di JASON MOORE e GENNARO AVALLONE (in Effimera, settembre 2019)
Tu stai sviluppando l’approccio dell’ecologia-mondo per comprendere sia la storia moderna sia il futuro delle nature umana ed extra-umana. Quali sono gli elementi principali di questo approccio?
L’ecologia-mondo è una collaborazione, un confronto. Si tratta di un confronto – tra studiosi, artisti, attivisti – sulla giustizia a livello planetario. Esso prende Marx seriamente in considerazione, ma rifiuta il concetto secondo cui ci sarebbe un “vero Marx”. Non c’è nessun Vero Marx, ma solo un Marx storico. Lo stesso è vero per altri grandi pensatori. Io penso che uno dei maggiori rischi della tradizione radicale si trovi nella tendenza a convertire le idee in credenze, e le credenze in oggetti sacri. Così, si va a difendere un oggetto sacro – il “socialismo in un solo paese” o “la classe operaia” – invece di coltivare una prassi rivoluzionaria.
Per il dibattito dell’ecologia-mondo, la mia speranza è che esso incoraggi e faciliti discussioni e sintesi utili per la giustizia planetaria nel XXI secolo. Io ho sempre ripetuto che alcune delle mie formulazioni saranno più utili di altre. Il mio approccio è stato quello di porre domande sulle lacune nelle interpretazioni radicali del cambiamento storico – incluso il presente come storia. Nel libro Capitalism in the Web of Life (2015), ho posto delle domande sulle connessioni tra i rapporti di dominio e sfruttamento e la storia ambientale. Come possono le critiche femministe, ambientaliste e marxiste essere rielaborate in una nuova sintesi? E come potrebbe esserci una sintesi generativa – generativa, cioè, di ulteriori ricerche, narrazioni, rappresentazioni, discussioni?
L’ecologia-mondo sviluppa accese discussioni e questo spesso porta verso inattese – anche scomode – direzioni! Troppi radicali hanno bisogno di essere “corretti”. Obiettivo dell’ecologia-mondo non è arrivare alla linea corretta e, quindi, difenderla. La nostra ambizione collaborativa è di aprire, appoggiare e sostenere confronti che generino conoscenza emancipativa per la giustizia planetaria. Questo significa, tra le altre cose, che noi abbiamo rinunciato alle certezze delle conoscenze passate. Queste conoscenze passate sono importanti e indispensabili. Allo stesso tempo, i modi di pensare che hanno creato la crisi planetaria odierna non ci porteranno verso la giustizia planetaria. Una prassi emancipativa deve ribadire che nessuno ha tutte le risposte e che risposte convincenti alla crisi planetaria sono per natura collettive.
L’ecologia-mondo non ha quindi mai riguardato la mia posizione su questa o quella domanda storica o teorica. È lontana da questo! La mia idea è che si tratti di una discussione tenuta insieme da un impegno a comprendere la storia umana – compresa la storia del presente – come co-prodotta con e all’interno di reti della vita. Esiste una filosofia della storia che considera la geografia storica delle reti della vita come condizioni ontologiche. Questo incoraggia un metodo storico che si chiede come le organizzazioni umane di potere, produzione e riproduzione non sono solo produttrici di queste reti della vita, ma sono anche prodotti di esse. Fondamentalmente, noi chiediamo: come le relazioni umane sono configurate con e dentro la natura nel suo insieme?
Questa è una filosofia degli umani nella rete della vita dal carattere orizzontalista. Essa ha implicazioni pratiche. Forse il fatto maggiormente significativo è che questa filosofia sfida le visioni della liberazione umana che considerano la rete della vita come secondaria.
