Alcune ipotesi per un’inchiesta permanente sul (sotto)sviluppo economico meridionale.
di STEFANO LUCARELLI (in Sudcomune. Biopolitica Inchiesta Soggettivazioni, n. 1-2, 2016 (Ed. Deriveapprodi)
PARTE PRIMA
0. Cosa significa sottosviluppo del Mezzogiorno italiano? E cosa significa sviluppo del Mezzogiorno italiano? Che tipo di evoluzione sociale ha interessato e sta interessando le classi subalterne nel nostro Sud? La composizione delle classi sociali nel meridione d’Italia dipende in qualche modo dalle politiche pubbliche che interessano lo stesso meridione? Qual è la dimensione politica retrostante all’andamento delle principali variabili di finanza pubblica nel Mezzogiorno? In particolare come può essere letta la dinamica del debito pubblico riferibile alle Regioni meridionali? È possibile un’analisi delle entrate e delle spese pubbliche del Sud Italia che si esaurisca nella dicotomia efficienza/inefficienza?
Sono queste alcune delle domande su cui cercherò di riflettere nei contributi che scriverò per la rivista Sud Comune. Non sono temi facili, ma sono temi urgenti, che rischiano di non essere percepiti come tali: è obiettivamente difficile ragionare di questione meridionale – qualunque cosa possa significare oggi questa espressione – vivendo come me nel Nord Italia. D’altra parte, i territori meridiani non possono dirsi confinati nel Sud Italia. Vi è un’altra difficoltà: nella mia esperienza professionale di economista sono stato costantemente dis-abituato a ragionare sulla questione meridionale. Sono sempre più rari gli studi di economia politica dedicati al Mezzogiorno su cui poter costruire una vera riflessione critica. Sono invece sempre più numerose le analisi che Marx avrebbe definito volgari.
1. Non sarà allora inutile, all’inizio di questo invito all’inchiesta, richiamare la distinzione marxiana fra economia politica (che Marx talora definisce classica, riferendosi soprattutto a Smith e Ricardo) ed economia volgare:
«L’economia classica cerca di ricondurre analiticamente le differenti forme rigide e reciprocamente estranee della ricchezza alla loro intima unità e di spogliarle della figura di indifferente giustapposizione; [essa] vuol comprendere il nesso interiore a differenza della molteplicità delle forme di manifestazione. (…) L’economia classica si contraddice occasionalmente in quest’analisi; cerca spesso di intraprendere la riduzione e di dimostrare immediatamente l’identità della sorgente delle differenti forme, senza gli anelli intermedi. Ma questo deriva necessariamente dal suo metodo analitico col quale devono cominciare la critica e la comprensione. (…) L’economia classica ha infine il difetto di concepire la forma fondamentale del capitale, la produzione rivolta all’appropriazione di lavoro altrui, non come forma storica, ma come forma naturale della produzione sociale, concezione alla cui eliminazione essa apre tuttavia la strada con la sua stessa analisi.
Ben diversamente stanno le cose per l’economia volgare la quale intanto si fa largo solo quando l’economia stessa con la sua analisi ha già dissolto e reso vacillanti i propri presupposti, e quindi l’opposizione all’economia esistente già in forma più o meno economica, utopistica, critica e rivoluzionaria. Infatti lo sviluppo dell’economia politica e dell’opposizione da essa stessa creata va di pari passo con lo sviluppo reale degli antagonismi sociali e delle lotte di classe presenti nella produzione capitalistica. (…) Nella stessa misura in cui l’economia penetra in profondità, essa non solo rappresenta delle antitesi, ma la sua antitesi le si contrappone come tale, contemporaneamente allo sviluppo delle antitesi reali nella vita economica della società. Nella stessa misura l’economia volgare diventa consapevolmente più apologetica e cerca di eliminare a forza di chiacchiere i pensieri e, in essi, le antitesi. (…)
L’ultima forma è la forma professorale, che procede ‘storicamente’ e, con saggia moderazione, raccoglie qua e là il ‘meglio’, senza badare a contraddizioni, bensì alla completezza. Toglie lo spirito vitale a tutti i sistemi, da cui elimina rigorosamente il mordente, cosicché si ritrovano pacificamente riuniti nella compilazione. Il calore dell’apologetica è temperato qui dall’erudizione che osserva con benevola superiorità le esagerazioni dei pensatori economici e le tollera solo come curiosità che galleggiano nella sua mediocre poltiglia. Poiché lavori di questo genere appaiono solo quando si chiude il cerchio dell’economia politica come scienza, sono nello stesso tempo le tombe di questa scienza (1)»
2. Non è possibile organizzare un’inchiesta sulle condizioni delle classi subalterne meridionali, fermandosi all’economia volgare, né alle esigenze momentanee della discussione politica. Non lo si può fare soprattutto se sono in gioco le mille sfaccettature di un problema strutturale. La questione meridionale è raramente approfondita ed indagata: troppo spesso sembra ormai chiara di per sé, sclerotizzata nelle menti dei decisori politici. Si accetta l’idea volgare che i problemi meridionali siano sintetizzabili efficacemente dallo stato di conti delle pubbliche amministrazioni e che questi siano spiegabili perché sperpero, clientelismo ed inefficienza sarebbero le condizioni strutturali in cui le politiche pubbliche meridionali si perpetuano. Si diffonde la convinzione, terribile ma consolatoria, che dal meridione d’Italia si fugge proprio perché le istituzioni formali ed informali che lì sorgono determinino un’autoselezione. Le Regioni meridionali sarebbero la prova provata dei fallimenti delle istituzioni pubbliche, di un’industrializzazione mal gestita, di programmi di welfare che si risolvono nel peggiore assistenzialismo. Il dilagare della corruzione e della criminalità organizzata avrebbero pertanto trovato terreno fertile proprio in questo stadio demagogico in cui consiste la struttura socio-economica meridionale, fino a divenire fattori culturali. Ciò che permane è il luogo comune, anche se spesso assume una forma professorale.
