di CARLO CUCCOMARINO (novembre 2013)
Le premesse di una conciliazione al ribasso
I call center hanno rappresentato in anni recenti un bacino di reclutamento lavorativo di notevole rilevanza soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, dove l’approfondimento della crisi – con le sue devastanti conseguenze sociali – ha prodotto una fuga delle attività produttive che a sua volta ha alimentato un flusso imponente di giovani diplomati e laureati verso le aree del paese ed europee che hanno tenuto meglio, si fa per dire, al suo incedere.
Il settore dei call center ha una vita breve rispetto ad altri settori, nasce di fatti negli anni ’90 ed ha avuto sicuramente un’esistenza molto tumultuosa. Un settore mobile, flessibile, dove i profitti non sono mancati per nessuna delle piccole, medie e grandi aziende; queste ultime peraltro continuano a macinare profitti ancora oggi, in anni difficili di recessione economica.
Nel settore, in continua espansione fino al 2007, dal 2008 molte cose sono iniziate a cambiare.
Nel corso del 2007 sono stati stabilizzati 24.000 operatori (dati Cgil) sui 300.000 che erano allora occupati nel settore. Gran parte degli stabilizzati ha avuto il “tempo indeterminato” (l’86%), ma spesso in cambio di orari di lavoro molto flessibili e della riduzione di salario. Sono stati questi gli effetti della “Circolare Damiano” del 2006, che ha visto aumentare quote di lavoro indipendente a tempo indeterminato. C’è da dire che in Italia questa rimane una delle operazioni di stabilizzazione più possente che sia stata fatta. Negli anni successivi, invece, c’è stato uno scivolamento da contratti stabili a precari. In ogni caso c’è da aggiungere, come afferma Andrea Fumagalli, che la stabilizzazione è stata pagata dagli stessi lavoratori. La maggior parte ha infatti ottenuto orari part time di sole 20 ore a settimana, che corrispondono a un salario inferiore ai 600 euro mensili. A fronte di ciò i lavoratori hanno dovuto firmare “conciliazioni” (come previsto dalla Finanziaria 2007) in cui hanno rinunciato a fare causa per i salari pregressi. Dei 24.000 stabilizzati, oltre 20.000 sono stati assunti con il contratto delle telecomunicazioni e altri 4.000 con quello dei metalmeccanici o del commercio. L’86% è stato assunto da subito a tempo indeterminato; il 3,8% con contratto a termine di cui è prevista la trasformazione a tempo indeterminato dopo 24 mesi; il 7,7% con il contratto da apprendistato o d’inserimento per cui è prevista la trasformazione in tempo indeterminato dopo 2 mesi. La stabilizzazione è avvenuta più nel Sud (49,7%) che nel Centro (33,5%) o nel Nord (16,8%) del paese. Molte aziende che operano nel Nord esternalizzano nel Sud soprattutto la funzione outbound; la “circolare Damiano” era essenzialmente rivolta a lavoratori inbound, quelli che ricevono le telefonate dal cliente e quindi non sviluppano una attività lavorativa del tutto autonoma e indipendente, che è quella invece di chi telefona a casa per procacciarsi un cliente. Quest’ultima, la prestazione outbound, può godere generalmente di più autonomia. La stabilizzazione dei call center è avvenuta dunque nel 2007 e si è arrestata di fatto nel 2008 perché è stata resa possibile con i soldi stanziati dalla Finanziaria 2007; poi, nel 2008, c’è stato il cambio del governo e i soldi per favorire i processi di stabilizzazione non sono stati più finanziati.
I gruppi più grossi hanno stabilizzato da soli un terzo dei lavoratori, ma hanno orientato il mercato sul part time a basso quantitativo di ore: il 53% degli operatori hanno avuto un contratto con meno di 20 ore di lavoro; il 20,2% tra le 20 e le 30 ore; il 21,5% tra le 30 e le 36 ore. Solo il 5,3% ha avuto un full time di 40 ore settimanali!
Questo, naturalmente, ha comportato un processo di incremento della flessibilità oraria che è stata il modo con cui le aziende hanno reagito agli incrementi del costo del lavoro conseguenti alla stabilizzazione. Gli stipendi sono stati pagati il primo anno e poi sono stati spalmati e compensati da un processo di ulteriore segmentazione e frammentazione produttiva, frammentazione resa possibile dal venir meno dell’orario pieno.