C’è stata una lunga storia di progetti socialisti che hanno trattato la natura come una risorsa produttivista. Ci sono molti pericoli in questo, uno dei quali è che la Natura non si limita mai alla natura extra-umana; essa include sempre le popolazioni umane. Si noterà parlo di Natura con la lettera maiuscola. Questa idea – Natura – è sempre in contrasto con Società, Civiltà, o altri concetti simili. Ma questa è più di un’idea. È una pratica. Ed è una prassi: quella di dominare gli umani, non solo i suoli, i corsi d’acqua, i campi e le foreste. In altre parole, Natura è – e lo è dal 1492 – un progetto di classe, un progetto imperiale che ha fuso la produzione di “plusvalore” con l’esercizio di “pluspotere”.
L’ecologia-mondo, quindi, prende molto sul serio la storia dell’ideologia e del dominio culturale. Io non penso che questa storia sia separata dalle devastazioni della rete della vita da parte del capitalismo; né penso che possiamo dare un senso alla razza, al genere e alla sessualità astratti dai feticci storico-mondiali di Natura e Civiltà. Fondamentale per l’ecologia-mondo è l’affermazione secondo cui i modi moderni di pensiero e cultura, potere e accumulazione costituiscono una totalità in evoluzione. Nella mia visione, l’emergenza del capitalismo può essere compresa adeguatamente solo in questi termini.
Penso che il ruolo delle lotte di classe e del cambiamento economico sia ben compreso, quindi lasciatemi semplicemente concentrarmi sulla geocultura emergente del capitalismo. La geocultura del capitalismo, l’economia geopolitica e l’antagonismo sistemico di classe sono tutti momenti di questo insieme in evoluzione, in cui ogni momento implica relazioni specifiche con reti della vita. Questa geocultura si è basata su due logiche rinforzanti. Una è la logica del codice binario e la sua prima espressione fu l’affermazione ontologica Civiltà vs. Natura. L’altra è stata la logica dello strumentalismo, necessaria se (alcuni) umani desideravano trasformare la maggior parte degli umani e il resto della natura in opportunità per fare profitto. Dall’inizio del capitalismo, “dominare e trarre profitto” è stato unito dialetticamente con “definire e governare” (Mamdani, 2012).
La geocultura del capitalismo va ben oltre il dualismo Civiltà-Natura. Dopo il 1492, la sua logica animatrice si è rapidamente intrecciata con le separazioni binarie del genere, della razza e della sessualità e si è rapidamente combinata con le strategie di governo imperiale e l’accumulazione di capitale. Quando dico che il capitalismo funziona attraverso un codice binario, sto evidenziando una prassi specificamente capitalista. Cioè, la prassi del capitalismo è un’unità di pensiero e azione che si sviluppa storicamente attraverso la ricompensa delle pratiche che consentono – e la punizione delle pratiche che ostacolano – l’accumulazione senza fine di capitale. Questa prassi è una fabbrica geoculturale di feticizzazione. Essa frammenta la realtà, ponendo segmenti di codice binario e, poi, usando tali frammenti per dominare, appropriare e sfruttare.
Civiltà e Natura – ancora in maiuscolo – sono astrazioni reali. La loro forza risiede nel grado in cui l’uno per cento agisce come se esse fossero reali e nel grado in cui il 99 percento accetta la loro realtà. Le astrazioni reali Civiltà/Nature possono essere comprese come un’espressione storico-mondiale dell’alienazione sotto il capitalismo. Ma questa non è l’unica forma di alienazione. Non appena osserviamo la storia di questa geocultura, vediamo che il confine tra Civiltà e Natura è intimamente connesso al mondo del colore e alle linee di genere. La razzializzazione e la genderizzazione (gendering) dei rapporti di lavoro, in corso dal 1492, sono passate attraverso – e, a loro volta, si sono rafforzate – le astrazioni reali di Civiltà e barbarie. Il linguaggio della civiltà e barbarie ha sempre formato un tipo di “materia prima” discorsiva per discorsi e pratiche razziste, sessiste e omofobe. Come sottolinea Silvia Federici (2004), le donne sono diventate i “selvaggi d’Europa” nel primo capitalismo, mentre la loro attività vitale è stata ridefinita come non lavoro. Le donne divennero “naturalmente” adatte per essere madri e addette alla cura: un tipo di lavoro che non ha bisogno di essere ricompensato come lavoro. Ovunque nel mondo atlantico, i non europei – africani, popolazioni indigene, schiavi, irlandesi – furono ridefiniti come selvaggi. Essi furono assegnati alla Natura, non alla Civiltà: così le loro vite ed il loro lavoro potevano meglio divenire a buon mercato.