3. La buona economia politica applicata all’analisi del Mezzogiorno esiste ancora. Ve ne è una parziale traccia in alcuni passaggi dei rapporti SVIMEZ, e negli interventi di qualche studioso isolato. Per esempio Cosimo Perrotta ha recentemente sottolineato come “la mancanza di una visione complessiva” dei problemi del Mezzogiorno impedisca “spiegazioni e interventi adeguati al degrado del Sud di oggi” (2). Egli propone pertanto un’analisi di lungo periodo, non affetta da riduzionismo, vizio tipico degli economisti, mostrando l’inconsistenza dello slogan più ripetuto – “più mercato, meno stato” – a rimedio dei problemi del Sud Italia. Lo slogan “non distingue tra stato regolatore, che è necessario, e stato imprenditore, spesso inefficiente. Esso non tiene conto che il mercato senza regole (la famosa deregulation) tende ad auto-negarsi, perché distrugge la concorrenza e fa prevalere, non i comportamenti più produttivi, ma quelli tendenzialmente parassitari o illegali. Questo approccio superficiale fa sì che l’assistenzialismo non venga seriamente intaccato, e continui a prosperare, mentre la concorrenza e il merito vengono ancora mortificati. Si sa che le crisi economiche e morali colpiscono le aree deboli in modo più duro. Tutte le conseguenze negative della crisi si ritrovano ingigantite nel Mezzogiorno: ristagno, delocalizzazione, fuga dei capitali, disoccupazione, povertà, corruzione. Se altrove c’è la crisi, nel Mezzogiorno è arrivato il degrado. Se altrove domina la finanza selvaggia, nel Sud domina la criminalità organizzata” (3).
Vale la pena sottolineare due aspetti dell’analisi appena esposta su cui torneremo: l’arretratezza del Sud – la sua debolezza – è qui assunta come evidente. Ne consegue anche che la criminalità organizzata può essere posta in antitesi alla finanziarizzazione. Essa è ricondotta dunque a condizione istituzionale compatibile con realtà socio-economiche arretrate. Come se l’arretratezza fosse in qualche modo indipendente dalla finanza selvaggia.
Perrotta individua, nella storia, tre fattori durevoli dell’arretratezza del Sud:
i) le nuove forme di rendita che hanno nel tempo sostituito le rendite fondiarie e politiche dei grandi proprietari terrieri; quelle che derivano dalla gestione clientelare e nepotistica dei fondi pubblici; dagli appalti pilotati alle nomine dei dirigenti pubblici, dagli enti controllati alle consulenze; le rendite fondiarie legate alla speculazione edilizia; le protezioni corporative delle categorie professionali; i privilegi del ceto politico, dei dirigenti della pubblica amministrazione, dei capi-clientela; la speculazione bancaria e finanziaria; l’evasione fiscale “protetta”; le “rendite dei poveri”, quelle dei falsi invalidi o falsi braccianti, dell’evasione fiscale diffusa degli artigiani, della difesa ad oltranza delle categorie popolari protette a scapito di chi resta fuori;
ii) il doppio codice, dell’omaggio formale alle regole pubbliche, e del loro disprezzo nei comportamenti reali, che disgrega il capitale sociale;
iii) la dipendenza che si manifesta nella fuga dei capitali, nel lavoro sommerso per le ditte del Nord, nell’assorbimento legale dei veleni degli insediamenti industriali funzionali all’industria settentrionale.
