La vocazione globale del capitalismo

di BENEDETTO VECCHI (in Il Manifesto, gennaio 2019)

La globalizzazione è un fenomeno irreversibile nonostante le forti tendenze di un ritorno alla dimensione nazionale nel governo dello sviluppo economico. Ma anche se tali tendenze prevalessero non ci sarebbe nessun ritorno al passato perché è stata proprio l’azione di alcuni stati-nazione a favorire la costituzione di una economia mondiale. Assistiamo, dunque, alla nota polarità tra la vocazione globale del capitalismo e una dimensione locale, nazionale del governo politico di tale processo.

SIGNIFICATIVO a questo proposito è il ruolo svolto da organismi sovranazionali, come la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale il Wto, nel radicalizzare la dimensione globale dell’economia capitalistica, determinando le condizioni di una «iperglobalizzazione» che manifesta l’ostilità verso la dimensione politica locale, cioè nazionale dalla quale la globalizzazione ha pur preso le mosse.
In questa situazione, emergono sulla scena pubblica identità collettive che sfoggiano con disinvoltura una critica corrosiva verso le cristallizzazioni conservatrici, talvolta reazionarie, delle identità collettive del passato. A manifestare questi punti di vista non sono apologeti della globalizzazione capitalistica, bensì studiosi – come Colin Crouch o Dani Rodrik – che hanno espresso una documentata critica alla dimensione neoliberista che l’ha contraddistinta.

LA CRISI FINANZIARIA del 2008 ha però reso manifesto l’esaurirsi della spinta propulsiva dell’economia mondiale e la necessità di una rinnovata analisi proprio sulla irreversibilità della globalizzazione, partendo dal ritorno sulla scena di quel protagonista dello sviluppo capitalista che si è soliti chiamare stato-nazione.
Infine, diviene urgente affermare che il capitalismo non prevede, come i sostenitori della «iperglobalizzazione» sostengono, un solo modello sociale e politico fondato sul lento ritirarsi dello stato nazione dalla scena pubblica. Il crescente potere politico, economico, militare acquisito dalla Cina, ma anche dalla Corea del Sud e dall’India, segnala semmai che la globalizzazione più che sull’omogeneità fa leva su una dinamica pluralità di modelli sociali e politici, attivamente promossa dai governi nazionali come valore aggiunto di una economia che aspira a diventare globale.
A dipanare questa matassa aiutano due recenti libri di Dani Rodrik e Colin Crouch. Il primo, economista di origine turche, formatosi alla scuola di Albert Hirschman e autore, alla fine degli anni Novanta, del fortunato Il Paradosso della globalizzazione (Laterza), torna in libreria con una raccolta di scritti pubblicata da Einaudi con il titolo Dirla tutta sul mercato globale (pp. 312, euro 19), una meditata riflessione su come gli ultimi decenni siano da considerare un punto di svolta irreversibile nelle relazioni economiche, sociali e politiche del capitalismo. Il secondo saggio è Identità perdute (Laterza, pp. 130, euro 15) di Colin Crouch. Sono inoltre rilevanti i riferimenti alla cultura politica «sviluppista» di Cina e India, dove lo stato nazione è stato ed è l’indiscusso protagonista nell’organizzare e gestire le risorse finanziarie e «comunitarie» (cioè la cooperazione sociale del lavoro vivo) dei rispettivi paesi per favorire lo sviluppo economico.
Per entrambi gli autori, il vero arcano da svelare è però come il capitalismo abbia usato la leva del lavoro – i suoi diritti, il suo sfruttamento, la capacità di innovazione e di cooperazione del lavoro vivo – per favorire quella vocazione globale dello sviluppo economico che richiede una gestione nazionale, locale, cioè limitata nel tempo e nello spazio da parte dei governi, sia se è segregato negli sweatshop presenti nella periferia o al centro dell’«impero», oppure regolamentato (ma sarebbe meglio dire deregolamentato) secondo le normative vigenti giuslavoriste nazionali o internazionali.

