Il lavoro nella Piana del Metauro: un sistema economico-produttivo feudale nella provincia reggina del XXI secolo

di GAETANO ERRIGO (in sudcomune.it, settembre 2018)

La Piana del Metauro, meglio nota come la Piana di Gioia Tauro, è la zona nordoccidentale della provincia di Reggio Calabria che si espande, da sud a nord, sul lato settentrionale della Costa Viola, cioè da Palmi a San Ferdinando e che nell’entroterra si protrae a settentrione fino a Serrata, mentre dalla costa si espande ad est fino a raggiungere le vette occidentali dell’Aspromonte, cioè fino a Seminara, Sinopoli, Santa Cristina e Sant’Eufemia d’Aspromonte. Un territorio di 33 comuni, vasto quasi 250 kmq, occupato per la maggior parte da una pianura di origine alluvionale, dove vive una popolazione di circa 18.0000 unità (di cui quasi un terzo residente nelle tre città che superano i 15.000 abitanti ovvero, in ordine decrescente, Gioia Tauro, Palmi, Taurianova) dedite soprattutto ad attività manifatturiera in ambito edile e di terziario, nonché ad attività legate ad una produzione agricola messa però inginocchio dall’economia globale. Qui si trova anche uno dei porti commerciali più grandi di Europa, ma che vive un periodo per nulla florido.

Lavorare nella Piana non vuol dire svolgere attività produttive atte a creare beni e servizi per il miglioramento delle proprie condizioni o della società che, ancora oggi, spesso, vive nella rassegnazione di un ineluttabile è stato sempre così, al quale nessuno può pensare di ribattere. Lavorare nella Piana vuol dire rendere la totalità della propria vita, giorno per giorno, alla propria occupazione, senza possibilità di poter programmare o pensare ad altro, in cambio di un guadagno che basta a malapena per il sostentamento familiare e che, comunque, se lascerebbe qualche avanzo, questo perderebbe il suo valore effettivo non potendo essere utilizzato, per mancanza di tempo materiale, o comunque deve essere accantonato come risorsa di riserva in caso di necessità, vista la situazione occupazionale sempre più precaria.

Una situazione accettata passivamente in maniera naturale, senza remore o proteste. Una situazione che potrebbe sembrare assurda e che per essere compresa, prima di essere sviluppata in questa analisi, ha bisogno di un passaggio storico-sociologico per capire la “natura” di questa società.

Brevi cenni di storia, società ed economia locale
Conosciamo bene la storia del Mezzogiorno d’Italia, la colonizzazione ellenica ha “grecizzato” l’intera società tanto che la Chiesa romana ha avuto da fare per secoli prima di imporre la “latinizzazione” del territorio, e senza riuscire a strappare quell’impronta tragica della vita trasmessa dai colonizzatori provenienti dal Mar Ionio. A questo si aggiunga l’avvento del sistema feudale che ha schiavizzato la popolazione e che, a differenza del resto di Europa, è riuscito a resistere fino al 1806, ovvero fino alla riforma di Murat che, comunque, per le masse, non diede buoni frutti facilitando presto un reinsediamento dei Borboni i quali, al loro rientro, nulla fecero per migliorare le sorti della popolazione. Lo stesso dicasi per l’avvento dello Stato sabaudo, che di fatto occupò il Mezzogiorno e si applicò, più che altro, per “piemontizzare”, con la forza, i nuovi territori annessi e senza adottare le misure necessarie per lo sviluppo dei territori arretrati. Condizioni che, di fatto, contribuirono a riaffermare una nuova feudalizzazione della vita pubblica. Il lavoratore, quindi, dopo tutti questi cambiamenti, è costretto a vivere con gli stessi standard dettati dal feudalesimo medievale, cioè a spendere l’intera sua giornata e l’intera sua esistenza per il lavoro e per la produzione, trattiene per sé una minuscola parte di ciò che ha prodotto e continua a viveva di stenti e soggiogato al lavoro e ai notabili del paese.

Da considerare, nel contesto generale, come tali elementi, per questioni prettamente geografiche, hanno colpito maggiormente le aree interne, e quindi più isolate, della singole regioni meridionali, con particolare riferimento, nel caso in esame, alla Piana di Gioia Tauro. Questa, ubicata nella parte settentrionale della provincia reggina, risulta distante dallo Stretto di Messina e, non essendoci, nei secoli passati, mezzi di trasporto aventi una certa velocità, era molto impedita dall’allacciare rapporti commerciali con la vicina Sicilia, così come, a differenza della provincia cosentina, era ancor più distante dal napoletano, la zona più ricca del regno delle Due Sicilie e dove da tempi atavici aveva sede la Corte Reale. A questo aggiungasi che la zona ha sempre sofferto per una chiusura morfologica del territorio, ovvero a est confina con il mare che, nei secoli passati, dava accesso a pericoli, ovvero alle incursioni saracene che obbligarono le città costiere ad eclissarsi e spostare gli insediamenti urbani nell’entroterra, dagli altri tre lati il confine è segnato dalle montagne impervie dell’Aspromonte. Una situazione, quindi, che, ieri molto più di oggi, garantiva poca comunicazione con l’esterno ostacolandone modernizzazione e crescita. Ma la comunicazione trovava ostacoli anche all’interno, essendo le diverse città collegate da piccole mulattiere che, per la maggior parte dei casi, sono le stesse che garantiscono i collegamenti attuali, solamente modificate a malapena affinché possano sembrare strade.

