Il Social Dilemma

Il potere del pensiero, il pensiero del potere 

di PINO TRIPODI E ANTONIO GENNA (in “not.neroeditions.com”, Ottobre, 2020)

Sembra, pare, che il mondo accada.

Il tempo sembra passare. Il mondo accade, gli attimi si svolgono, e tu ti fermi a guardare un lontano recinto, su un declivio collinare, nella dolcezza medievale italiana, che accade sempre. C’è una luce nitida e la domanda su cosa sia la luce, un senso di cose delineate con precisione nell’imprecisione, che è propria della percezione di cose e di fantasmi, tutta la storia della specie, strisce di lucentezza liquida sulle città turrite. In una giornata chiara e luminosa dopo un temporale, quando la più piccola delle foglie cadute è trafitta di inconsapevolezza, tu sai con minore sicurezza chi sei. Nel rumore del vento tra i faggi, la luce viene al mondo e il mondo viene alla luce, in modo reversibile, e il recinto è legno fradicio percosso dal vento.

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Per accadere, sembra che debba apparire.

È all’altezza di quel recinto che continua a dispiegarsi un discorso. Sembra che sia l’unico discorso, di cui la specie si glorii di essere autrice e, essendone autrice, padrona. La sensazione che ciò che è mio si imponga a ciò che non è mio e lo colonizzi, giustificando il possesso in un’equilibrio instabile tra il possesso e l’essere quel qualcosa: a queste latitudini continuiamo a ritrovarci. I margini si smarginano, la memoria viene meno, gli editti imperiali scadono, ma sempre rimane in attesa alla finestra chi, per vivere, aspetta che il permesso gli arrivi per messaggio dalla cittadina governativa, al cui centro alberga il re. Il re non lo si è mai visto, ma è sufficiente averne notizia, per attrarre le nostre preoccupazioni in un recinto vivibile, dove si può aumentare il grasso corporeo e il calore pulsante di una seconda pelle, di un pellame che conforti l’attesa, altrimenti disperata, di chi venga a garantirci un mondo.

Page, Brin, Zuckerberg, Bezos, Nadella, l’ineffato Ballmer, Dorsey, ma non Musk – giusto per fare un esempio di assenza che è più acuta presenza – risultano parti in commedia, attori di una tragedia imminente.

Il dilemma social e il socialdilemma

Abbiamo visto, abbiamo studiato, il documentario The social dilemma, prodotto nel 2020 da una delle più soverchianti e al contempo malcerte company del digital, votata all’entertainment finché riuscirà a votarcisi, il divertimento che Netflix modifica costantemente auscultando il mercato e condizionandolo, instradandolo verso un sentimento teen-adult della rappresentazione. Se parliamo di recinti e selvaggine, di medievalità italiane e di mandarinati, non è perché siamo disinterlacciati al mondo che si sta facendo per connessioni e digitalizzazioni, né per il fatto che siamo costretti dalla nostalgia e dal reducismo di un tempo totalmente analogico, che fu. Sappiamo bene che nessun tempo è stato analogico. Il potere del pensiero era il pensiero del potere e non aveva analogie altre che non fossero con se stesso e, forse, con il denaro, la cui storia dura almeno da quando la sopravvivenza si costituì come un problema.

Ci pare piuttosto che il mondo avveniente, ovvero la connessione nella digitalizzazione totale dell’esteriorità e dell’interiorità, si caraterizzi tuttora e domani per un’idea di selvaggina, di caccia permanente, di latifondo e di valvassori, di territorialità e confinanze, accertando il principio di regalità, il principio domestico? La caccia è alla regalità, a chi è il re?

Certamente i protagonisti della docufiction The social dilemma sembrano desumere il valore della loro testimonianza dal fatto di avere sfiorato il re, il centro più o meno occulto di un potere che sarebbe fantasmagorico, se non fosse – come queste voci insistono a rivelarci – operante con piena vertenza e deliberato consenso. Page, Brin, Zuckerberg, Bezos, Nadella, l’ineffato Ballmer, Dorsey, ma non Musk – giusto per fare un esempio di assenza che è più acuta presenza – risultano parti in commedia, attori di una tragedia imminente, ma anche appena trascorsa e attualmente in vigore. Il docudrama allerta su questa inestimabile tragedia, che coincide con la perdita totale di libertà e consapevolezza da parte di qualunque consumer, di qualunque pubblico, di qualunque spettatore protagonista del dramma in atto.

il socialdilemma di The social dilemma altro non sarebbe che una concreta e configurabile cospirazione degli eventi a noi contemporanei, con cui «il capitalismo» somministra al mondo una sua forma rinnovata, incorporea ma precipitata nei corpi di chiunque sia connesso, in nome di un controllo totalitario della realtà percettiva dell’intera specie.