Alcune motivi dello sviluppo meridionale dei call center
Dicevamo che uno degli aspetti peculiari dello sviluppo dei call center è stato la dislocazione nel Sud del paese, un’area poco sviluppata ma che dispone tuttavia di forza lavoro istruita e di condizioni favorevoli dal punto di vista salariale e infrastrutturale. In una regione come la Sicilia, caratterizzata da un’endemica carenza di lavoro la crescita repentina dei call center tra la fine degli anni ’90 e i primi anni del nuovo secolo ha rappresentato senza dubbio una grande opportunità di impiego per migliaia di donne e giovani privi di prospettive di inserimento nel mercato del lavoro. Tale crescita, da un lato, è stata accompagnata dai rischi di sostenibilità, nel lungo periodo, di un settore caratterizzato da una competizione esasperata sul costo del lavoro e quindi particolarmente sensibile alle sirene della delocalizzazione; dall’altro lato, ha significato l’ampliamento dell’area di lavori instabili, mal pagati e dequalificati. Nel nostro paese i call center sono stati individuati come il regno della precarietà, dei contratti di lavoro atipici, di retribuzioni basse e incerte, di orario di lavoro disagiati: in breve, degli effetti perversi della flessibilità che caratterizza il mercato del lavoro contemporaneo. Si tratta di un tema che assume ancor più importanza in una regione come la Sicilia, tanto per le dimensioni, quanto per il significato assunto dal lavoro flessibile per la forza lavoro, soprattutto per quella giovanile. I call center, dunque, continuano a rappresentare in Sicilia un ambito occupazionale rilevante, il cui contributo ai redditi di migliaia di famiglie non può essere sottovalutato, soprattutto in questa fase storica particolarmente critica. Le aziende sfruttano alcune competenze di base associate all’acquisizione di un titolo di studio di scuola media superiore (linguistiche, informatiche) ed alcune abilità relazionali e comunicative (per attività di comunicazione con i clienti) che richiedono una formazione snella e prevalentemente on the job che non implica investimenti sulla forza lavoro.
La flessibilità oraria e contrattuale ha incontrato una disponibilità di forza lavoro non particolarmente interessata a un inserimento lavorativo standard nel settore, sia per ragioni di conciliazione con altri ambiti di vita (studio, famiglia), sia perché proiettate verso carriere lavorative alternative.
Uno dei principali fattori di differenziazione delle strategie aziendali di reclutamento e gestione delle risorse umane è rappresentato dal contesto territoriale che condiziona chance e aspettative della forza lavoro, inducendo aggiustamenti nelle politiche aziendali.
La nostra attenzione sulle lotte di ottobre a Palermo, dunque, va assunta come emblematica del ruolo che i call center svolgono in Sicilia, poiché per dimensioni, assetto socio-economico e modello di sviluppo, la città presenta un profilo simile a quello delle concentrazioni urbane della Regione in cui si sono sviluppati i call center e il confronto con i profili socio biografici e contrattuali degli addetti che operano in altre regioni permettono di farci cogliere somiglianze e differenze.
Le ragioni della lotta degli operatori Almaviva a Palermo
La lotta dei lavoratori Almaviva di Palermo scaturisce dopo l’applicazione in loco di un contratto nazionale che riguardava 40.000 lavoratori a progetto a livello nazionale. L’accordo bidone siglato lo scorso agosto dai confederali delle telecomunicazioni non poteva che creare una rivolta tra i lavoratori, ciò l’avevamo di fatti intravisto e portato all’attenzione subito dopo avere letto i contenuti del contratto.
A Palermo, nei call center Almaviva, gruppo della famiglia Tripi, lavorano 1000 cocopro, a fronte di 400 dipendenti. Almaviva è la maggiore azienda di call center in Italia, opera per committenti come Sky, Wind, Enel, Vodafone, Mediaset, tanto per fare alcuni nomi e, nel settore pubblico, con diversi ministeri e istituti come l’Istat. Almaviva occupa 27.000 persone e ha sedi in Brasile, Cina e Tunisi. Quanto guadagnano questi operatori?
A Palermo alcuni di loro ci dicono che si lavora a “contatto utile”. L’outbound, cioè l’operatore che chiama i clienti a casa per conto dei committenti, per ogni risposta ricevuta – anche se poi riattacca – guadagna 20 centesimi. Se però la telefonata va a buon fine, ovvero se il cliente accetta di siglare il contratto proposto, allora il compenso sale decisamente, fino a 8,30 euro. Con questo meccanismo, lavorando anche 10 ore al giorno si guadagnano in media 600 euro mensili, che possono arrivare a 1000-1200 per i venditori più dotati. Senza tutte le tutele e i contributi da dipendenti.