Una situazione di vita arcaica che dall’antichità si protrae ben oltre il secondo dopoguerra, considerando che lo spopolamento delle campagne e il processo di espansione urbanistica delle città avviene negli anni ’70 del secolo scorso con il boom economico che ha attraversato l’intera penisola. Fino ad allora, è bene precisare, buona parte del commercio si svolgeva ancora con il sistema del baratto. Un esempio: la vecchia nobiltà e l’alta borghesia possedeva i terreni che affittava a dei coloni, questi, non avendo moneta contante, pagavano l’affitto versando loro gran parte della produzione agricola. Allo stesso modo funzionava per i guardiani campestri, delle guardie private che sfruttavano il potere derivante dalla loro affiliazione alla criminalità organizzata locale per imporsi a controllori della sicurezza sui terreni, che venivano retribuiti anch’essi con parte della produzione.

Giunti quindi gli anni del progresso, si assiste ad una forte migrazioni nei centri urbani delle bestie di lavoro provenienti dai centri rurali. Questo fu possibile grazie a delle innumerevoli assunzioni clientelari perpetrate dalle maggioranze dei civici consessi presso uffici pubblici, uomini non abituati a vivere qualche ora di tempo libero e fuori dal lavoro campestre e che, causa la bassa scolarizzazione, non trovava in queste ore di ozio altro da fare se non trovarsi un secondo lavoro o frequentare le ultime cantine sociali che ancora resistevano in paese. Furono questi gli anni in cui si registrò, a seguito dell’incremento del benessere economico, una cementificazione selvaggia dei centri urbani, ognuno cerca di costruire la casa per sé e per tutti i propri figli, dando il via alla costruzioni di enormi palazzoni che s’innalzavano, col consesso del clientelismo politico, senza rispetto di piani regolatori e con vani abusivi e invasioni di spazi riservati per la costruzione di marciapiedi. Palazzoni che, per risparmiare, non furono mai rifiniti negli esterni e che, in seguito alle seguenti grandi ondate di emigrazione, rimasero vuoti.

La società era cambiata, la scolarizzazione aumentata, ma la mentalità che ha governato la gente per lunghi secoli di tirannia e oppressione è continuata a vivere nelle città rinnovate dal semianalfabeta che aveva abbandonato i campi e che ha trasmesso ai posteri l’idea di una vita di ineluttabile schiavitù (“perché è stato sempre così”) al servizio del padrone o del politico corrotto compiacente. Una mentalità che sopravvive anche ai giorni nostri e che nemmeno il giovane laureato pensa di poter modificare, “perché è stato sempre così”, sottomettersi e corrompere è una situazione imprescindibile per poter vivere, “perché è stato sempre così”, e se alle ultime elezioni il Movimento Cinque Stelle ha incassato una marea di voti (anche se nella Piana è stato superato di qualche punto percentuale dal centrodestra, ma questa è un’altra storia), non è perché ci si ribella alla corruzione per reclamare giustizia, la gente si ribella alla corruzione solo quando non ci è dentro (e qui davvero c’è da dire “è stato sempre così”), e gli ultimi governi hanno fatto benefici solo alle alte sfere dell’economia globale e nulla al popolo che reclamava briciole per sé.

Questa è la situazione, e benché la presenza di numerose persone che, come nel passato, tentano di dare un’inversione di tendenza alla situazione, non c’è nulla da fare. Come nel passato, le persone di buona volontà debbono sottomettersi ad una mentalità ormai troppo radicata o andarsene, oppure provare a lottare una guerra persa in partenza. Ma la guerra è persa in partenza non per colpa della gente della Piana, loro, probabilmente, hanno ragione a difendere questa mentalità, le politiche nazionali e regionali, oggi, non danno alternativa alcuna. Se le politiche nazionali e regionali non danno indirizzi alternativi per una prospettiva di vita migliore, il territorio sarà costretto a vivere in una cattività sempre peggiore.

Ma veniamo adesso a parlare del sistema produttivo dei giorni nostri.

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Commercio, maestranze e professionisti

«Quanto dura la giornata lavorativa? Fino a 10 ore? E quanto si guadagna? Dividendo il salario per il numero dei giorni e delle ore lavorative, si guadagna circa 2 euro all’ora, si arriva a 4 per lavori usuranti se si è un operaio specializzato. E le garanzie previdenziali e infortunistiche? Neanche a parlare. In una giornata c’è solo il tempo di lavorare e quello che si guadagna non è sufficiente per vivere. Essere comunisti vuol dire essere per l’abbattimento dell’attuale stato di cose presenti. Buona Festa del Lavoro!»

Questo è il testo di un piccolo volantino che, sormontato dal simbolo del Partito Comunista e recante firma «La Cellula di Taurianova», è apparso, all’interno di una cornicetta in legno, il 30 aprile scorso, alla vigilia della Festa del Lavoro, sopra la statua “La Mietitrice” di Alessandro Monteleone, all’interno della Villa Comunale “Antonino Fava” a Taurianova. Queste poche righe sono sufficienti per descrivere le condizioni di lavoro a Taurianova e nell’intero comprensorio della Piana, ma probabilmente in tutta la Calabria, con particolare riguardo per i settori del commercio e delle maestranze.

Di fatti, negli ultimi tempi, la maggior parte del lavoro, consiste nell’impiego presso negozi, bar o centri commerciali. Lo stipendio varia tra le 400 e le 500 euro mensili. La migliore retribuzione si registra per le cassiere dei supermercati che arriva, in media, a 600 euro, ma queste, però, fungono anche da scaffaliste e, non di rado, applicate alla pulizia dei corridoi che attraversano gli scaffali della merce esposta. Tuttavia, tranne qualche eccezione costituita per lo più dai supermercati gestiti da sedi centrali fuori regione, dalle busta paga risulta un orario di lavoro inferiore (spesso part-time) e una retribuzione maggiore, compresa tredicesima e quattordicesima che sono un miraggio per i lavoratori di tutti i settori (come del resto anche gli emolumenti per carichi di famiglia), che accettano tutto ciò nonostante sanno, qualora sono messi a regola (ma ciò avviene solo nei supermercati e, in parte, nei negozi cinesi per i vari controlli a cui quest’ultimi sono sottoposti) che pagheranno le tasse sullo stipendio risultante dalla busta paga piuttosto che su quello reale. Per quanto riguarda i bar, ad eccezione di quelli ben avviati grazie alla qualità e alla varietà dei propri prodotti, vi è da segnalare una pratica inaccettabile, ovvero si richiede solo personale giovane femminile disponibile a lavorare con un vestiario e un modo di fare che attiri e tenga i clienti, in pratica non ci si vergogna di chiedere ad una ragazza di anteporre il lavoro e l’elemosina alla propria immagine o dignità.

