di FRANCESCO MARIA PEZZULLI (in sudcomune/effimera, luglio 2019)
Cara lettrice, caro lettore, rieccoci con un tema arduo, per il quale la cautela è d’obbligo, ma la domanda non può essere evasa: perché i meridionali hanno votato Salvini?
Prima di passare ai punti che seguono, che ritengo utili per una discussione tramite la quale articolare una risposta critica, non certo definitiva, è necessaria una breve premessa: per prima cosa, le questioni affrontate non sono frutto di un lavoro sistematico, ma si tratta di semplici e frammentarie riflessioni, che non vogliono spiegare nulla, quanto piuttosto stimolare il ragionamento su questo e altri aspetti dell’attualità politica del sud Italia. Secondo poi, è facile che i punti appresso segnalati generino disappunto o contrarietà, cosi come è accaduto quando questo breve testo è circolato in bozza. Non so ancora spiegarmi a cosa ciò sia dovuto: forse ai concetti utilizzati o forse alle conseguenze che un loro concatenamento inadeguato potrebbe generare in termini interpretativi e analitici. Comunque sia, cara lettrice e caro lettore, spero vorrai considerare questo contributo come un primo tentativo di sondare nuove strade, che non per forza devono sostituire le vecchie, ma che forse possono aiutarci ad orientarsi nel caos attuale. Del resto, quando si è incerti ma bisogna arrivare a Messene l’unica cosa da fare è cominciare a camminare, perché gli incontri e i saggi suggerimenti non possono che giungerci durante il percorso.
1. Avevamo accennato a due componenti, estrema destra e mafie, ma dopo il conteggio dei voti limitare l’analisi a queste due componenti non può bastare. Esse sono minoritarie mentre la scelta politica pro Salvini e Lega, nel suo insieme, ha coinvolto quasi 2 milioni di persone, più del 20% dei votanti. La terza componente di cui qui ci occupiamo non sembra avere una fisionomia precisa, è uniforme nelle città come nei piccoli centri, nelle aree montane come in quelle marine. E’ maggioritaria, con motivazioni politiche e scelte elettorali proprie, differenti, a volte in modo consistente, da quelle delle prime due componenti, che ruotano invece intorno a una strategia politico mafiosa che passa attraverso il voto a un leader forte.
Per la maggioranza dei leghisti meridionali insomma la questione si complica: chi sono? cosa li ha mossi a scegliere il capo del partito più anti meridionale che la storia italiana ha conosciuto?
2. Sul piano numerico, mediamente, 1 ogni 5 votanti meridionali ha votato Salvini e/o Lega, in alcune regioni, come in Abruzzo, 1 ogni 3, in altre, come in Sardegna, 1 ogni 4. In generale, più della metà degli elettori del sud si è astenuto dal voto. Su 17 milioni solo 7,6 si sono recati alle urne. Anche a Riace e Lampedusa, che per forza e virtù dei propri sindaci sono state battezzate roccaforti antisalviniane, la Lega è il primo partito. Nel paesino di Mimmo Lucano in quasi 300 hanno votato Lega (il 31% dei 1.107 votanti, su meno di duemila elettori). A Lampedusa, dove l’astensionismo ha superato quota 70%, in 624 (il 46% dei 1404 votanti) hanno scelto lo sceriffo lumbard.
Si dice: «ma la Lega di Salvini è un’altra cosa rispetto a quella di Bossi» e questo è certamente vero. E il lungo curriculum anti meridionalista del ministro dell’interno, a partire dagli slogan in birreria (“senti che puzza scappano anche i cani stanno arrivando i napoletani…”), sembra non intaccare minimamente il successo elettorale al Sud. Ma lasciamo da parte il fascino del leader (a tratti sborone, forte coi deboli, e subito poi ridicolo, con il “vincisalvini”, che si auto pubblicizza come da ragazzo a cercare fortuna alle gare della Fininvest di Berlusconi) e concentriamoci invece sulla nostra terza componente. Allora, di chi stiamo parlando?