Andiamo ai fatti. Il primo agosto scorso Slc-Cgil, Fistel-Cisl e Uilcom firmano un accordo con Asstel (Associazione dei call center in outsourcing), che tra le tante “delizie” in esso contenute, prevede quella di imporre una “conciliazione su tutto il pregresso agli operatori” che vogliono continuare, dopo anni di precariato, a lavorare per la stessa azienda.
Come abbiamo già detto il fatto di “imporre conciliazioni” fu inaugurato con la Finanziaria del 2007, e in quest’ultimo contratto si alza il tiro. Anche qui ritroviamo che si deve rinunciare al “diritto di fare causa” nel caso in cui, ad esempio, si sia prestato un “falso lavoro autonomo” (ovvero un “lavoro dipendente” a pieno titolo): Almaviva ha chiesto dunque ai propri operatori, come da contratto nazionale, di siglare un “colpo di spugna tombale”!
Insomma, dopo anni di lavoro a progetto e di precariato selvaggio agli operatori Almaviva di Palermo viene chiesto di rinunciare ad ogni diritto acquisito, tra i quali: ferie, festività e malattia; e dichiarare, inoltre, condizioni lavorative non vere!! Rinunciare ad ogni diritto, affermare di non avere mai visto un team leader, di non dover rispettare fasce orarie o turni; di non dover segnalare pause per andare in bagno e per un bicchiere d’acqua. Almaviva ha chiesto ai propri operatori di affermare di essere stati liberi e quindi non equiparabili a lavoratori subordinati. Tutto ciò per avere un altro contratto atipico, di uno o tre mesi, e sempre nella modalità a progetto. Almaviva, inoltre, spiega che questa “conciliazione tombale” è l’unico modo per accedere alle “liste di prelazione” per i futuri contratti.
Va da sé che in ballo non c’è solo una questione che riguarda i lavoratori a progetto siciliani di Almaviva ma tutti i 40.000 operatori outbound presenti nel nostro paese. A Palermo da questo punto di vista si compie una importante prova generale! Almaviva si fa forte di un Contratto Nazionale che gli ha aperto una sconfinata prateria ad esclusivo suo vantaggio e inizia dal capoluogo siciliano a sferrare un mortale attacco ai tentativi di resistenza che durante il mese di ottobre si sono determinati nei call center palermitani.
Mobilitarsi autonomamente, come è stato fatto a Palermo, rimane l’unico modo possibile per i lavoratori a progetto di contrapporsi all’attuale conflitto aperto da Almaviva, che indica perfettamente l’idea che, dopo quell’accordo, si sono fatti nei loro confronti i vari gruppi padronali. Questo “atto di conciliazione”, come abbiamo già detto, lederebbe i diritti accumulati negli anni, tra cui le quote di anzianità lavorativa e imporrebbe ai dipendenti la rinuncia a qualsiasi eventuale contenzioso, in cambio delle rassicurazioni aziendali fornite a entrare nelle liste di prelazione. Uno scambio, c’era sembrato di capire, a cui i dipendenti sin dall’inizio non intendevano sottostare. Non firmare il verbale di conciliazione, per tutti loro, aveva un significato chiaro: evitare di essere inabissati nel fondo di quella precarietà nella quale quotidianamente vivono. I lavoratori dei call center sono legati a fasce orarie, sottostanno ad ordini superiori e ad ordini di servizio, giorno dopo giorno. Tutto al contrario, dunque, di una “mansione libera e autosufficiente”! Dichiarare di non essere mai stati subordinati e di avere svolto prestazioni di lavoro a favore della società in virtù di contratti di collaborazione autonoma è una affermazione non vera che nega di fatti lo stato reale delle cose! Almaviva tratta i propri operatori da lavoratori dipendenti ma vuole che affermino che non lo sono!
Inoltre, l’entrata di diritto nel “bacino di prelazione” sta stretta ai lavoratori, in quanto non fornisce nessuna certezza in merito al loro futuro professionale. Chi ci garantisce, argomentano molti di loro, che tra un mese, dopo avere siglato l’accordo, non ci licenzieranno? In quel caso, non si può fare più nulla visto le premesse che sono contenute nel “verbale di riconciliazione”. Ai lavoratori, tutto questo era molto chiaro: non intendevano sottostare a queste prevaricazioni e i giorni di mobilitazione e di lotta stanno tutti lì a dimostrarlo.
Ma non è tutto. In un incontro fra i tanti avuti in queste intense settimane di ottobre, con l’Ispettorato del Lavoro, è stato evidenziato da parte dello stesso che firmando la conciliazione i lavoratori rischiavano di essere perseguiti penalmente. Al danno, per tutti loro , si aggiunge la beffa!