Più complesso è invece il sistema di retribuzione nell’ambito delle maestranze edili o di officina (si tratta di piccole botteghe artigianali e non di grandi complessi industriali, quasi assenti nella zona). La retribuzione dipende dalla qualifica del lavoratore, una specie di carriera non ben definitiva ma che, per quanto serve per questa trattazione, può essere riassunta in tre gradi: apprendista (colui che deve imparare il lavoro), operaio (colui che aiuta l’operaio specializzato, cioè aiuta il “mastro”, a volte ha la stessa capacità del mastro ma non è riconosciuto tale) e mastro (l’operaio specializzato). Nelle officine l’apprendista, mal che vada, ha comunque garantite 50 euro settimanali (dette “regalo”, per specificare che non sa ancora svolgere il lavoro e quindi è remunerato per la buona volontà di apprendere e per generosità del datore di lavoro) e una volta diventato mastro, finché non decide di mettersi in proprio, potrà raggiungere una retribuzione fino a 150 euro settimanali. Da dire che in passato, al contrario, era la famiglia dell’apprendista che pagava qualcosa affinché questo potesse apprendere il mestiere. Negli ultimi tempi, fino a qualche decennio fa, invece, era in uso che questo si sdebitasse quando, finita la scuola e ottenuta la promozione alla classe successiva, offrisse, per l’evento, un gelato al mastro e ad altri che eventualmente con questi lavoravano.

Nei cantieri edili la situazione è diversa. L’apprendista non ha diritto ad alcuna retribuzione e il “regalo” non ha sempre una quota fissa, ma varia secondo le disponibilità del datore di lavoro che dà quanto può e quando può. Il mastro, invece, finché non lavora in proprio, può guadagnare fino a 45 euro al giorno, ma i ritmi del suo lavoro devono tenersi costantemente veloci, mentre il semplice operaio ha un guadagno variabile tra le i 20  i 30 euro die.

Per quanto riguarda l’orario di lavoro, questo, occupa l’intera giornata. Nei cantieri e nelle officine si inizia la mattina alle 8 e si finisce la sera alle 19 (quasi tutti lavorano anche il sabato e per l’intera giornata), con uno stacco per il pranzo dalle 13 alle 14. Tempo di riposarsi e fare una doccia si sono fatte le 20, cioè quasi ora di andare a cenare e poi a dormire, per prepararsi ad una nuova giornata vissuta esclusivamente per il lavoro. Non meglio la situazione per le commesse e gli impiegati nei supermercati e nei negozi. Qui la giornata lavorativa va dalle 8 alle 13 e poi riprende dalle 16 fino alle 21, il tempo si prolunga in maniera indeterminabile durante le operazioni di inventario. Anche in questo settore, come per quello precedente, la giornata lavorativa dura dieci ore, in questo caso il tempo è dilazionato diversamente creando un buco nelle prime ore pomeridiane e imminentemente successive al pranzo, cioè in quel lasso di tempo in cui il lavoratore, per motivi di ritmi biologici, raramente riesce ad occuparsi di altre cose, anche di per sé piacevoli, se non costretto. Da tenere in conto che, molte volte, specie per quanto riguarda i centri commerciali, il lavoratore abita molto distante e non rientra per il pranzo quindi, consumato qualcosa sul posto, riprende spesso le attività in negozio già prima che finisca la pausa. Da precisare che qui si lavora, a turno se c’è più di un impiegato, anche le domeniche e, mezza o tutta la giornata, nei festivi, ma in cambio c’è un giorno di riposo durante la settimana. Più dura nei negozi dei cinesi dove, per lo stesso lavoro, eseguito da meno personale, lo stipendio scende a 400 euro e spesso si è costretti a lavorare l’intera giornata, anche le domeniche e i festivi senza giorno di riposo infrasettimanale. In ultimo, sull’argomento, si precisa che, nelle maestranze, l’unica categoria che esegue una giornata lavorativa di sole otto ore è il muratore, questo può permettersi ciò in quanto il cliente reputa il suo operato abbastanza pesante e non pretende che la giornata sia prolungata fino al crepuscolo, cosa che invece pretende dalle altre maestranze che svolgono altre attività, anche se altrettanto pesanti.

Per completezza dell’argomento si accenna alla situazione assicurativa e previdenziale per le maestranze (visto che per quanto riguarda il commercio si è già accennato). Per la maggior parte dei casi non si versa nulla alle casse di competenza. Il fatto, però, è dovuto che la maggioranza delle ditte consiste in un mastro che si è messo in proprio e che ha chiamato altro a lavorare con sé (oppure lo ha accolto per apprendere il mestiere tenendolo dopo con sé) e, questo, quasi sempre, non versa contributi previdenziali e assicurativi nemmeno per sé perché impossibilitato economicamente, coprire col lavoro questi costi, anche solo per sé, vorrebbe dire aumentare la richiesta di compenso ai propri clienti ed uscire, per questo, fuori dal mercato e rimanere disoccupato.