3. Partiamo da lontano, dal 1922, con John Dewey che dal suo osservatorio privilegiato ci avverte che siamo entrati in un’epoca buia dal punto di vista dell’educazione, che se ancora riteniamo che il beneficio di questa consiste nella «capacità di sceverare, di fare delle distinzioni che penetrano al di sotto della superficie» ci sbagliamo di grosso in quanto possiamo affermare senza indugio che l’educazione di oggi «non è soltanto arretrata ma è in processo d’involuzione». La nostra è l’età della ciarlataneria e dell’inganno, scrive il padre del pragmatismo, e
«le ragioni dell’attuale trionfo della ciarlataneria nelle cose umane sono piuttosto esterne che dovute a un’intrinseca corruzione dell’intelletto e del carattere (…) gli uomini devono agire in vista di condizioni economiche e politiche lontane da loro e devono avere su queste delle conoscenze sulle quali fondare le proprie azioni. E poiché le loro conoscenze influenzano la loro condotta, le credenze sono ora qualcosa di più che fantasie e passatempi ed è cosa di grande rilievo che esse siano giuste. Al tempo stesso alcune persone si sono assunte l’obiettivo di influenzare l’opinione delle masse, poiché è su queste e non su annose consuetudini che si fonda la possibilità di dominarle. Se si ha il controllo delle opinioni , si ha in mano, almeno per il momento, la direzione dell’attività sociale».
In altri termini, possiamo dire che lo sviluppo e la diffusione della stampa «a buon mercato» aumenta incredibilmente le possibilità di questo controllo delle opinioni e moltiplica le tecniche (oggi ribattezzate di “distrazione di massa”), che distolgono l’attenzione da fatti concreti per indurre la popolazione «colla grandezza dello strepito» ad esprimersi con forza su «questioni irreali». La ricetta di Dewey a fronte di questa involuzione ciarlatana e ingannatrice, rafforzata negli anni ’20 dalle caratteristiche del sistema di propaganda messo in atto durante la prima guerra mondiale, è quella di sottoporre a critica la qualità del governo popolare e non la sua esistenza, sapendo che «la sua qualità è legata inseparabilmente alla qualità delle idee e delle notizie che sono messe in circolazione e alle quali si presta fede». Poco prima del ’29, tra il capitalismo del vecchio mondo e quello del nuovo, la necessità storico politica di «catturare l’interesse e i sentimenti del popolo» si traduce anche nell’esigenza dei governi «a suscitare e dirigere tale interesse mediante la somministrazione di “notizie” sottoposte a vaglio accurato». In questa situazione, il ruolo funzionale assunto dalla scuola è per Dewey deprecabile: «non soltanto fa poco per creare in una intelligenza che sa distinguere una garanzia contro l’abbandono all’invasione della ciarlataneria, specialmente nella sua forma più pericolosa, quella sociale e politica, ma anzi fa molto per creare lo stato d’animo favorevole al suo accoglimento». La ricetta di Dewey dinanzi a tale insopportabile rovesciamento è di criticare aspramente l’insegnamento (tradizionale) di tutti quei materiali che non hanno rapporto alcuno con la situazione attuale, e, soprattutto, di invertire quella modalità di insegnamento che consiste nell’evitare sistematicamente lo «spirito critico in rapporto alla storia, alla politica e all’economia», ritenendo, erroneamente, che questo sia l’unico modo di formare dei buoni cittadini. Questo nel 1922. Da allora le cose sono evidentemente cambiate, nel senso che, per quel che qui ci interessa, la conquista «della direzione dell’attività sociale» può contare su tecniche e modi di «catturare i sentimenti» sempre più raffinati.
