di FRANCESCO PAOLELLA (in Tysm.org,ottobre 2016)
Una volta era richiesto di credere alla favola secondo la quale era naturale stare (da subordinati) in una impresa come se si fosse una “grande famiglia”. Oggi, all’opposto, vivere in famiglia assomiglia sempre di più a lavorare in una impresa. La competizione, incentivare e “farsi incentivare”, la lotta fra vincenti e perdenti, l’invidia e la frustrazione trasformate in motore dell’economia, l’ossessione per i “beni posizionali”, ecc. ecc.: tutta l’esistenza deve essere pensata sempre più come una impresa. La vita in se stessa è colpita da un furioso riduzionismo: vigono solo i valori funzionali al mercato, i metodi e le parole propri del mondo economico e imprenditoriale: niente di più, niente di altro.
Luigino Bruni, che di mestiere si occupa di economia, ci presenta in questo piccolo libro un catalogo di valori inattuali, extra- e, per tanti versi, anti-economici. Ragionando cinicamente, si potrebbe vedere nella loro inattualità il definitivo disvelamento dell’assurdità di tutto ciò che di solito è definito come valoriale/morale/spirituale: il buono, il bello, il giusto sono ridotti al mondo dei libri, al mondo del passato, alla retorica delle parrocchie e delle accademie.
D’altra parte, forse soltanto per nostalgia o per suggestione, non è facile rassegnarsi al mondo: e anche se, per tanti versi, l’apocalisse è già alle nostre spalle, e rappresenta il nostro orizzonte, proprio quelle parole così antiche, che Bruni riporta alla cultura biblica, hanno ancora qualcosa da dirci. L’autore ci propone una specie di «guida alla speranza» (p. 89). Come a dire: non tutto è perduto!
Una via di fuga è possibile ed una “economia umana” può ancora salvarci. La soluzione consisterebbe appunto in una ritorno a quelle virtù extra-economiche, virtù che l’impresa non sa e non vuole riconoscere né suscitare: umiltà, compassione, gratuità, cooperazione, misericordia. Sarebbe necessario relativizzare il primato dell’efficienza e della produttività: purtroppo, tutto spinge nella direzione opposta, e senza incontrare resistenze. La monocultura dell’impresa ha avvelenato con le sue pseudo-virtù le altre culture con cui una società sta in piedi, vive e non solo sopravvive. La crisi antropologica che si è consumata negli ultimi decenni ha visto la contaminazione e il pervertimento di ogni ideologia che non fosse quella capitalista. E, lo ripetiamo, non ha dovuto affrontare vere resistenze. Quelle “piccole” virtù, però potrebbero funzionare come gli occhiali da sole usati dal protagonista di Essi vivono di Carpenter. Intanto, il nostro linguaggio si è impoverito al punto di non poter quasi immaginare modelli diversi dalle icone dominanti, e, in particolare, dall’idolo dell’individuo efficiente, competitivo e produttivo.
Bruni ci propone di scegliere una conservazione in nome dell’umanità, ci propone la ricostruzione di una grammatica umana. Il rischio, va da sé, è appunto quello di apparire dei “conservatori”; ed è quello di rifugiarsi nel moralismo per resistere all’impero, anche se è quasi certo che quella resistenza non sia più di una testimonianza imbelle.
Il miglior argomento di Bruni è poi, per così dire, utilitaristico. Anche le imprese, anche la finanza hanno comunque bisogno di quelle virtù, che d’altra parte disprezzano o, più semplicemente, ignorano. La lealtà non è una procedura o una tecnica che si possa imparare in una business school, anzi. Il senso del limite è necessario anche e soprattutto in economia, ma non è possibile educare ad esso in un contesto che vive in una perenne esaltazione adolescenziale. Scrive Bruni:
«Le organizzazioni non possono disporre delle virtù più importanti di cui hanno bisogno. Sono sagge quelle che accettano lo ‘scarto’ tra le virtù desiderate e quelle che riescono a ottenere dai loro lavoratori, e che quindi imparano a convivere con l’inevitabile indigenza delle qualità umane fondamentali per il loro funzionamento e la loro crescita, senza cercare di sostituirle con cose più semplici. La prima saggezza di ogni istituzione consiste nel riconoscere di non avere il controllo sull’anima dei propri membri – ogni virtù è prima di tutto una questione di anima» (p. 21).
Ecco la questione: quanto spazio c’è ancora per resistere alla competizione e alla dittatura degli incentivi? Quanta “anima” è ancora disponibile e libera? Bruni immagina in queste pagine una vera utopia: l’utopia della povertà. Per questo il suo libro sembra rimandare al celebre articolo di Goffredo Parise, Il rimedio è la povertà. Qui lo scrittore vicentino prende a schiaffi – siamo a metà degli anni Settanta – la nostra ideologia nazionale, la quale, «specialmente nel Nord, è fatta di capannoni pieni di gente che si getta sul cibo» (Goffredo Parise, Dobbiamo disobbedire, Adelphi 2013, p. 18). E che insiste: «Il nostro paese è solo un grande mercato di nevrotici tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere nulla, e poi buttano via e poi ricomprano. […] Il nostro paese è un’enorme bottega di stracci non necessari (perché sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori» (ivi, p. 20).
Anche Parise, qui davvero pasoliniano, pensa che l’antidoto sia appunto un ritorno alla povertà: un invito a riconoscere i beni necessari, a capirne il significato, a riscoprire la sobrietà (e, di conseguenza, la solidarietà). Povertà non è miseria: il punto, soprattutto oggi, è capire se l’alternativa per noi possa essere ormai solo la miseria. Se sia ancora possibile assaporare, se sia ancora possibile scegliere cosa comprare e come vivere:
«Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione» (ivi, p. 19). Forse, solo come consumatori possiamo ancora qualcosa.