È SULLA ETEROGENEA composizione del lavoro vivo, sulla sua capacità di innovazione produttiva o nel dare forma ai diritti sociali che si misura la tenuta della globalizzazione, al di là della rappresentazione che ne danno il Fondo monetario internazionale o la Ue, diventati i cani da guardia di una austerità che viene elevata a metafisica dello sviluppo economico, nonostante la realtà abbia ampiamente smentito tale fede salvifica e anche indipendentemente dal fatto che viene periodicamente riproposta come monito verso chi persegue supposti e improbabili egoismi nazionali.
C’è tuttavia una assenza macroscopica nei saggi di Rodrik e Crouch. Riguarda i modelli organizzativi emergenti in questa tensione tra stato-nazione e globalizzazione. È su questo crinale che assume rilevanza la provocazione teorica rappresentata dal volume di Paolo Gerbaudo The Digital Party (Pluto press, pp. 323).

IL LIBRO MUOVE i passi dall’antico adagio del pensiero critico che invitava a sovvertire le forme più avanzate dell’organizzazione produttiva per costruire partiti finalizzati all’abolizione dello stato di cose presenti. Il politico più temerario in questa operazione è stato sicuramente Lenin, che propose di modellare il partito bolscevico secondo le logiche dell’organizzazione scientifica del lavoro.
Il modello del partito bolscevico leninista aveva alle spalle le esperienze maturate nella socialdemocrazia tedesca di inizio Novecento, quando i dirigenti di quel partito operaio plasmarono il loro partito sulla falsariga del modello bismarckiano: la conquista dello stato era l’obiettivo prioritario per la trasformazione della realtà capitalistica. E tuttavia la suggestione leninista si proponeva di superare quei limiti facendo leva sulla capacità di una avvertita e «colta» avanguardia intellettuale che offrisse una coscienza di classe dall’esterno dell’organizzazione politica. Gerbaudo evoca, invece, le tesi dei filosofi conservatori della politica (Robert Michels, Vilfredo Pareto) per sottolineare il fatto che il modello del partito di massa e operaio era funzionale più che al cambiamento dei rapporti sociali allo sviluppo di un potere oligarchico nella società. L’unico riferimento al marxismo eterodosso è, infatti, quello riservato a Antonio Gramsci, laddove il dirigente comunista italiano sottolineava i rischi di sclerosi burocratica del partito di massa dovuta proprio alla crescita senza controllo della burocrazia di partito preposta alla mediazione tra i militanti e la leadership.
La critica di Gerbaudo alla burocrazia di partito è indubbiamente debitrice nei confronti delle tesi dell’antropologo libertario David Graeber contro la burocrazia, responsabile del «deficit democratico» che caratterizza la democrazia rappresentativa. Gerbaudo si dilunga quindi sull’evoluzione del partito di massa attraverso il partito televisivo e l’attuale partito digitale, forme politiche che hanno provato a rimuovere o ridimensionare il ruolo della burocrazia nel limitare lo sviluppo di meccanismi «realmente democratici» per quanto riguarda il meccanismo decisionale.
Il digital party non sarebbe dunque altro che l’adattamento delle piattaforme digitali e dei modelli organizzati di Google, Facebook, Twitter a una dimensione politica. Cogliendo inoltre l’omologia tra precarietà e riduzione del numero dei funzionari, ormai un gruppo di lavoratori part time o free lancers, Gerbaudo invita a considerare le sperimentazione di democrazia radicale portata avanti da forze politiche come Podemos, France Insoumise di Melanchon e il gruppo raccolto attorno al laburista Jeremy Corbin e, soprattutto, al movimento cinque stelle.

LA PARTE PIÙ INTERESSANTE del volume di Gerbaudo non sta tuttavia negli elogi, spesso sopra le righe, rispetto il supposto superamento del deficit democratico da parte dei gruppi politici citati, bensì nel fatto che tali sperimentazioni – più che essere espressione di una democrazia diretta – sono tentativi di trovare una soluzione alla crisi della democrazia rappresentativa. I populismi digitali elencati da Gerbaudo più che rompere il monopolio della decisione politica danno forma a una «democrazia agonistica», che come scrive Chantal Mouffe coniuga il concetto di rappresentanza e la possibilità di modificare in tempo reale i meccanismi di decisione politica delle istituzioni rappresentative. Il partito digitale, dunque, più che costituire una alternativa alla democrazia rappresentativa altro non è che l’ultima incarnazione di quei tentativi oligarchici analizzati da Michels che stavano dietro alla trasformazione dell’organizzazione politica del movimento operaio in appendice allo stato-nazione.