4. Quasi un secolo più tardi, Andrea Camilleri, intervistato sui condizionamenti dell’informazione comincia la discussione sulla base dei dati di un rapporto «molto serio», curato da Tullio De Mauro, per il quale in Italia sono presenti all’incirca 30 milioni di analfabeti. Per l’esattezza: 2 milioni di analfabeti totali, 13 milioni di semi analfabeti (sanno firmare ma non capiscono ciò che leggono) e altri 13 milioni di analfabeti di riporto (hanno perso nel tempo l’uso della scrittura e della lettura). Si chiede, a questo punto, il grande scrittore siciliano:
«quando questi analfabeti o semianalfabeti si recano a votare su che cosa hanno basato le loro convinzioni? Sulla televisione ecco perché è da parte del potere assolutamente indispensabile che l’informazione sia univoca, sia indirizzata in un unico senso dopodiché la poca scarsa e miseranda informazione libera può essere sottoposta a una serie di eventi tecnici che ne diminuisca la diffusione nel territorio in maniera che sempre di più prevalga l’informazione condizionata».
La funzione politica svolta dalla televisione, per Camilleri, è la stessa di quella che Dewey assegna alla stampa del suo tempo. Con ciò non intendiamo sostenere che i meridionali che hanno votato Lega e Salvini siano analfabeti o semianalfabeti, lo sono come altri milioni di italiani che hanno votato per altri partiti e altri leader. Vogliamo solo dire che, probabilmente, la terza componente è composta da esseri che la “propaganda” televisiva (e non solo) riesce a formare a proprio piacimento; individui, detto altrimenti, che i numerosi e sofisticati dispositivi di convincimento riescono ad assoggettare. Gli uomini del nostro terzo gruppo sono in grado di convivere e convincersi di questioni paradossali e, a secondo delle contingenti esigenze politiche, possono continuamente essere riformattati, come un qualsiasi hardware, ad ogni nuova campagna politico mediatica per la quale diventano dei tifosi, affidandosi al paladino di turno che viene proposto come capitano.
5. Per chi ha la fortuna di “pensare da se” una cosa è certa: il meridionale che vota Lega e Salvini è corrotto. Non parlo della corruzione economica – ossia dell’utilizzo illegale di risorse pubbliche in virtù di legami familiari e parentali, di influenze politiche e metodi clientelari tramite i quali la ricchezza finisce nelle mani di pochi privati – ma di corruzione etica, di corruzione dell’essere. Nel mondo cosi come oggi è costruito, infatti, sono presenti e attivi tutta una serie di dispositivi e tecniche di assoggettamento che integrano, trattengono o riassorbono le singolarità nel rapporto sociale capitalistico, che si tratti della vita in famiglia, del lavoro in un’impresa o del senso di appartenenza a un popolo. Come hanno spiegato egregiamente Hardt e Negri, «la corruzione è dappertutto (…) la corruzione separa la mente e il corpo da ciò che possono fare».
6. Detto ciò, a primo acchito, la figura che sembra avvicinarsi maggiormente al nostro soggetto è quella di colui che, per dirla con un grande milanese, «è un concentrato di opinioni che quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire (…) un uomo senza consistenza che s’allena a scivolare dentro il mare della maggioranza (…) un animale assai comune che vive di parole da conversazione (…) un aerostato evoluto che è gonfiato dall’informazione». Il nuovo conformista, come diceva Gaber oltre un ventennio fa (se non lo hai ancora fatto, caro lettore e cara lettrice, ascolta questo ed altri capolavori del signor G), pare cogliere molti aspetti del nostro meridionale leghista, ma forse non tutti, forse siamo andati terribilmente oltre. Nel senso che, se il conformista è «chi si adatta facilmente alle opinioni o agli usi prevalenti, alla politica ufficiale, alle disposizioni e ai desideri di chi è al potere» (vocabolario Treccani), il soggetto di cui stiamo parlando non si “adatta” semplicemente per opportunismo, egli crede ed è convinto che la realtà che ha di fronte debba essere interpretata e spiegata come ha sentito dire (in