Le soluzioni proposte da Perrotta coincidono in parte con le indicazioni presenti nel Rapporto SVIMEZ 2014 sull’Economia del Mezzogiorno (si può scaricare una sintesi del rapporto al seguente link, http://www.svimez.info/images/RAPPORTO/materiali2014/2014_10_28_sintesi.pdf si vedano in particolare le pp. 19-22):
ciò che serve al Sud è nient’altro che quello che serve a tutto il paese: un quadro certo di garanzie; un’amministrazione pubblica efficiente e il controllo di produttività del lavoro pubblico; una giustizia che funzioni in tempi ragionevoli; lotta senza quartiere alla criminalità organizzata e alla corruzione; politiche per estinguere l’evasione fiscale; lotta alle rendite; grandi progetti di sviluppo e occupazione, incoraggiati dallo stato ma che passino per il mercato” (4).
4. È senza dubbio ragionevole segnalare – come fa Perrotta – che non ha molto senso parlare di una politica economica specifica per il Meridione, trattando questa realtà come il grande malato dell’italico suolo. Ancor più ragionevole è sottolineare l’inutilità delle politiche di austerity in un contesto di profonda recessione. Il Rapporto SVIMEZ è molto incisivo in tal senso:
«Gli effetti della crisi si sono fatti sentire anche al Centro-Nord, e non certo per colpa del Sud; ma anche l’area più forte del Paese rischia di non uscire dalla crisi finché non si risolve il problema del Mezzogiorno, in quanto una domanda meridionale così depressa ha inevitabili effetti negativi sull’economia delle regioni centrali e settentrionali. (…) dopo il fallimento delle politiche di austerità che hanno contribuito all’aumento delle disparità tra aree forti e deboli dell’Ue, è giunto il momento di mettere in campo una strategia di sviluppo nazionale che ponga al centro il Mezzogiorno, e sia capace di coniugare un’azione strutturale di medio-lungo periodo fondata su alcuni ben individuati drivers di sviluppo tra loro strettamente connessi con un piano di “primo intervento” da avviare con urgenza: rigenerazione urbana, rilancio delle aree interne, creazione di una rete logistica in un’ottica mediterranea, valorizzazione del patrimonio culturale» (5).
Tuttavia la messa in campo di un nuovo modello di sviluppo comporta la comprensione delle traiettorie di sviluppo che hanno caratterizzato quell’area. Ciò sembra mancare – o quanto meno resta inespresso – nel Rapporto SVIMEZ. Questo ha soprattutto il merito di porre l’attenzione sulla rigenerazione urbana e l’industria culturale come fattori di sviluppo; di grande interesse è anche la presa di posizione sulla centralità del Mezzogiorno, senza che essa sia giustificata a partire dall’arretratezza economica del Sud. Le politiche per la città (recupero e bonifica di aree dismesse o sottoutilizzate, generare di innovazione sociale con la partecipazione attiva delle giovani generazioni, stimolare la nascita di nuove imprese per la gestione di aree verdi e urbane riqualificate) e per le aree interne (rigenerazione dei borghi con idonei investimenti e agevolazioni fiscali e contributive, promuovere la creazione di filiere energetiche locali strettamente integrate con il processo di riqualificazione, sostenere una strategia di sviluppo della green economy che unisca il mantenimento degli ecosistemi fluviali, la valorizzazione turistica dei territori, la produzione di servizi agricoli ambientali) rappresentano in effetti degli oggetti di riflessione di estremo interesse anche per chi volesse rivendicare nuove forme di cura dei beni comuni urbani; a partire da queste rivendicazioni – ma soprattutto a partire dalla concreta azione di cura esercitabile collettivamente – si potrebbe mostrare l’impossibilità di definire diritti di proprietà pubblica o privata su quei beni (si veda a tal proposito il Regolamento sull’amministrazione condivisa promosso da Labsus, http://www.labsus.org/scarica-regolamento/).