L’approccio dell’ecologia-mondo è collegato sia all’analisi del sistema-mondo sia alla teoria della frattura metabolica. Quali sono, secondo te, le principali somiglianze e differenze tra l’ecologia-mondo e questi altri approcci?
Queste sono due tradizioni che hanno aiutato il mio pensiero, ma esse non sono le sole, e non in ogni caso le più importanti.
L’analisi del sistema-mondo è cruciale per due ragioni fondamentali. La prima è che Wallerstein ci ha mostrato una via per riscrivere la storia del mondo dal punto di vista della filosofia delle relazioni interne. Difficilmente si legge il capolavoro di Wallerstein, The Modern World-System I (1974), e quando si legge spesso ci si ferma dopo un paio di capitoli. Questo è il motivo per cui molti dicono che questo testo ruota tutto intorno alla questione della produzione per il mercato mondiale. Se lo si legge, si scopre che non è affatto così, nonostante la formazione del mercato mondiale sia importante (non lo era anche per Marx?).
L’approccio di Wallerstein è fondamentalmente in contrasto con la tendenza degli scienziati sociali a costruire modelli. Infatti, Wallerstein non offre un “modello di capitalismo”, ma piuttosto solo alcune premesse basilari – innanzitutto, quello a cui si assiste è un cambiamento epocale nel lungo sedicesimo secolo, che genera una divisione del lavoro interdipendente e trans-atlantica.
È una storia del mondo connettiva. In The Modern World-System I si incontrano analisi sul cambiamento climatico, la lotta e la struttura di classe, la formazione dello Stato, la costruzione degli imperi, le trasformazioni dei suoli, delle diete e delle foreste e la formazione del mercato mondiale moderno. Si tratta di una storia del mondo situata: una storia del mondo tra molte possibili. E infine, come ho suggerito, si tratta di una storia del mondo che prende sul serio la geografia e la rete della vita.
L’analisi del sistema-mondo è generativa anche per un’altra ragione. Wallerstein la chiama analisi dei sistemi-mondo perché è proposta come un modo di analisi e, soprattutto, un “non pensato” della scienza sociale del diciannovesimo secolo. Centrale nell’analisi dei sistemi-mondo è stato lo studio delle “strutture di conoscenza” della modernità. Questa ricerca collega la critica epistemologica con le strutture istituzionali, tra le quali il modo in cui le nostre università e discipline sono organizzate. In questa luce, l’analisi dei sistemi-mondo è sempre stata una critica delle discipline e una critica dell’interdisciplinarità. È stata una critica soprattutto di uno dei principi di governo della scienza sociale, la divisione tripartita della conoscenza in socio-culturale, politico, economico.
Wallerstein, e prima di lui Fernand Braudel, è stato sempre consapevole che questa critica si svolgeva sullo sfondo di ciò che C.P. Snow (1959) ha chiamato le “Due Culture” delle scienze umane e biofisiche. L’ecologia-mondo considera questa struttura duratura della conoscenza – le Due Culture – come una delle sue sfide centrali. Ho sostenuto che per quelli di noi che lavorano nelle università, dobbiamo essere “dentro” ma non “del” sistema accademico; dobbiamo rifiutarci di essere custodi delle discipline, le quali sono parte del problema. Rifiutandosi di vedere la “natura” come un componente aggiuntivo del “cambiamento sociale”, l’ecologia-mondo apre lo spazio a nuove forme di conoscenza che privilegiano l’unità differenziata degli umani nella rete della vita – compresa da più punti di vista e nelle sue forme emergenti (non lineari).