Sono ben presto andati a scadenza i termini dell’epica, con cui il digitale sociale si è inaugurato, soltanto una manciata di anni fa. Più che un assassinio dell’epica, si è trattato di una dimenticanza molle e sfinita, un automatismo dell’accadimento, una distrazione che non ha dato sollievo né ha innescato lo spettacolo di piaceri della mente e della carne. Il primo inizio sfinito che abbiamo misurato nella nostra vita, del resto andata a scadenza nei suoi termini epici da sempre, se non per sempre. Non avevamo forse a disposizione reti segrete, per cospirare tra noi e contro di loro, o comunicazioni dalla bocca all’orecchio, codici su strisciole di carta e segni di un alfabeto muto, con cui abbiamo pensato di dare l’assalto al potere? Eravamo sempre, sempre in osservazione dell’imperatore, che desumevamo dai disegni orlati e dalle fumisterie plumbee dell’impero, il quale ci pareva un’evidenza. Un secolo che sfiniva, ossessionandosi intorno all’idea centrale del potere, per organizzare un contropotere più innocente e bellico, in nome di una guerra giusta, dopo la quale cercare un nuovo conflitto, un metro più in là dei confini del regno, di là dagli appezzamenti del contado, una volta che si fosse presa la cittadella della capitale. Se avessimo estinto ogni potere, chi ci avrebbe dato da giocare il gioco che avevamo appreso a giocare? Un ludopate sfiancato è una figura della storia? O ne è la controfigura? Forse in ciò, nell’essere figure o controfigure, risiedeva la natura analogica del mondo che pensavamo di esserci dati, smentendo tutti i mondi che ritenevamo ci avessero propalato. Era questo dunque il criterio, il discrimine, il principio della critica: ciò che ritenevamo avere voluto, in luogo di ciò che avevamo non avendolo desiderato. Il criterio tra ciò che era vero e ciò che era falso non era dunque né vero né falso.

Chi era il colpevole e chi lo è ora? Scaviamo come talpe cieche il terriccio fondo, in cui le ghiaie si perdono a vantaggio di una terra nera e più dura, urtando con gli apparati olfattivi contro gli scisti.

Il colpevole era il capitalismo. Anche oggi, e The social dilemma ne è una delle infinite denunce, il colpevole è il capitalismo. Il capitalismo è proteiforme, è ubiquitario: è il maggiordomo ed è il padrone della magione, ma anche della bicocca, financo del tendame dei nomadi, questi oscuri eroi dell’immaginario, che ritengono lo spazio supremo rispetto al tempo, rivendicandone l’improprietà. Ma anche nello spazio libero, nello spazio deserto sempre anche quando è popolato, c’è una tensione alla cartografia, una predilezione per l’idea di confine, che non ha mai smesso di insospettirci. Tale confine, né esterno né interno, né esternalizzato né introiettato, non smette di tormentarci nei secoli d’oro e di buio: c’è un aldiqua che chiamiamo «alienazione» e un aldilà, leggendario quanto misterioso, privo di questa patologia che è panacea, la «alienazione» – un luogo puro, di là del confine mobile, verso l’orizzonte mobile, alieno dall’alienazione. È forse in questo luogo mitologico e sempre di là del confine che continuamente si sposta e non si riesce a valicare, è forse in questa terra di nessuno e quin

di propriamente «mia», che si genera il fantasma che tutto giustifica, ogni delitto e ogni trasmigrazione: è oltre i territori dell’alienazione che prende vita eterna il responsabile di tutte le responsabilità: il capitalismo non è il produttore dell’alienazione, ma è piuttosto la giustificazione dell’alienazione.