Eppure – a ben vedere – il modello di sviluppo economico cui il Rapporto SVIMEZ aspira è molto distante da un discorso fondato sui beni comuni urbani: si sottolinea infatti la necessità di stimolare la redditività delle aree urbane e delle aree interne attraverso “interventi di natura fiscale e amministrativa (zone franche, zone economiche speciali, ecc) che attraggano imprese e capitali” (ibidem, p. 21). Le tante criticità di un modello di sviluppo così configurato, dipendente in prevalenza dai capitali esteri, sono ben descritte proprio nella relazione di Perrotta:
“Nel sec. XII iniziano a insediarsi nel Sud le grandi famiglie mercantili di Venezia, Genova, Firenze, Siena e di tante altre città italiane del centro-nord; e poi anche quelle catalane, greche, ecc. Arrivarono i Mocenigo e i Morosini, i Fieschi e i Vernazza, gli Adorni e i Peruzzi, e tanti altri. Queste famiglie non si mescolarono mai con la popolazione locale, ricca o non ricca che fosse (una delle pochissime eccezioni furono i Doria di Genova). Essi monopolizzarono anche le importazioni di manufatti e l’esportazione dei prodotti agricoli dei feudatari, emarginando i mercanti locali. Monopolizzarono gli appalti produttivi e finanziari. Ed esportarono tutti i loro profitti verso le città di origine, come avvenne (ed avviene) nell’economia coloniale e neocoloniale.” (6)
5. Torniamo a questo punto ai due punti critici dell’analisi di Perrotta cui prima abbiamo accennato: l’arretratezza del Sud assunta come evidente e la criminalità ricondotta a condizione istituzionale compatibile con realtà socio-economiche arretrate. È importante innanzitutto verificare l’attualità di un’ipotesi interpretativa scomoda ma determinante:
“Il sottosviluppo non è soltanto il ‘non-ancora’ sviluppo, così come voleva l’ ‘ottimismo’ dei classici dell’economia politica che si prolunga ben addentro ai nostri giorni; ma non è neppure il prodotto dello sviluppo, secondo un modo statico, strutturalista, di leggere la fisionomia, a torto ritenuta l’ultima parola del marxismo teorico sul tema. Esso è una funzione dello sviluppo capitalistico: una sua funzione materiale e politica. Sviluppo è infatti quello del potere capitalistico sulla società nel suo insieme, del suo ‘governo’ della società – del suo stato” (7).
In che senso oggi il Mezzogiorno italiano può essere indagato come una funzione dello sviluppo capitalistico?
Il Mezzogiorno è concepibile come un insieme di variabili (il territorio meridionale, i lavoratori meridionali, i disoccupati meridionali, i lavoratori in nero meridionali, i migranti meridionali, i politici meridionali, le famiglie criminali) che rappresentano dei fattori di produzione specifici all’interno di un modello di sviluppo molto diverso rispetto a quello analizzato nel 1972 da Ferrari Bravo e Serafini. Se è probabilmente possibile ribadire che il sottosviluppo non è tanto un mancato incremento nel tempo del prodotto pro-capite, quanto una funzione di piano dietro la quale non vi è l’anarchia delle forze produttive, tuttavia non è più pensabile che la situazione meridionale italiana sia riconducibile alla sintesi statuale esercitata per mezzo degli istituti di programmazione (come invece fu nel’50 con lo schema Vanoni e soprattutto a partire dagli anni ’57-58 per tutti gli anni ’60 con i provvedimenti straordinari per l’industrializzazione del Sud) per controllare la conflittualità operaia. Il contesto macroeconomico in cui viene a definirsi la funzionalità dei fattori di produzione meridionali per un modello di sviluppo transnazionale, è caratterizzato da una resilienza delle istituzioni creditizie e finanziarie Dopo la crisi dei subprime non si è assistito al collasso dei mercati finanziari, piuttosto l’intervento pubblico richiesto soprattutto dagli investitori istituzionali ha comportato una riduzione dell’indebitamento privato e un incremento di quello pubblico. L’austerity europea è l’esito delle logiche finanziarie, infatti le politiche imposte a livello europeo sono state finalizzate soprattutto a creare liquidità a fondo perduto per il sistema finanziario, per evitare l’effetto domino di fallimenti privati. Il meridione d’Italia ha subito nel contempo delle interessanti trasformazioni in relazione alla propria specializzazione produttiva, che non si esauriscono semplicemente nella desertificazione industriale, ma che comportano un’attenta analisi dei processi di terziarizzazione che caratterizzano diverse aree meridionali. Anche la funzionalità della criminalità organizzata che trae linfa dal meridione non può essere compresa senza entrare nel merito delle catene transnazionali della produzione che al contempo si sono andate ridefinendo.
In questo contesto va analizzata la “gestione dell’arretratezza” economica del Mezzogiorno.
PARTE SECONDA
6. Sotto certi aspetti il “sud” ha sempre rappresentato un grande bacino di formazione e reclutamento di nuovi lavoratori destinati ad essere immessi all’interno del circuito di produzione capitalistico. Tuttavia per tematizzare la gestione dell’arretratezza, nell’accezione da noi proposta (il sottosviluppo inteso come funzione dello sviluppo capitalistico) occorre prestare una particolare attenzione a ciò che si cela dietro l’aggettivo nuovo. La pretesa di garantire delle linee di sviluppo economico basate su una forza-lavoro qualitativamente diversa è esattamente una delle modalità attraverso le quali il sottosviluppo entra a far parte dei fattori della produzione. In altre parole esso viene politicamente gestito come una materia prima da sfruttare per affermare un modello di crescita ben preciso.