Naturalmente ci sono molte correnti intellettuali che stanno lottando con il problema delle Due Culture. Vorrei sottolineare il lavoro rivoluzionario di Rebecca Lave e dei suoi colleghi attorno alla “geografia fisica critica”, nonché la straordinaria tradizione di scienza dialettica associata a Robert M. Young, il compianto Richard Levins, Richard Lewontin e, più recentemente, Rob Wallace. Donna Haraway, Carolyn Merchant e altre brillanti pioniere nella scienza femminista e negli studi ambientali che hanno sfidato le Due Culture da una prospettiva diversa ma ugualmente significativa. L’ecologia-mondo impara da tutti questi movimenti.
Ciò che l’ecologia-mondo mette in primo piano in modo distintivo è il carattere storico-mondo di queste relazioni tra umani nella rete della vita. Non si dovrebbe “aggiungere” la natura alla classe, al colonialismo o al patriarcato. Piuttosto, ciascuno di questi grandi processi è co-prodotto nella e attraverso la rete della vita. Questo ci consente di mostrare come il capitalismo sia contemporaneamente produttore e prodotto della rete della vita.
Il libro Capitalism in the Web of Life è stato ispirato, in parte, dallo sforzo di sintetizzare due argomenti classici che sono apparsi alla fine del secolo scorso. Uno era il testo Marx’s Ecology (2000) di John Bellamy Foster. L’altro era il testo Marx and Nature di Paul Burkett (1999). Il libro di Foster ha aperto nuove possibilità per ripensare la geografia storica del capitalismo come relazione metabolica, che è stata un produttore e un prodotto di classe, capitale e impero. In Marx’s Ecology, Foster offre una potente concettualizzazione delle contraddizioni metaboliche del capitalismo, fondata sull’alienazione del lavoro e sulla divisione del lavoro tra città e campagna. Questo apre lo spazio a una delle preoccupazioni centrali dell’ecologia-mondo: sintetizzare le relazioni socio-spaziali del capitalismo con le sue contraddizioni metaboliche. Il contributo di Burkett è stato quello di rendere impossibile qualsiasi tentativo di pensare attraverso la “legge del valore” di Marx astratta dalle sue dimensioni biofisiche. Nessuno di questi testi era molto preoccupato della storia mondiale del capitalismo.
Questo non è un difetto per nessuno dei due testi. La storia mondiale non era necessaria per i loro rispettivi argomenti. L’intenzione chiave di Capitalism in the Web of Life era, quindi, duplice. In primo luogo, volevo basare la legge del valore su una contraddizione metabolica – qualcosa che Marx ha sempre fatto, riferendosi costantemente al lavoro umano come ad una “forza naturale”. In secondo luogo, speravo di mostrare come questo antagonismo si sia svolto attraverso la geografia storica del capitalismo dal 1492. In questo approccio, il metabolismo includeva flussi di corpi, potere e merci.
Trovo un po’ doloroso discutere la risposta di Foster a questi argomenti. Da un lato, come ho scritto molte volte, l’approccio delle frattura metabolica fu molto innovativo. Esso resta un’analisi di rilievo per la ricerca critica. Io non concordo pienamente con l’analisi della frattura; ma queste sono questioni di disaccordo amichevole. Dall’altro lato, John Bellamy Foster ha risposto alle mie critiche in un modo molto diverso. È un attacco volto a fare terra bruciata. Per Bellamy Foster, non essere d’accordo con Foster significa rifiutare Marx e abbandonare il materialismo. Una delle cose più tristi della risposta di Foster è stata la sua totale mancanza di interesse per il dialogo. Foster ha costantemente rifiutato gli inviti a discutere tali questioni, risalendo al 2008. Nell’autunno del 2015, circa nove mesi prima che mi denunciasse come amico dei negazionisti del clima, gli inviai una e-mail in cui sostanzialmente ho detto questo: è chiaro che ci sono significative differenze tra le nostre posizioni, e c’è il pericolo che possano sorgere non-dibattiti controproducenti, il tipo di non-dibattito in cui i marxisti parlano l’uno con l’altro e si attribuiscono ogni sorta di insulti. Allora, ho detto: organizziamo un dialogo in cui possiamo dare forza alle nostre differenze, ma anche elaborare un impegno condiviso per il socialismo e la giustizia planetaria. Finora, Foster ha scelto l’invettiva ad un dibattito tenace e ha rifiutato ogni singolo invito.