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Come detto sopra, tutto questo, è visto come normale. Lo sfruttamento forzato nel lavoro è un qualcosa che qui si è sempre svolto, da secoli e millenni. È un qualcosa di così normale che, nei periodi in cui la richiesta di manodopera scarseggia, capita che la giornata lavorativa si accorcia di un’ora e le maestranze, anziché sfruttare il tempo per dedicarsi a sé, non avendo una forma mentis che gli consenta di pensare ad altre attività umane, ha l’esigenza di trovarsi lavoretti secondari per occupare il tempo rimanente, ma anche per arrotondare le entrate visto che spesso i pagamenti sono dilazionati in acconti perché il cliente non riesce a saldare le spese che aveva previsto per i lavori richiesti. Ma soffermandoci al secondo lavoro come attività per ammazzare il tempo, c’è da dire che questo, spesso, capita anche fra i muratori che, come abbiamo visto, sono abituati ad un orario di lavoro decente. E la cosa, non di rado, succede anche durante le ferie che, nelle maestranze, si prendono se la mole di lavoro lo consente e, comunque, non sono retribuite.

Una cosa, questa, che influisce molto anche nella conduzione della propria vita privata. Il seguente episodio può sembrare una sciocchezza ma rivela una triste realtà. Una maestranza di giovane età disse di essersi fidanzato e gli fu chiesto, da chi ascoltava, come è stato possibile visto che i ritmi del lavoro non gli consentono di avere relazioni esterne al cantiere. Questo spiegò di aver visto la ragazza, una domenica, passeggiare al centro commerciale, ed essendosi interessato chiese informazioni e la aggiunse su Facebook. Dunque una relazione sentimentale sviluppatasi nei freddi meccanismi cibernetici e che in seguito, per divenire reale, mette in obbligo quel lavoratore a rinunciare ad un’ora di riposo per poter uscire con la ragazza e passare quell’ora seduti su una panchina nell’orario post-cena. La gravità di tale situazione la si evince soprattutto se si considera che, ormai, tale pratica è diffusa, in tutti i tipi di relazione, anche fra i disoccupati (e qui il tasso di disoccupazione/inoccupazione è abbastanza alto). Ormai è regola incontrare persone, di tutte le età, che non riescono a comunicare nella vita reale e che, dietro lo schermo, si rivelano invece persone profonde e dotate di ottime capacità di scrittura e di analisi. Addirittura, e purtroppo quanto segue tocca l’assurdo, non di rado si vedono gruppi di persone uscire insieme ed ignorarsi per l’intera serata che viene passata a comunicare con altri via chat o, addirittura, fra loro attraverso i dispositivi smartphone.

Per concludere, una breve analisi va fatta sul lavoro dei professionisti. Questi, una volta conclusi gli studi universitari, si legano a studi professionali per svolgere il tirocinio, collaborando attivamente nell’espletamento delle diverse attività professionali a titolo gratuito. Ottenuta l’abilitazione, quasi sempre, rimangono ad esercitare nello stesso studio. Gli elementi per dare anche in questo campo una descrizione dettagliata sono molto vari fra loro e mettono nell’impossibilità di fare una media. Di sicuro si può dire che gli orari di ufficio sono molto simili a quelle dei supermercati e dei negozi, mentre il guadagno possiamo dire che, nella maggior parte dei casi, non esiste o se esiste è da assimilare al pagamento forfettario analogo a quello degli apprendisti nei cantieri edili. Ma qui c’è da dire che, molte volte, il fatto è dovuto che gli studi professionali sono molti e il guadagno è di gran lunga inferiore a quello dei tempi andati, un professionista, nella maggior parte dei casi, non può stipendiare un collaboratore, tranne rari casi dove la mole di lavoro impone l’assunzione di altri professionisti (ciò avviene per lo più in qualche grosso studio commerciale). Infine, per i neoprofessionisti, possiamo dire che ci si guadagna solo quando si porta lavoro proprio ma, per poterlo ottenere, visto che si è nuovi nel settore, bisogna chiedere molto meno di quanto indica il tariffario professionale o si rischia di rimanere fuori dal mercato in favore di un collega più disponibile ad abbassare le proprie competenze economiche sul lavoro.

Nel campo dei professionisti, una situazione singolare riguarda invece i giornalisti. Tranne coloro, molto pochi, che sono riusciti a sistemarsi nelle redazioni in cambio di uno stipendio inferiore a quello dovuto ed elargito, spesso, con ampio ritardo, per la maggior parte è costituito da una vasta rete di corrispondenti e collaboratori che esercitano la professione gratis o per pochi spiccioli, tant’è che molti, pur avendo i requisiti, non presentano neanche domanda per essere iscritti all’Albo. A questo settore, di recente, è stato inferto un’ulteriore colpo mortale con l’avvento dei giornali online. Questi vivono di poca pubblicità che viene intascata dall’editore e, quelle rare volte che questo non è anche il giornalista, serve in parte per remunerare, per circa 400 euro mensili, un solo dipendente carcerato in redazione ed adibito esclusivamente a fare il copia-incolla dei comunicati stampa ricevuti (infatti se si guardano le diverse testate online possiamo notare che gli articoli sono tutti uguali tra loro). Questo perché in rete non conta la qualità della notizia ma la velocità con la quale è stata pubblicata, una cosa che ha reso, di fatti, inutile il lavoro giornalistico e la preparazione dell’addetto, dato che il copia-incolla è un’attività che può benissimo essere svolta anche da un bambino delle scuole elementari ed infatti, molte volte, all’interno delle redazioni online si trova qualche ragazzo che non ha mai avuto esperienze giornalistiche o di scrittura. Molto peggio per quanto riguarda televisioni e radio, dove il giornalista si sente dire che può svolgere il lavoro ma se vuole guadagnare deve trovare degli sponsor e tenersi una piccola percentuale concordata, in poche parole si potrebbe dedicare esclusivamente alle attività di agente pubblicitario senza produrre servizi di informazione, tanto il suo guadagno sarebbe identico.