Tra gli scritti di Manlio Rossi Doria si legge che nelle sue zone più dinamiche il meridione italiano vive
«uno sviluppo caotico, instabile, precario irrispettoso di ogni ordine e civile disciplina […] e soprattutto una vita amministrativa e politica incapace di da soluzione ai problemi di fondo di una società di sviluppo, di fare ordinatamente funzionare gli elementari servizi civili, dominata dalla innumerevole schiera dei piccoli mediatori politici, appartenenti ad ogni partito, interessati a imprimere carattere clientelare a tutti i rapporti, compresi quelli che nascono sul terreno del collocamento, della previdenza sociale, dell’azione sindacale» (8).
È del tutto evidente che gli aspetti che vengono messi in luce rappresentano alcune delle caratteristiche più presenti nella struttura politica e sociale del “sud”. D’altro canto si corre il rischio che un’analisi così lucida, ma al contempo bloccata sulle soglie del laboratorio della produzione, lasci il campo a ricette di politica economica semplicistiche e, purtroppo, molto diffuse: si elimini la burocrazia statale, si abbatta il numero degli impiegati, si riducano le funzioni del sindacato e si inseriscano degli adeguati meccanismi di incentivo per i dipendenti pubblici! Che sia la logica privatistica a guidare le procedure meritocratiche necessarie all’efficienza, così da rimuovere il problema alla radice. Proprio in tal modo l’economia politica diviene economia volgare.
7. Il nuovo riferito al laboratorio della produzione è innanzitutto fatto di soggettività che manifestano la necessità di una indipendenza economica. La formazione di questi potenziali lavoratori non avviene unicamente in strutture formali (la scuola, l’università, i corsi di formazione), ma in una grande varietà di strutture informali (l’ambito familiare e le proprie reti relazionali). Ciò che accomuna in prima istanza queste istituzioni nel “sud” è una precarietà strutturale, una diffusa consapevolezza di sfiducia nelle proprie possibilità che può divenire molto forte. Emerge qui una prima importante differenza qualitativa rispetto ad altri contesti sociali: esiste una percezione diffusa del sottosviluppo – o meglio della gestione dell’arretratezza – su cui si regge il processo di svalutazione dei saperi e delle competenze che legittima il sottosviluppo stesso. Le figure sociali con cui abbiamo a che fare partecipano dunque di stati d’animo rigorosamente isolati, ma al contempo astrattamente accomunati. Si ha la consapevolezza di valere, e si ha la consapevolezza che occorre accettare una svalutazione di se stessi per poter essere riconosciuti, accettati, inseriti in un ruolo che potrà costituire una rampa di lancio: è così per il laureato in informatica che accetta di lavorare con una partita Iva e blocca la propria crescita professionale e la propria capacità di innovare per attenersi ai diagrammi funzionali imposti dall’alto. È così per l’operatore di call center che deve seguire le direttive imposte dai software vedendo costantemente non riconosciute e mortificate le sue capacità di stabile una sorta di empatia telefonica, da cui dipende la produttività del servizio (9). È così anche per i ragazzini che entrano a far parte delle organizzazioni malavitose, che vedono le proposte dei capi clan come opportunità uniche di riscatto sociale:
«I vantaggi per i clan sono molteplici, un ragazzino prende meno della metà dello stipendio di un affiliato adulto di basso rango, raramente deve mantenere i genitori, non ha le incombenze della famiglia, non ha orari, non ha necessità di salario puntuale e soprattutto disposto a essere perennemente per strada. […] Il Sistema concede almeno l’illusione che l’impegno sia riconosciuto, che ci sia la possibilità di fare carriera. Un affiliato non verrà mai visto come un garzone, le ragazzine non penseranno mai di essere corteggiate da un fallito. Questi ragazzini […] non avevano in mente di diventare Al Capone, ma Flavio Briatore, non un pistolero, ma un uomo d’affari accompagnato da modelle: volevano diventare imprenditori di successo» (10).
Esattamente come in quest’ultimo terribile caso, l’artificiosa svalutazione delle competenze barattata con l’indipendenza economica è tutt’uno con la definizione di soggettività smarrite e schizofreniche, per dirla con le parole di Federico Chicchi, che faticano a rapportarsi all’altro, a rispettarlo a riconoscere nell’altro la possibilità di costituire una dimensione collettiva capace di ridefinire le regole del sistema. L’inserimento all’interno del processo produttivo di queste soggettività consente di incrementare la competitività al ribasso che caratterizza le condizioni lavorative non solo nella così detta “economia del sud Italia”, ma anche nei sub-sistemi economici più prossimi. Questi sub-sistemi vanno riferiti alla lunga catena transnazionale in cui è organizzata la produzione e la valorizzazione dei beni e dei servizi.