TV, sui social, eccetera). E, fin qui, nulla di speciale; salvo che, qualche settimana dopo, è pronto a credere ed essere fortemente convinto, senza alcuna autocritica, di qualcosa che, ad uno sguardo solo meno superficiale, è in netta antitesi con la convinzione precedente. Oggi Salvini, domani un nuovo eroe triste nel quale potersi rispecchiare, dopodomani un altro che i media sorreggono e propagandano, e cosi via elezione dopo elezione, per tutta una vita fatta di paradossi del tipo: “non sono razzista però loro sono un problema”, “io sono per l’accoglienza ma loro ci invadono è meglio che restino casa loro”, eccetera, eccetera. Non sono un esperto, mi sembra comunque che il nostro leghista meridionale sia allo stesso tempo conformista e schizofrenico senza sapere di esserlo. I paradossi e le contraddizioni con cui convive lo apparentano agli organismi semplici che Griziotti cita nel suo ottimo lavoro sul Neurocapitalismo:
«la mercificazione, la videogamizzazione, la disneyzzazione del reale ci spingono verso lo stato degli organismi semplici che sono in grado d’avere un comportamento senza processi mentali; le emozioni ma non i sentimenti… E’ ormai scientificamente accertato che la razionalità dei comportamenti viene meno nelle persone che non possono provare pienamente emozioni e sentimenti e, sorgono allora interrogativi inquietanti sulla società in cui essi sono cosi fortemente e continuamente influenzati, manipolati e provocati in un’ossessionante prospettiva di razionalità finanziaria»
Cara lettrice e caro lettore, nel caso in cui tu pensassi che in questo scritto non sono presenti grandi novità, hai ragione, è vero ed hai tutta la mia comprensione. Ma da qualche parte bisogna pur cominciare. Abbiamo solo espresso alcuni punti circa la funzione politica di questa terza componente ed abbiamo precisato alcuni suoi lineamenti costitutivi che ci dicono, ormai è chiaro, che i soggetti di cui stiamo parlando non sono solo meridionali tantomeno soltanto leghisti. A dirla tutta, probabilmente, se consideriamo il “meridionale” e il “leghista” come soggetti che rimandano a una precisa identità possiamo dire che, semmai esistiti in passato, oggi forse non esistono più. I meridionali leghisti di cui abbiamo cominciato a occuparci sono individui la cui soggettività viene prodotta e riprodotta per ragioni legate agli interessi politici ed economici ed ai rapporti di forza della fase capitalistica in corso. Vedremo allora, in una prossima nota, di rilevare le dimensioni propriamente sociologiche di questa componente, al fine di avvicinarci al meridionale che vota Salvini in carne ed ossa, sempre che, nel frattempo, questi organismi semplici non siano divenuti altro.
NOTE
(1) “Nota meridionale sul reddito di cittadinanza e il Movimento cinque stelle”, in «Effimera» e «Sudcomune» (gennaio 2019)
(2) Jhon Dewey, “L’educazione come politica”, in «The New Republic» del 4/10/1922 (raccolto in Education Today, G.P. Putnam’s Sons, New York 1940; tr. it. L’educazione di oggi, La Nuova Italia, Firenze 1950. Cit. pag. 198)
(3) Cfr., tra gli altri, Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia repubblicana, Dal 1946 ai nostri giorni, Laterza, Bari 2014. Il brano di Camilleri può essere ascoltato qui: https://www.youtube.com/watch?v=nPU9BKfiNFA
(4) Michael Hardt, Antonio Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002. Cit. pag. 361. L’analisi della famiglia, impresa e nazione come istituzioni sociali preposte alla corruzione del comune vedi: Comune. oltre il pubblico e il privato, Rizzoli, Milano 2010: «nonostante la repulsione che la famiglia, l’impresa e la nazione suscitano in noi, occorre ribadire che esse mettono in gioco e mobilitano il comune anche se in forme corrotte, e dunque predispongono una serie di risorse importanti per l’esodo della moltitudine» (pag. 168).
(5) Giorgio Gaber, “il Conformista”, in Un’idiozia conquistata a fatica, 2° CD, 11ª traccia, 1997.
(6) Giorgio Griziotti, Neurocapitalismo. Mediazioni tecnologiche e linee di fuga, Mimesis, Milano 2016. Cit. pag. 167