L’agricoltura

L’agricoltura è quel settore che, fino a qualche decennio fa, rappresentava la maggior parte di produzione di ricchezza nella zona. Dall’ultimo dopoguerra fino agli anni ’70, quando poi iniziarono ad essere utilizzati i primi mezzi meccanici a scapito della richiesta di manodopera divenuta quindi sempre minore, la campagna è stata anche il centro politico più attivo dell’economia locale grazie alle innumerevoli battaglie sindacali che portarono al miglioramento della qualità di vita dei lavoratori. L’unica usanza che si perse in quegli anni, e che qui è riportata non per la valenza socio-politica-economica ma per la curiosità del fatto, è che il giornaliero in campagna, oltre alla retribuzione, aveva diritto ad una bottiglia di vino, da consumarsi durante la pausa pranzo o durante i lavori, che poi è venuta meno in quanto i datori, sospettando che la bevanda rallentasse la produttività del lavoratore, iniziò ad annacquarla sempre più, tanto che i lavoratori stessi rinunciarono a questo “privilegio” non scritto a loro riservato da secoli. Durante i vari cicli storici, nelle campagne, non è mai mancato il lavoro. Nei periodi più scarsi ci si spostava, recandosi, a piedi o, i più fortunati, in bicicletta fino anche al vibonese. Invece, durante i periodi più floridi, la richiesta di manodopera eccedente la disponibilità locale veniva fornita dai “greci”, cioè da lavoratori provenienti dalla fascia jonica della provincia reggina che arrivavano nella Piana a piedi attraverso il Passo del Mercante, cioè la strada di montagna che da Locri sale per Gerace e da qui passa da Canolo per poi scendere a Cittanova (la cosiddetta “superstrada”, che tra l’altro può essere utilizzata solo da veicoli motorizzati, ancora non esisteva) e si accampavano alla meno peggio, nei paesi dove avevano riferimento per lavorare, e rientravano nelle proprie case alla fine della settimana per ritornare all’inizio della nuova.
Le colture che più hanno fatto la ricchezza del settore sono quello olivicolo e quello agrumicolo. Con gli agrumi si guadagnava così tanto che il ricavo di una fortuna era garantito anche col prendere un podere a “metati”, cioè a metà, ovvero metà ricavato andava al proprietario terriero e l’altra metà all’affittuario che, spesso, visto il guadagno, lo prendeva insieme a qualche socio. Il comparto raggiunse il picco dei guadagni durante il periodo delle cooperative. Ognuno conferiva il prodotto alle cooperative in quanto, queste, ricevevano dallo Stato un introito basato sul prodotto incamerato e che poi veniva diviso fra i soci che conferivano. In questo periodo si registrarono forti speculazioni dichiarando una quantità di prodotto superiore a quella incamerata e, durante i controlli, vi erano diversi escamotage per dimostrare la veridicità delle dichiarazioni (è il fenomeno delle cosiddette “arance di carta”). Il sistema non durò molto, tanto che adesso il contributo viene dato direttamente al proprietario terriero sulla base delle piante coltivate, viene quindi meno l’utilità delle cooperative (che comunque hanno dei costi) che si sono esinte quasi tutte a favore di un conferimento diretto del prodotto all’industria.

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Ma a frenare l’attività agricola non è stato questo, bensì il liberalismo commerciale governato dalle multinazionali. Queste, essendo società con filiali sparse su tutto il pianeta e sedi centrali dislocate presso paesi con imposizione fiscale a loro più favorevole, impongono il prezzo con il quale acquistare la produzione, dietro ricatto di acquistare in altri paesi a prezzi più convenienti (e ciò si pensa che potrà iniziare a capitare anche con l’olivicoltura dopo l’apertura commerciale senza dazi per l’olio algerino). Cosicché, per essere competitivi e non essere scacciati fuori dal mercato dai paesi sottosviluppati, si è dovuto cedere al ricatto di vendere il prodotto per pochi centesimi e col rischio che il guadagno non copra neanche le spese. E questo sia da premessa al discorso che segue, cioè allo sfruttamento perpetrato nell’agricoltura, un argomento oggi molto sentito a seguito delle condizioni in cui si è scoperto vivono gli immigrati dei ghetti di Rosarno e San Ferdinando, un argomento che è trattato da sempre in maniera molto insufficiente rispetto all’entità del problema che, oltre agli immigrati, coinvolge tante altre figure.

Il lavoro nel settore fa subito venire in mente la raccolta delle arance. Questo tipo di lavoro, considerato da sempre molto umile, negli ultimi tempi è stato demandato esclusivamente agli immigrati perché, durante il periodo del boom economico, i lavoratori italiani si potevano permettere di rifiutare questo tipo di impiego stagionale per svolgere altro. Ciò ha comportato che nella mentalità collettiva si è ormai fissata la convinzione che questo sia un lavoro per stranieri, cosicché nel caso un italiano chieda ad un proprietario terriero di essere chiamato per questo impiego, quest’ultimo si rifiuta convinto di fare a questo uno sgarbo, specie se il richiedente ha un titolo di studio superiore alla terza media. Lo stesso per i mandarini, ma non è invece uguale per la raccolta di altri prodotti (specie kiwi, la cui piantagione si è abbastanza diffusa in zona negli ultimi anni mentre risultava totalmente assente fino agli anni ’80-’90, e per la cui raccolta viene utilizzata anche manodopera locale).