Dopo anni di silenzio i lavoratori a progetto iniziano a sottoporre all’attenzione di tutti le loro condizioni di lavoro: turni che possono arrivare fino a 10 ore consecutive, domeniche e giorni di riposo soppressi, obbligo di chiedere il permesso persino per andare al bagno o per bere un bicchiere d’acqua, pressioni da parte dei team leader per vendere il più possibile; attività tutte queste svolte sotto la minaccia di non essere confermati il giorno successivo. Episodi che accomunano la maggior parte dei call center d’Italia e che puntano i riflettori in un mondo pieno di ombre.
Almaviva, in un primo momento, decide di rinviare l’attacco e le “conseguenze della conciliazione” a data da destinarsi. Oltretutto la rivolta partita da Palermo, grazie a Facebook, è dilagata fino a Catania. Il Segretario Nidil Cgil di Catania, registrando i tentennamenti dell’azienda, affermava: “Almaviva ha allentato la presa perché deve coprire le postazioni e se l’obbligo delle conciliazioni fosse operativo, visto il gran numero dei precari che non ha dato la disponibilità a firmare non avrebbe addetti a sufficienza”.
La paura, la resa e la ricerca di nuove strade
30 ottobre, dopo settimane di sostanziale contrapposizione alla firma dell’atto di conciliazione proposto dall’Azienda, dopo avere esibito un chiaro no unanime da parte di tutti gli operatori; nel giro di una giornata, come se niente fosse successo durante tutto il mese di ottobre, tutti gli operatori ponevano il proprio nome su un documento ritenuto giorni prima una rinuncia ai propri diritti lavorativi e alla propria dignità.
Non ci hanno dato altra scelta dichiarano in molti. Il terrorismo psicologico ha avuto la meglio.
In entrambe le sedi Cosmed e Alicos di Palermo hanno praticamente accettato l’accordo continuando ad esprimere il proprio malcontento, per avere dato addio ad anni di contratti, proroghe e rinnovi, e per il criterio fissato per stilare la graduatoria ai fini dell’attribuzione del diritto di precedenza. Solo una ventina di operatori hanno deciso di non accettare la conciliazione e annunciare che proseguiranno la lotta con azioni di opposizione per altre vie.
Per questi ultimi il diritto di intentare causa alla società, di non dichiarare il falso, ovvero di non essere mai stati soggetti a turni, orari fissi e gerarchie non possono essere subiti, pena la sconfitta. Ribellarsi a tutto ciò ha significato, per la stragrande maggioranza degli operatori, la paura di non essere confermati il mese successivo. Di questo ne sono consapevoli questo esiguo numero di lavoratori che hanno comunque deciso di continuare la lotta in altri modi. Sappiamo bene che quest’ultimo atteggiamento per essere vincente ha bisogno di sconfiggere la paura, quella stessa che l’azienda regolarmente diffonde sistematicamente sull’operato dei lavoratori e diffonde a dosi massicce quando i tentativi messi in atto in queste settimane dalle lotte minaccia il rapporto di forza in campo. Sappiamo che non è facile, ma ricompattare la resistenza contro questi tentativi di dominio e controllo messi in atto da Almaviva è la cosa da provare a fare senza l’angoscia di iniziare da capo. I meccanismi di assoggettamento messi in opera a Palermo, luogo dove l’attacco padronale sulla precarietà ha avuto inizio in questo autunno, hanno avuto la meglio sui 1000 operatori. Bisogna comunque dire che per la prima volta nella storia e nelle lotte recenti di un call center il fatto di essere costantemente ricattati non è stato da tutti semplicemente interiorizzato, ma è stato vissuto come reale impedimento all’azione, alla costruzione dei propri interessi materiali e non solo. Le palesi contraddizioni che emergono ci consentono di capire i problemi che impediscono lo sviluppo dei processi di soggettivazione tra gli operatori. Dopo questa sconfitta di Palermo i lavoratori a progetto continuano rimanere Lap. Non c’era, questa volta, come 5 anni fa, nessuna stabilizzazione in ballo, il contratto ha confermato l’aumento della precarietà e la progressiva perdita di valore economico del lavoro contemporaneo. Questo risultato, il suo esito negativo, non cancella il fatto che una mobilitazione così lunga nei call center meridionali non si era mai avuta. I pareri e i giudizi unanimi espressi con forza, a voce alta, in questo ultimo mese, non lasciavano presagire un esito di questo tipo