8. La gestione dell’arretratezza – o, in altri termini, il meridione come formazione sociale specifica che viene organizzata in funzione dell’accumulazione complessiva e sbilanciata territorialmente – comporta dunque un particolare imprinting che condiziona i processi comportamentali individuali e sociali; un’impronta che non impone un preciso percorso evolutivo, ma che tende a delimitare i campi di possibilità e il carattere dell’individuo (11).
L’inserimento all’interno del processo di valorizzazione di soggetti più ricattabili è funzionale ad un disciplinamento dell’intera società. Si tratta di un tentativo che, mutatis mutanda, venne posto in opera all’interno della particolare articolazione del fordismo che caratterizzò la società italiana. Ne fu protagonista una figura sociale che presenta delle differenze significative rispetto all’oggi. Sua espressione paradigmatica è un uomo senza nome che si racconta nel Vogliamo tutto di Nanni Balestrini:
«questa figura è stata definita come il “meridionale tipico, cioè il meridionale povero, compreso nella fascia d’età che va dai 18 ai 50 anni, disponibile a tutti i mestieri, senza alcun dato professionale anche quando possiede fisicamente un diploma, candidato perenne all’emigrazione, privo di occupazione stabile e frequentemente disoccupato o costretto a prestazioni assai variegate e saltuarie. Una figura che nasce politicamente in modo del tutto spontaneo: esterno ai canali organizzativi tradizionali, al partito e al sindacato. Una figura nuova che si muove da sola, spontaneamente, fuori da ogni tradizione politica precedente» (12).
Una figura dunque che è programmata per essere funzionale alla garanzia di un esercito di riserva, un tipo ideale che possa controllare e ostacolare le pretese rivendicative di figure sociali espropriate delle loro competenze; l’operaio di mestiere del Nord Italia e del Nord Europa fu dunque vittima di un tentativo di attacco apparentemente abile: depotenziare l’organizzazione operaia tradizionale attraverso la competizione al ribasso innescata dall’inserimento nel mercato del lavoro del “meridionale”. Eppure questo “piano del capitale” naufraga:
«Questa nuova figura politica di proletario è quella che ha fatto in tutta Europa, emigrando dall’Italia del sud, lo sviluppo capitalistico […], dalla Fiat alla Volkswagen alla Renault, dalle miniere del Belgio alla Ruhr. Che ha fatto le grandi lotte operaie degli ultimi anni [Balestrini si riferisce al ciclo di lotte successive al 1969]. Che ha sfasciato tutto, che ha messo in crisi l’Italia. Che determina oggi [1971] la disperata risposta del capitale, sia al livello di fabbrica che al livello istituzionale».
Le lotte alle quali si riferisce Nanni Balestrini nacquero dentro lo sviluppo quando si spezza il dominio del capitale sul proletario del sud, «lo sradicato, il disoccupato, il mezzadro espulso, il bracciante senza prospettive, il contadino assegnatario, il diplomato senza lavoro». Le soggettività che oggi troviamo nel meridione non sono per lo più composte da sradicati o da figure contadine senza prospettive. Probabilmente l’elemento centrale che andrebbe meglio indagato nelle possibili tracce di inchiesta sulla gestione dell’arretratezza è costituito proprio dalla rilevanza delle “prospettive”.
9. Esiste una rappresentazione delle prospettive che viene in qualche modo fissata dagli organi ufficiali di informazione e di indagine. L’ultimo Rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno, offre una fotografia ben precisa. Vi si legge che la lunghezza della recessione ha comportato la riduzione degli investimenti dunque della capacità industriale meridionale. La riduzione delle risorse per infrastrutture pubbliche produttive e la caduta della domanda interna hanno contribuito a indebolire anche le imprese sane e tuttavia non attrezzate a superare una crisi cosi lunga e impegnativa. Correttamente si sottolinea il “tracollo” dell’occupazione meridionale: tra il 2008 ed il 2014 l’occupazione diminuisce del 9%; delle circa 811 mila unità perse in Italia, ben 576 mila sono nel Mezzogiorno. In particolare la diminuzione della spesa pubblica spiega il crollo della domanda effettiva che investe le regioni del sud e che si riflette anche sull’occupazione nella pubblica amministrazione:
«se si considera il complesso dei settori delle amministrazioni pubbliche, dell’istruzione e della sanità, il Mezzogiorno perde, nel periodo 2008-2014, 147 mila unità pari al -9% mentre al Centro-Nord gli occupati in questi settori aumentano di 82 mila unità, pari al +2,7%» (13).