Nella Piana, la giornata lavorativa nella raccolta delle arance, praticata, per il tipo della coltura, esclusivamente nei mesi invernali, dura dall’alba al tramonto, considerata la sosta per il pranzo, possiamo dedurre che anche qui la giornata lavorativa dura dieci ore o poco più. In media si guadagna 30 euro al giorno. Nel 2010, anno in cui il pagamento delle industrie ai produttori è stato uno dei più bassi, alcuni proprietari terrieri pagavano i lavoratori in base al peso raccolto, ovvero 2,5-3 centesimi a chilogrammo. Tuttavia, considerando che un lavoratore riesce a raccogliere in media 10 quintali al giorno, in tal modo si garantivano comunque 25 o 30 euro die.  Una situazione, anche qui, molto precaria, considerando anche quanto sia usurante questo lavoro tanto che tutti gli addetti a questa attività risentono di reumatismi e artrosi (patologie dell’apparato osteo-articolare che una volta insorte progrediscono inesorabilmente portando dolori atroci e invalidità), dovuta al fatto che il mercato è dominato per intero dalle multinazionali che impongono di acquistare il prodotto a pochi centesimi, così che il proprietario terriero è costretto a sfruttare i lavoratori col rischio di rimetterci anche, se non fosse per l’integrazione (così è chiamato in gergo il contributo statale) devoluto al proprietario terriero dallo Stato. Tuttavia, però, questo tipo di retribuzione è ormai esteso a tutti i tipi di coltura, anche per quelle più redditizie come il kiwi (ma anche il mandarino, anche se non agli stessi livelli), anche se quest’ultima, rispetto ai primi tempi, ha registrato qualche flessione in negativo sul mercato per l’estensione che in zona ha avuto la coltura, tuttavia la flessione è stata di poco anche perché, a quanto si dice, il kiwi della Piana possiede proprietà organolettiche particolari rispetto allo stesso frutto coltivato in altre zone.

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Ma il lavoro e lo sfruttamento in agricoltura non riguarda solo la raccolta. Analizziamo la situazione dei lavoratori all’interno delle industrie che raccolgono e lavorano il prodotto da vendere alle multinazionali. All’interno dei magazzini il lavoratore, che può essere straniero o italiano, lavora solitamente otto ore per una paga giornaliera di 30 euro dalle quali, a volte, va tolto il contributo previdenziale, a volte aggiunto. Ci sono delle situazioni in cui invece il lavoro è a cottimo, ed è qui che si registra il massimo dello sfruttamento. Un esempio sono alcune aziende che si occupano della lavorazione della buccia di agrumi per fare canditi. Le operaie, che devono lavorare con un grembiule e un paio di stivali per via dell’acqua che cola loro addosso nel mettere gli agrumi bolliti nei loro recipienti, sbucciano, con un coltello particolare e un taglio particolare, gli agrumi per ricevere un compenso di poco superiore ad un euro per ogni cassetta riempita di buccia e, dal totale, andava detratto giornalmente il numero di cassette necessario per pagare il contributo previdenziale, alla fine del mese, ognuna di loro portava a casa circa 100 euro.
L’accettazione di questo sistema è da collegare ai benefici relativi al contributo previdenziale che dà diritto al pagamento delle indennità di disoccupazione e malattia percepite dal lavoratore come integrazione, da parte dello Stato, al proprio salario, pur sapendo che in realtà sono dovuti quale compenso per la malasalute portata dalle condizioni di lavoro e per ammortizzare il periodo di disoccupazione nel periodo extrastagionale.
Risulta che gli unici ad avere un trattamento più giusto siano coloro che forniscono servizi all’agricoltura, cioè potatori, trattoristi et simili che lavorano otto ore nei campi al giorno e possono guadagnare fino a 50 euro die.

Per concludere l’argomento è doveroso fare un passaggio circa gli immigrati di Rosarno e San Ferdinando. Qui vive una comunità di immigrati africani divisi in due tendopoli (oltre a queste comunità trattate, vi anche è una comunità minore che vive nelle campagne ubicate tra Taurianova e Rizziconi e che qui non è presa in considerazione in quanto non porta elementi aggiuntivi per esaurire l’argomento). Al raffronto della popolazione delle tendopoli con quelle delle due città, possiamo affermare che c’è un immigrato ogni quattro abitanti. Il fatto che vivono in contesti appartati non aiuta all’integrazione, ma questo, probabilmente, è funzionale ad altro, cioè alla gestione dei migranti da parte dei capitribù. Difatti gli africani che si trovano stanziati tra Rosarno e San Ferdinando pare che giunti qui si mettono a disposizione dei capitribù, un ruolo che, quest’ultimi, probabilmente ereditano da qualche funzione avuta nel paese di origine. Qui, come è facilmente deducibile dal rapporto su visto tra popolazione autoctona e popolazione migrante, non c’è lavoro per tutti, quindi il capotribù decide i turni per chi deve andare a lavorare. Nonostante tutto, non mancano i mezzi per sopravvivere e mandare bei soldi a casa. In effetti associazioni e sindacati fanno pervenire, nelle tendopoli, cibo e indumenti (l’unica attività che possono svolgere, in agricoltura il problema sono le multinazionali, se non si sconfiggono quelle è impossibile pensare ad alcuna rivendicazione), così che, anche lavorando poco, ognuno ha da vivere e riesce a mandare a casa almeno quei 50 euro mensili che, nel paese di provenienza, sono una fortuna.
Da considerare che spesso i capitribù provengono dalla mala africana, così pare oggi risultare dalla cronaca e dalle attività investigative delle autorità (come anche che vi siano piccole schermaglie all’interno dei campi per la gestione degli stessi e, attualmente, pare abbia il sopravvento la mala nigeriana), infatti può essere ritenuto che alcuni episodi criminosi messi in atto qui dagli immigrati (nulla contro la popolazione locale, si tratta per lo più di spaccio di sostanze stupefacenti e prostituzione di immigrate) possano essere messi in campo da ordini dei capotribù a seguito di accordi loro con la mala territoriale. Possiamo così concludere affermando che gli immigrati subiscono sia lo sfruttamento del mercato agricolo che quello dei loro capi.