Dunque il socialdilemma di The social dilemma altro non sarebbe che una concreta e configurabile cospirazione degli eventi a noi contemporanei (si intende proprio nel 2020 e negli anni immediatamente attorno a questo anno per molti versi fatale, come lo sono tutti gli anni), con cui «il capitalismo» somministra al mondo una sua forma rinnovata, incorporea ma precipitata nei corpi di chiunque sia connesso, in nome di un controllo totalitario della realtà percettiva dell’intera specie. Il ruolo più notevole, tra coloro che hanno sussurrato alle orecchie dei sovrani digitali, lo avrebbe Tristan Harris, già impiegato presso Google, da cui è fuoriuscito nel 2015, dopo avere fatto girare a mo’ di samizdat in azienda una presentazione, giudicata leggendaria, in cui compilava i dubbi morali sugli esiti catastrofici che il digitale delle grandi company sortisce sull’ambiente umano, in termini di perdita di attenzione, polarizzazione dei giudizi, controllo mentale, insorgenza del falso spacciato per vero, libertà e creatività dell’individuo – in una parola, ambigua quanto il termine capitalismo, in termini di alienazione. L’eccezionalità delle testimonianze è avvalorata dai pochi gradi di separazione tra i tycoon inventori del social digitale e i testimoni intervistati, che sono generalmente maschi bianchi multimilionari con formazione Stanford o simili.

Sulla docufiction The social dilemma è possibile fin da ora avanzare due brevi osservazioni e un’altrettanto breve premessa.

Che cosa sia un dilemma sarebbe banale dirlo in un’epoca predigitale. Il grado di ignoranza e inconsapevolezza generalizzata, che è stato raggiunto nell’epoca della banda larga (la quale attende ulteriori, progressivi allargamenti), fa sì che sia necessario specificare il significato, se non il senso, di questo momento a doppio corno, ovvero il dilemma, che non smette di insistere sulle fatiche umane. Si tratta della necessità di scegliere tra due alternative, per sciogliere il problema. L’etimo della parola «dilemma» evidenzia la presenza del «due» (di-) e dell’«enunciazione» (-lemma). Viene dunque a essere, il dilemma, questa figura retorica ed epistemica, una sottospecie del problem solving. Un’antica e mai sopita visione della realtà, come disnodamento di ciò che è problematico e come necessità che la salvezza arrivi in forma di soluzione. Il problema si pone all’umano e l’umano deve rispondere con la soluzione, disciogliendo il nodo. Si tratta di un’interpretazione della realtà, che risale a tempi in cui le porcilaie e le aie venivano recintate alla bell’e meglio e dal centro delle cittadelle del potere gli inarrivabili mandarini scrutavano in silenzio le costellazioni distanti nel cielo notturno, per trarre gli auspici e l’ispirazione su come condurre al meglio il regno, penetrando i misteri del tempo e garantendo la più ricca sopravvivenza. La sopravvivenza, che sarebbe il minimo indispensabile e dunque ciò che è più povero, situa i beni primari in una ricchezza da leccarsi i baffi. Del resto, sembrerebbe davvero che il dilemma più persistente e cruciale, sia per chi governa un recinto sia per chi regge un impero, consista nell’assicurare a se stesso e agli spiriti amici una sopravvivenza, la più rigogliosa possibile. Che la realtà presenti dilemmi è falso: è la possibilità di non sopravvivere a porli.

a un dato punto, il gioco finisce e noi siamo morti.

(L’idea che sia un problem solving il gioco, ovvero la categoria dell’esperienza più intensamente libera perché più intensamente normata e viceversa, ha progressivamente conquistato la popolazione, seguendo i ritmi, le tappe forzose e gli snodi dello sviluppo digitale. Il mistery, il cosplaying, lo adult-teen, i role game e i videogame presentano il conto di un gioco dilemmatico, quindi algoritmico. Non è ancora stato distribuito sul mercato mondiale un videogioco che preveda la morte del giocatore, nel senso che, fallita la missione e non risolto il mistero, il giocatore non possa accedere più al gioco stesso. Sarebbe un fallimento in termini di mercato? Cosa incontrerebbe qui «il capitalismo» e cosa ne sarebbe della «alienazione»? Questa fantasia è essa stessa il gioco finzionale che determina come inefficace ogni teoria dei giochi, qualsiasi soluzione a qualunque problema, l’inizio e la fine della connessione che da sempre governa l’analogico, perché dall’analogico è governata. La morte del gioco richiederebbe un trattato – ovvero un lungo saggio oppure la stipula di un concordato?…)