Nel 2014, l’occupazione al Sud è pari a 5,8 milioni di occupati, il punto più basso dal 1977, l’anno da cui partono le serie storiche ricostruite dall’ISTAT. Sono di grande interesse alcuni passaggi del Rapporto Svimez che appaiono particolarmente attenti alla necessità di articolare la relazione che intercorre fra politiche del lavoro e politiche di sostegno al reddito:
«le politiche passive rinnovano e rendono più generoso il modello “lavoristico” basato sulle grandi imprese ma non affrontano il problema degli alti livelli di emarginazione e di povertà delle regioni meridionali. Pertanto, accanto a una politica di sviluppo e a specifiche politiche del lavoro, anche per dare una risposta all’enorme bacino di inoccupati e disoccupati in un contesto produttivo debole e polverizzato come quello meridionale, è sempre più necessaria e urgente una misura universalistica di sostegno al reddito (v. infra 3.3.), per la cui sostenibilità nel medio-lungo periodo bisogna considerare anche il positivo e ampiamente dimostrato nesso tra maggiore equità e maggiore sviluppo» (14).
Viene pertanto segnalato che il rischio di povertà per chi vive nelle famiglie meridionali che non percepiscono pensioni è circa del 30%, si avvicina al 40% se si tratta di due genitori con figli minori e al 50% per i genitori single con minori a carico. Le analisi del Rapporto mostrano soprattutto che «non basta avere un lavoro per uscire dal rischio povertà». È significativo che sia dato spazio alle nuove proposte di sostegno al reddito, come il Reddito di Inclusione Sociale e il Reddito di Cittadinanza (nell’ultima versione proposta dal Movimento 5 stelle).
«Entrambe le misure hanno l’importante vantaggio, rispetto ad altre proposte, di concentrare la spesa sui più poveri, riducendo la dispersione delle risorse a favore di soggetti non in condizioni di bisogno. In tutt’e due i casi, inoltre, il sussidio è tanto più alto quanto più grave è la situazione di disagio della famiglia. […] Si può stimare che, se le misure fossero state introdotte nel 2013, con 4 milioni e 400 mila poveri assoluti, si sarebbe registrato il massimo livello di spesa sia per il REIS (8,4 miliardi di euro), sia per il RC (16,4 miliardi di euro). Negli anni in cui la povertà assoluta non superava i 2 milioni e mezzo di individui, l’ordine di grandezza sarebbe stato sensibilmente inferiore. Se fosse stato introdotto nel 2009, anno immediatamente successivo alla crisi, il REIS sarebbe costato circa 6 miliardi di euro, mentre il RC ne avrebbe richiesti circa 13,3» (15).
Una domanda andrebbe allora posta: in che modo una misura universalistica di sostegno al redito potrebbe incidere sulle prospettive delle soggettività smarrite su cui prima ci siamo soffermati? Questa domanda presuppone una presa di distanza dalla rappresentazione del “sud” come luogo di povertà.
10. In linea con la riflessione suggerita, può essere utile soffermarsi su altri aspetti del Rapporto Svimez: tra il 2008 e il 2014 nel mercato del lavoro, gli attivi con basso titolo di studio si sono ridotti del 33,7%. D’altro canto, in Italia è diminuita la quota di occupati in professioni che richiedono un titolo di studio medio-alto (-12,1%) ed è aumentata la quota di occupati in professioni che richiedono un titolo di studio basso (+16,7%). Il Mezzogiorno ha registrato una contrazione della domanda di professioni caratterizzate da titoli di studio elevati superiore al resto del Paese (-14,1%). Il contesto socio-economico è pertanto caratterizzato dalla crescita di soggetti istruiti e dalla riduzione della domanda di lavoro specializzato. Ecco la precarietà strutturale in cui matura il processo di svalutazione delle proprie competenze alla base – secondo la nostra ipotesi di ricerca – della gestione dell’arretratezza meridionale.
Il Rapporto Svimez sottolinea anche la necessità di costruire una buona scuola (con un corpo docente più motivato e meglio remunerato sulla base delle sfide e dei risultati) insieme ad un rafforzamento della cultura della legalità (una lotta proattiva alla corruzione ) nel Mezzogiorno. Accanto a queste indicazioni gli autori segnalano con forza il bisogno di rafforzare la politica industriale nazionale
«con una consapevolezza di fondo: nel Centro-Nord essa deve mirare principalmente a favorire un riposizionamento competitivo in linea con i cambiamenti strutturali intervenuti nella geografia degli assetti produttivi a livello mondiale. Nel Sud, invece, la politica industriale deve avere come obiettivo non solo l’adeguamento, ma soprattutto l’ispessimento dell’apparato produttivo, ancora largamente sottodimensionato.» (16).