Il porto 

Il Porto di Gioia Tauro è una di quelle promesse fatte al territorio dopo i moti di Reggio Calabria del 1970. Una delle tante promesse destinate, come le altre, a non essere mantenute. Eppure, dopo decenni di pressione dal territorio, nel 1993, viene qui inaugurato uno dei più grandi porti commerciali d’Europa. Tuttavia si sdogana a Napoli e il retroporto che avrebbero dovuto, insieme al porto, creare occupazione, non è mai decollato. Infatti molte imprese del nord Italia hanno usufruito di ingenti contributi ma, una volta innalzati i capannoni, sono poi spariti nel nulla, molti anche prima di acquistare gli arredamenti. Così che non vi è stata alcuna assunzione e gli imprenditori hanno potuto godere tranquillamente dei soldi pubblici senza dover mai rendere conto a nessuno.
Di recente è stata istituita la Zes (zona economica speciale) che comporta sgravi fiscali alle imprese che vorrebbero aprire nell’area adiacente al porto, anche se è ancora in atto la burocrazia per poterla insediare (e chissà quanto bisognerà ancora attendere). Si tratta dell’evoluzione di quella che una volta era chiamato “porto franco” e mai concessa allo scalo gioiese nonostante le numerose richieste. Questa volta è stata concessa come contentino per i 377 licenziamenti dell’anno scorso. Ma non servirà a nulla e per diverse ragioni. Il sistema, così come istituito, è un favore solo alle aziende che riceveranno sgravi fiscali in cambio di uno sfruttamento sistematico dei lavoratori grazie alle nuove leggi sul lavoro che hanno inaugurato un nuovo sistema di contrattualizzazione basato sul precariato e sulla costrizione del lavoratore ad accettare qualunque cosa. Un sistema, tra l’altro, che consente all’imprenditore di licenziare senza alcun motivo l’impiegato (o non rinnovare il contratto) non più giovane per lo Stato e sostituirlo con uno di età inferiore e che gli garantisce di avere, dalla sua assunzione, ulteriori sgravi fiscali. Inoltre si tratta di una misura inutile in quanto questa, per creare crescita a beneficio dell’economia locale, dovrà essere prima collegata con le altre aree della Calabria attraverso un sistema di trasporto che garantisca lo smistamento delle produzioni autoctone, altrimenti sarà un’isola a sé stante ed inutile allo sviluppo della produzione calabrese. Un sistema di trasporto che deve partire dall’adeguamento del sistema ferroviario, specie da Rosarno in su, ma quanto previsto siamo sicuri che sarà funzionale a quanto serve davvero a ciò che si andrà a fare? E se si, quando avverrà questo adeguamento? Con gli stessi tempi atavici con cui si svolgono tutte le operazioni nel Mezzogiorno, rischiando che quando i lavori saranno finiti ci si ritroverà con infrastrutture vetuste? Intanto si parla anche di bacino di carenaggio, di cui ancora nulla si è visto e, anche qui, calcolando i tempi delle lungaggini burocratiche, si dubita che sarà completato, se lo sarà, nei tempi previsti. In tutto questo, tra l’altro, sembra oggi insufficiente il piano strutturale predisposto dalla Regione Calabria, mentre l’Autorità Portuale è ancora commissariata e un commissario può fare solo ordinaria amministrazione e non predisporre azioni per i cambiamenti di cui si parla.

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Un’altra azione che è stata fatta, per placare l’animo dopo i licenziamenti, è stata la revoca di una concessione fatta nel 2003 ad Mct (il terminalista che gestisce lo scalo) che nella pratica, più che rappresentare una punizione per una società che riduce la produzione, risulta una fonte di guadagno. Infatti la concessione revocata consiste in una striscia, per lo più interna, utilizzata per deposito container fuori sagoma e per quattro punti di scarico-carico container per camion e per la realizzazione di un nuovo fascio di binari per il gateway, e che trova sul mare un piccolo sbocco consistente in una banchina di 360 metri. Da ciò appare chiaro che su uno sbocco così piccolo, anzi minuscolo, nessun’altra società sarebbe interessata ad investire e sborsare denaro per la concessione di uno spazio pressappoco inutile. E ciò garantirebbe ad Mct che l’area interessata rimarrebbe a sua disposizione qualora intendesse nuovamente investire nel mentre, avendo revocata la concessione e non avendo quindi l’obbligo di pagare le dovute tasse per la concessione di detta area, risparmierebbe ingenti capitali. Cosa conveniente, per il terminalista, anche perché, attualmente, i 360 metri suddetti non vengono utilizzati come banchina, ma come deposito gru (attualmente parcheggiate, da anni, proprio di fronte alla direzione dell’Autorità Portuale) che, per lo meno, dovrebbero essere funzionanti, anche se utile sarebbe fare una verifica. Un tipo di garanzia, questa, che non è nuova a Gioia Tauro per Mct, infatti risulta già concessionaria di un’altra area che non gli è stata ancora consegnata perché ancora interessata da altri lavori e comunque è attualmente utilizzata come punto di stoccaggio auto da Blg e come posto di manutenzione per le navi Mcs. A questa vanno aggiunte altre due aree non utilizzate da Mct, ovvero quella dove insiste la vecchia ferrovia in uso a Mct e Blg, e una più piccola utilizzata in parte dalla Guardia di Finanza e dalla Dogana per effettuare controlli sui container, controlli che potrebbero benissimo farsi in altro posto. Insomma, la revoca delle concessioni del 2003 altro non rappresenta per il terminalista che un modo per garantirsi la gestione totale del porto risparmiando tasse sulle concessioni, un sistema che, come visto, conosce già molto bene.