Intendiamo soprassedere in merito all’assenza di una teoria e di una prassi della società e della socialità, che i protagonisti e gli autori di The social dilemma ingenuamente dispensano come dato di fatto. Basti sapere che questi esperti in storytelling, i quali calcano i palcoscenici amplificando la propria voce con microfoni bluetooth indossabili, ritengono che il fenomeno umano sia un aggregato nervoso, che dispone di pattern pre-dati, agendo sui quali lo si può condurre a una reattività calcolata, che i potentati digitali controllano, insinuando tecnicalità pervasive nel momento dell’interfaccia con i device. Una visione riduzionista è sempre ingenerosa nei confronti di tutto ciò che spontaneamente emerge – dunque di ciò che è emergenza. Un pianeta sovrappopolato da masse zombesche, da cadaveri in emivita, incantati dalle pulsazioni che ordinano la loro esistenza per via nervosa, schiacciando il vivente in un algoritmo ben più che cognitivo o morale. Questo «algoritmo» è ontologico, riguarda il disporsi all’esistere di tutta la popolazione, la quale sarebbe sovrappopolante e metterebbe «a rischio» «il pianeta».

Non abbiamo tempo di occuparci di simili candori, di simili innocenze. Abbiamo da tempo abbandonato le teorie dei giochi per il gioco delle teorie. E, a un dato punto, il gioco finisce e noi siamo morti. Pensavamo di essere morti da tempo, ma ci sbagliavamo. Non riusciamo a depredare a sufficienza noi stessi, i tempi che abbiamo sperimentato li volgiamo in un principio di sapienza ignorante molto spiccia e alla mano, i luoghi che abbiamo visitato sono sempre inferiori per numero a quelli che abbiamo immaginato e siamo persuasi che il cuore del vivente non si arresti mai. Dunque non possiamo morire fino in fondo, nemmeno quando moriremo davvero. Come ci sfianca la consapevolezza dell’eternità e come intendiamo scambiarla alla pari con i sovrani decaduti e con i migliori tra i criminali…

A questo ragionamento desolante, implicito nel monologo che enuncia «The social dilemma» (una delle infinite e sfinenti occasioni del monologo che il mondo fa a se stesso, usando la perenne coppia invertita di inargomentazione: capitalismo e alienazione), noi, i viventi morenti, i viventi perché morenti, opponiamo una visione o, meglio, un sentimento del dintorno e dell’orizzonte, uno specchio del cielo con un respiro sopra, con un respiro dentro, momenti di incantamento contro la visione cumulonemba, trafficatrice di sventure. Aria, atmosfera, gas nobili, metalli pesanti, la vita apparente che pareva vivere: il pianeta, insomma.

