paesi di punta dell’industrializzazione, mentre i rivoluzionari terzomondisti erano guardati con una certa condiscendenza è stata smentita clamorosamente dalla Storia. Non una sola delle rivoluzioni del XX è avvenuta in Occidente, ci ricorda Lazzarato, ed averlo ignorato fino ad oggi è stato uno degli errori strategici.
Il sottotitolo “Fascismo o rivoluzione” indica chiaramente quali siano le alternative, ma mentre la prima è in corso, la seconda sembra lontana ed il libro non può e neanche pretende indicarne le modalità. Il fatto però di cominciare a sviluppare una teoria coerente della necessità di una rivoluzione globale è un primo passo verso il capovolgimento del credo depressivo di Mark Fisher che sia più facile immaginare la fine del mondo che non quella del capitalismo.
Questa recensione è naturalmente il frutto della lettura del libro ma anche di una serie di incontri con l’autore, che ringrazio, e che mi hanno permesso di discutere e approfondire alcuni dei principali temi trattati ed i loro significativi sviluppi in corso.
Parigi, 1/11/2019
Note
[1] Traduzione letterale del titolo originale Le capital déteste tout le monde – incapace purtroppo di cogliere la parafrasi evocata dal popolare slogan delle manifestazioni francesi – Tout le monde déteste la police (Tutti odiano la polizia).
[2] Edizione Italiana: Jason Moore, Antropocene o Capitalocene, Ombre Corte, 2017.
[3] In ultima pagina di Futurabilità! Franco Berardi “Bifo”, Futurabilità, Nero Edizioni, p. 246.
[4] ”l’ambito in cui il corpo nella sua integralità si connette ai dispositivi di rete in modo talmente intimo da entrare in una simbiosi in cui avvengono modificazioni e simulazioni reciproche”. Giorgio Griziotti, Neurocapitalismo, Mimesis, 2016, p.120.
[5] “Tigre di carta coi denti atomici” fu la risposta di Krusciov a Mao che denigrava la potenza yankee.
[6] “L’IMPERIALISMO AMERICANO È UNA TIGRE DI CARTA”, http://www.bibliotecamarxista.org/Mao/libro_13/l%27imp_am_tigr_cart.pdf (Visitato il 29/10/2019)
[7] Rispettivamente fondatore di Facebook e cofondatore di Google.