11. Ricondurre l’introduzione di un reddito di base alla situazione di povertà – soprattutto nel caso del “sud” – può contribuire a legittimare l’idea che questa misura sia opportuna solo in contesti economici sottosviluppati. Cerchiamo di affrontare questo tema da una prospettiva diversa: altri sistemi economici come la Germania, la Francia, l’Olanda, la Danimarca, la Svezia già hanno assunto nei propri ordinamenti delle forme di reddito garantito. Sebbene queste forme di reddito di ultima istanza non presentino il carattere dell’universalità e dell’incondizionatezza sembrerebbero tuttavia accompagnarsi da una maggiore capacità di partecipazione politica, ed anche ad una maggiore capacità rivendicativa sul terreno delle condizioni di lavoro (quanto meno nel caso francese), o ancora ad una situazione istituzionale in cui le rappresentanze dei lavoratori possono condizionare le scelte produttive, esercitando – in forme criticabili quanto si vuole, ma tuttavia assenti in Italia – una certa pressione sul cosa, come e quanto produrre (ciò è soprattutto vero in Germania e nei paesi scandinavi).
In particolare nel Mezzogiorno italiano – come ha già osservato Francesco Maria Pezzulli – una misura del genere contribuirebbe a difendersi dal ricatto sociale clientelare, cioè da una delle forme di condizionamento più forte che ipoteca le prospettive di sviluppo dei singoli:
«Dal momento che si può contare su un reddito d’esistenza, seppur minimo, non sono “obbligato” a condividere le relazioni clientelari, così come sono libero di non obbedire ciecamente a quei valori […] “socialmente testati” […] per i quali l’affiliazione al network di potere è la cosa determinante per una vita dignitosa: non le conoscenze, né le competenze o l’esperienza professionale. In altri termini il reddito minimo garantito moltiplicherebbe l’indisponibilità dei giovani meridionali a far parte dell’attuale assetto di potere clientelare, il quale si troverebbe svuotato senza più sudditi ai quali concedere favori ma con cittadini liberi titolari di diritti fondamentali» (17).
Un’altra domanda fondamentale per una possibile inchiesta sulla gestione dell’arretratezza – questa forma di corruzione dello sviluppo meridionale che svolge un ruolo importante nella divisione internazionale del lavoro – potrebbe essere posta in questi termini: un reddito di base potrebbe rappresentare un dispositivo in grado di rimettere in moto la relazione dialettica fra lotte e sviluppo, dalla quale può dipendere in buona parte la qualità della politica economica delle innovazioni all’interno di un sistema economico e sociale?
NOTE
(1) Marx, K., Storia dell’economia politica. Teorie sul plusvalore III, Editori Riuniti, 1993 [1862/63],pp. 536-537).
(2) Perrotta, C., Cause remote e cause prossime dell’arretratezza meridionale, 2013, http://www.siecon.org/online/wp-content/uploads/2013/09/Perrotta.pdf
(3) Ibidem, pag. 10
(4) Perrotta, C., cit. p. 12
(5) Rapporto SVIMEZ 2014 sull’Economia del Mezzogiorno, Il Mulino, Bologna 2014. Cit. pag. 7
(6) Perrotta, C., cit. p. 4
(7) Ferrari Bravo, L. e A. Serafini, Stato e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno italiano, 2007 [1972, Feltrinelli], ombre corte, p. 29
(8) Manlio Rossi Doria, Scritti sul Mezzogiorno, Einaudi, Torino 1982, p. 6
(9) Francesco Maria Pezzulli, Corruzione del comune e lavoro cognitivo nel mezzogiorno, in sudcomune, n. 0, 2015
(10) Roberto Saviano, Gomorra, Mondadori, Milano 2006, p. 119 e p. 124
(11) sul concetto di imprinting cfr. Federico Chicchi, Emanuele Leonardi e Stefano Lucarelli, Logiche delle sfruttamento, Ombre corte, Verona 2016
(12) Nanni Balestrini, Conferenza per un romanzo, 1971, in «Appendice» a Vogliamo tutto
(13) Rapporto Svimez 2015 sull’economia del Mezzogiorno, Il Mulino, Bologna 2015, p. 14
(14) Ivi, pag. 20
(15) Ivi, pag. 23
(16) Ivi, pag. 37
(17) Francesco Maria Pezzulli, Il Reddito garantito: un’utopia concreta, «Il quotidiano della Calabria» del 19 Luglio 2011
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