Cosa occorre fare? Occorre fare? Occorre vivere…

Noi non ci accorgiamo nemmeno (non ci accorgiamo mai di nulla e ci chiediamo costantemente come sia possibile accorgersi senza fare fatica) del sentimento dei flussi di erbe e di prati pettinati dalle masse di aria che si spostano, invisibili nell’invisibile, attraverso cui vediamo il mondo stesso. È un medioevo italiano, è Sherwood, sono venti contro cui le baleniere devono fare i conti perché sia più stretta l’alleanza con le correnti stesse. Corridoi di aria e cuoiame allacciato a stringhe alle pietre, selci dimenticate che forse furono votive e luce con la domanda sulla luce e spazio con la domanda sullo spazio. Ogni spazio sarebbe attonito? Quali passioni ha lo spazio? C’è un recinto. Animali da aia e nessuna bestia da pascolo rompono l’ordine etereo dell’aria. Quanta distanza dal socialdilemma e dal nutrimento del villaggio cosiddetto globale! Di fatto, il villaggio divenne globale, quando la città non era ancora concepita come planetaria, il che è accaduto negli ultimi anni della nostra anzianità. I margini del villaggio non sono la città. La città esprime la politica, un’altra politica identica si replica con estrema diversità nel luogo dove i villani devono nutrire i forzieri e l’idea fiscale della vita ha già avuto luogo e transita in direzione del forziere dei forzieri, della sopravvivenza delle sopravvivenze. In quel recinto si aspetta da sempre l’editto regale, il messaggero incaricato, l’agente delle tasse sovrane, il ciclo delle stagionalità, fuori sgozzano i montoni e i briganti attentano nel fondo delle cupe foreste alle nostre sostanze, di noi che sogniamo di attraversare il reame, diretti a un altro reame. Già in questo tempo antico, abbiamo forse notizia che i territori siano liberi dai reami? I reami occupano tutto, ogni superficie è stata efficientata da una storia dei poteri, che abbiamo dimenticato? Gli uomini sembrano tesi alla meccanica del trionfo, alla retorica del tronfio: una vocale si sposta, la parola fa barbaglio di qualche verità, ci fu un tempo consolante e selvatico in cui si pensò di attraccare la piccola imbarcazione naufraga alle reti delle parole, per essere recuperati da una dolcezza sfinita e rientrare nel consorzio, attendere alle opere che attendevamo. I doveri all’istante si raggrumarono per noi, le famiglie si condensarono nei più immaterici automatismi, che erano invisibili e la cui cogenza ci permetteva di vivere all’altezza delle nostre povertà, evitando la pericolosa nudità e fornendoci di qualche grado in più di temperatura, per promulgare la sopravvivenza in un senso comodo, adeguato e accettabile. Chi ricorda più quegli editti? Chi stabiliva l’ampiezza e la forma di quel recinto? Perpetuarono il gesto antico della seminagione, diedero di che nutrirsi ad animali dolci, domestici, paventando il cosmo e il gelo, attraversando ognuno fantasmi bene o male configurati. Il re è il più alto dei fantasmi, il più basso degli umani. Gli umani stessi, come dimostra il tempo che sembra scorrere, erano dei fantasmi, le loro leggi anche.

Cosa occorre fare? Occorre fare? Occorre vivere…

L’oca del capitale nel suo recinto

L’oca del capitale immagina di vivere in un recinto. Lei sta dentro quel recinto, si adatta, si adagia, ci sguazza, va all’ingrasso, gioca e si inzacchera le penne, non solo le zampe. Si accoppia nel recinto. Ma si lamenta. Dice di scoppiare in quel recinto. Più scoppia e più si accoppia. Lo odia e lo ama quel recinto. L’amore è in ciò che fa. L’odio è in ciò che dice. Con le parole giura di odiarlo, con le azioni si evince che lo ama più di ogni altra cosa. Il recinto che le impedisce di andare oltre però le è molto utile, le permette di vivere in un mondo bipolare, di odiare e di amare, di dire e di fare in tutta libertà. Di portare il suo lamento ad altezza di poesia. È costretta di essere libera. È libera di essere costretta. Il recinto la contiene e la esalta. Dice di voler abbattere con tutte le sue forze quel recinto, ma vi vivacchia alla grande. L’oca non sa cosa c’è oltre quel recinto. Non le interessa. Non sa neanche se c’è qualcosa oltre quel recinto. Ci ha provato a parole quante volte a oltrepassarlo ma i limiti del recinto la sospingono all’interno. Ogni volta che ci ha tentato è andata a finire sempre in un interno più interiore. I limiti del recinto la spingono in un interno infinito in cui c’è spazio solo per ciò che è oca.

L’oca è il re cinto, il limite che la mente si pone perché senza quel limite sarebbe persa in ogni momento e una volta per tutte. L’oca è un re cinto. Il suo potere sta tutto in quella cintura che tanto più splende sul suo capo quanto più ne limita la capacità di vedere oltre, di andare oltre, di pensare oltre, ovvero di conoscere finalmente qualcosa di sé.

I limiti del mondo sono limiti della mente? Forse. Anche. Non solo.

Siamo tutti re cinti. Il recinto prima di ogni altro luogo è nella nostra mente. Parole?

Certo è che l’oca è il recinto. E non è l’oca del capitale. L’oca è il capitale.

E adesso si abbatta quel recinto.

Parola di oca.