ANCHE QUI, come nella globalizzazione, emerge l’opacità del conflitto che oppone i teorici della democrazia diretta edi quella rappresentativa, dove il primo polo altro non è che una versione mimetica del potere statale. Manca cioè ogni possibile idea di controproposte, di autonomia, di superamento delle dipendenza dal pensiero dominante. Il partito digitale, come lo stato- nazione, è parte integrante delle forme di potere contemporanee. Per rompere tale meccanismo manca ancora quel movimento auspicato proprio da Lenin che voleva ribaltare in senso radicale e antagonista le forme produttive dominanti nel capitalismo contemporaneo.

SCHEDA, I LIBRI

1) La cloud mimetica del partito

Paolo Gerbaudo è un «cervello in circolazione» che ha trovato radici in Inghilterra ( Kings College di Londra), dove hanno preso forma le sue ricerche sui movimenti sociali. Nel 2012 esce Tweets and the Streets (Pluto press) sugli indignados, Occupy Wall Street e le primavere arabe seguito da The Mask and the Flag (Hurst&Company). The Digital Party (Pluto press) è’epilogo dei precedenti saggi. L’autore si misura con le organizzazioni politiche che nascono come espressione dei movimenti sociali. Passa in rassegna forze politiche entrate nella stanza dei bottoni (i 5stelle), che intrattengono relazioni di non ostilità con partiti al potere (Podemos) o sono in attesa di elezioni dove i sondaggi le danno per vincenti. Per Gerbaudo il «partito digitale» è una evoluzione di quello televisivo, con il quale condivide la produzione di opinione pubblica attraverso la riduzione della comunicazione ad aggregato ragionato di informazioni. Il digital party non è l’ultima versione del partito politico, bensì solo una tappa di un fenomeno che continuerà a macinare sperimentazioni delle quali il movimento sociale ne è solo un povero simulacro.

2) Globalizzazione e identità multiple

Colin Crouch è ritenuto il miglior teorico socialdemocratico europeo. E lo studioso più avvertito riguardo la necessità che la sinistra debba innovare il suo bagaglio teorico. È l’intellettuale che ha indicato la cosiddetta «postdemocrazia» come il rovello su cui applicare l’intelligenza collettiva dato che è un regime politico che non vede lo spostamento della decisione politica dai parlamenti nei circoli di élite che sfuggono a qualsiasi forma di controllo popolare. Per Crouch non c’è nessuna sospensione di elezioni, i diritti civili e sociali: semmai questi elementi sono subalterni ai vincoli e compatibilità definite dalle élite globali al riparo dai media e dell’opinione pubblica. In questo volume sulle Identità Perdute (pp. 130, Laterza, euro 15), Crouch assume la provocazione di Zygmunt Bauman sulle identità liquide come una chance per immaginare un mondo dove l’identità smette di essere una camicia di forza per assumere le vesti di una pluralità e eterogeneità di appartenenze e relazioni sociali.

3) L’ospite inatteso, tra luci e zone d’ombra

Dani Rodrik è una delle figure di economista che, dopo una formazione mainstream, ha cominciato a esercitare una critica verso la globalizzazione neoliberista. Di origine turca, formatosi con Albert O. Hirschman, docente ad Harvard, ha messo a fuoco la necessità di alcune istituzioni nazionali e internazionali nel dare regole allo sviluppo economico. Convinto che il capitalismo manifesta una vocazionale globale, ha messo l’accento sul ruolo progressivo svolto dallo stato-nazionale tanto nel sviluppo economico che nella globalizzazione. Solo quando quest’ultima prende congedo dall’urgenza di un suo governo politico entra in quella fase che Rodrik chiama di «iperglobalizzazione» (limitata nel tempo). Sostenitore della pluralità delle forme di capitalismo ha visto nello sviluppo cinese e indiano uno degli esempi di modello capitalista che fonda le sue radici nella dimensione nazionale e nel ruolo propulsore dello stato. Da qui il titolo del suo libro più noto (Il paradosso della globalizzazione, Laterza), dove analizza proprio la vocazione globale dell’economia e le sue radici statali e nazionali. In Dirla tutta sul mercato mondiale (Einaudi, pp. 312, euro 19) riprende molti dei temi dei suoi precedenti saggi unendoli a una dettagliata cronaca degli ultimi decenni di globalizzazione, spaziando dall’Europa (e i conflitti attorno all’austerità, manifestando critiche ai comportamento dell’Unione europea nei confronti della Grecia) alla Cina, alla Turchia, all’India. Ne esce fuori un affresco dove le zone d’ombra prevalgono sulle luci di un periodo storico basato sulla cancellazione dei diritto sociali di cittadinanza e del lavoro.