Parlare del porto di Gioia Tauro, e di quanto questa struttura sta vivendo in questo periodo, non è una cosa molto semplice. Ma, partendo dal fatto che quasi tutti i porti d’Europa sono gestiti dalle stesse persone, possiamo assicurare che una riduzione di traffico nello scalo calabro rappresenta un aumento di traffico in un altro porto del continente gestito dalle stesse società. Per quanto riguarda specificatamente Gioia Tauro, la crisi attuale, considerando anche che si tratta di uno dei porti più grandi del continente ed ubicato in una delle migliori posizioni strategiche del Mediterraneo, sembra condurre ad una guerra fra le due società che gestiscono lo scalo per il totale controllo di esso e che di tanto in tanto si attaccano a vicenda a colpi di comunicati stampa. E questa guerra, che ha mietuto centinaia di lavoratori, tramite licenziamento, non avrà mai fine. Infatti la politica non sa come affrontare la situazione, tanto che ha cercato di accontentare l’opinione pubblica con Zes e promesse ma, all’epoca dei fatti, il ministro Del Rio ha strappato la vertenza al Prefetto di Reggio Calabria per trattarla di persona riuscendo (un vero fallimento!) a ridurre i licenziamenti di 23 unità, cioè da 400 a 377, mentre il Presidente della Regione Calabria, Mario Oliverio, promettendo sviluppo, ha avuto la brillante idea di uscirsene sulla stampa dichiarando che non capisce la motivazione degli scioperi. E, ancora oggi, nulla di nuovo si vede o fa intravedere speranza, neanche la revoca del commissariamento dell’Autorità Portuale.

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Intanto che ne è stato dei licenziati? Finita la possibilità di rinnovare la cassa integrazione, è stata istituita una Agenzia del Lavoro, un’invenzione dove tenere parcheggiati i lavoratori, in cambio di un ammortizzatore sociale di mille euro mensili per tre anni, con la promessa che con lo sviluppo del porto saranno riassunti e, intanto, di tenersi disponibili per delle chiamate a lavoro di breve periodo. Ma questa non funziona, in quanto nessuno ha pensato ai problemi burocratici che avrebbe creato la normativa nel momento che si decide di fare contratti con i singoli lavoratori, e non con l’Agenzia, per l’assunzione di personale a breve periodo. Così che a chi richiede manodopera conviene, sia in termini economici che di tempo e burocrazia, portare personale da fuori che, di fatto, non è impedito dall’istituzione dell’Agenzia.
Intanto aumentano gli incidenti dei lavoratori dentro lo scalo, forse sintomo che i licenziamenti sono eccessivi? Forse dopo i licenziamenti è cambiata anche la turnazione degli operai?
Intanto uno dei licenziati ha vinto il ricorso e deve essere reintegrato, al suo posto, probabilmente, sarà licenziato qualcun altro che, a suo volta, vincerà il ricorso e dovrà essere reintegrato a scapito di qualcun altro che, anch’egli, vincerà il ricorso e così via, dando vita ad una giostra senza fine di licenziamenti e reintegrazioni.

A mò di conclusioni

Quanto è in queste pagine non vuole essere una fotografia perfetta della situazione lavorativa nella Piana di Gioia Tauro, ma è il risultato di diverse esperienze che sono state raccolte nel territorio e che possono essere ritenute davvero valide, ma probabilmente questa è la fotografia della situazione nell’intera Regione Calabria.
Quello che si deduce è che nessun lavoro può garantire la sopravvivenza di un individuo, specie se questo non ha casa di proprietà e deve pagare un affitto che, nella zona, è abbastanza esoso (in media si parla di 300-400 euro mensili) e il prestito bancario per l’acquisto di un’abitazione, anche con buste paga in garanzia, non è più accessibile dopo il crack finanziario che interessato l’intero pianeta (diminuito di gran lunga anche l’accesso alle finanziarie, a cui molti hanno ricorso per più cose, anche piccole e stupide, in maniera così automatica che hanno rovinato la propria esistenza). Lo sfruttamento è così tanto che servono almeno due entrate, due persone che rinunciano alla totalità della propria giornata per poter vivere con standard intorno alla sufficienza. Gli unici che potrebbero arrivare a fine mese potrebbero essere le maestranze del settore edile ma, visto che i loro pagamenti sono sempre dilazionati dalla mancanza di liquidità, anch’essi stentano a vivere.
Uscire da questa situazione è difficile, non solo per la scarsa offerta di lavoro, ma per la mentalità di arrangiarsi, radicata da secoli e, tra l’altro, in un contesto di piccoli paesini dove tutti si conoscono e sono imparentati tra loro (si consideri che la città più grande è Gioia Tauro con poco più di 20000 abitanti), che costringe ad accontentarsi per lavorare per pochi soldi e con orari disumani, accettando perfino pagamenti dilazionati senza alcuna garanzia (infatti molte volte le spettanze non vengono saldate del tutto). Sconfiggere questa mentalità significherebbe aumentare le richieste di compenso riducendo l’orario di lavoro (cioè avere un salario congruo all’attività svolta per una giornata lavorativa che non vada oltre del normale) ed esigendo la puntualità di pagamento per le varie prestazioni. Non si pensi che ciò provocherebbe la riduzione delle attività occupazionali, le basilari leggi economiche dimostrano che nel breve periodo aumenterebbe la richiesta di lavoro e con questa la disponibilità di spendere delle singole famiglie, tanto che queste riuscirebbero a coprire i costi per le varie richieste di prestazioni e poter accantonare qualcosa per periodi di crisi o da utilizzare per altro.
Più complessa la situazione circa l’agricoltura. La competizione, fra diversi Paesi del mondo, a chi riesce a produrre meno è letale. Servirebbe qualcosa che induca a produrre, in tutti i Paesi, la merce a costi che possano essere equiparati, dare vita così a commerci a km zero e implementare le esportazioni di materie che non si trovano in tutte le aree del pianeta.
Il Porto, invece, deve essere salvato dalle multinazionali che fanno il cattivo e il brutto tempo, va nazionalizzato o dato in gestione ai lavoratori. La Zes può servire solo se utilizzata per dare spazio alla produzione artigianale locale e incentivare l’esportazione calabrese. Ma anche qui un problema di mentalità, Gioia Tauro non ha mai avuto una storia di commercio marittimo e il porto sembra un’isola a sé stante, bisogna coinvolgere bene il territorio.
Tutto ciò sembra impossibile, ma non lo è. Il problema è che dall’alto si è sordi alle istanze di un territorio povero e marginale, oppure si è totalmente ostili a queste istanze.