Ora, il mio atteggiamento è divenuto molto diverso. Ho elogiato Foster e gli approcci della frattura metabolica molte volte. Foster non finge neanche che l’ecologia-mondo in qualche forma abbia qualcosa di utile da dire (così, quando dico che Foster è un dualista, penso che ci siano delle prove di questo nelle sue modalità intellettuali e politiche. Per Foster, invece, “o sei con me o contro di me!”). La mia posizione è che la scuola della frattura metabolica non è sufficientemente dialettica, geografica e storica. Queste sono differenze serie. Ma esiste anche un impegno condiviso per i principi socialisti fondamentali di giustizia, uguaglianza e sostenibilità. La posizione di Foster è che io sono un nemico del socialismo. Questa è una modalità intellettuale che fa derivare differenze politiche fondamentali dalle nostre differenze analitiche. Si tratta di una tendenza con una storia sgradevole nei progetti socialisti del ventesimo secolo. Per me, invece, possiamo differire su questioni che riguardano Marx, l’economia politica e la storia ambientale e, tuttavia, essere ancora d’accordo sulla politica socialista.
Nell’approccio dell’ecologia-mondo il concetto di natura sociale astratta è fondamentale. Puoi approfondire il suo significato? Inoltre, questo concetto è collegato alla questione generale del valore. Nella tua analisi evidenzi uno dei lati oscuri del valore: il valore-negativo. Puoi squadernare per noi il suo carattere di novità storica?
Ci sono in realtà tre domande qui, sulla natura sociale astratta, sulla legge del valore e su qualcosa che ho chiamato “valore-negativo”.
Il concetto di natura sociale astratta è euristico. Il suo contributo essenziale è duplice. Uno pone un punto fondamentale su ciò che Engels chiamava “doni gratuiti della natura”. Qui non sto prendendo in considerazione Engels, ma voglio sottolineare che la natura non è mai gratuita né donata. Questa è la mia posizione quando dico nelle discussioni che “il 1492 non è mai finito”. La maggior parte del lavoro della natura è non pagato, rubato e pagato con sangue e fuoco. Il processo di prendere elementi della natura e di alimentarli nel vortice dell’accumulazione mondiale non è mai stato semplice e ha sempre richiesto l’applicazione di violenza e terrore enormi.
Quando dici che la natura sociale astratta è fondamentale per l’ecologia-mondo, penso che ci sia una verità in questo. Ma essa non è una categoria “fondamentale” in qualche modo separata dalla concezione del valore di Marx. È una concezione radicata in un’esplorazione storica e geografica di come il “valore” funziona nel capitalismo storico. Altrimenti, è una metafisica.
In genere, la questione del valore è stata ridotta alla tecnologia, all’immediato processo di produzione e ai rapporti di denaro nel lavoro. Questi sono importanti. Ma il tempo di lavoro socialmente necessario è anche determinato nelle e attraverso le relazioni di dominio. La condizione per cui un determinato lavoro – il lavoro nell’economia monetaria – viene considerato è che la maggior parte del lavoro non lo è. Una concezione del plusvalore nel capitalismo che non incorpori le lotte sul surplus di potere e sul lavoro delle reti della vita è improbabile che sia una guida convincente per l’analisi o la pratica politica.
Noi sappiamo già questo sul lavoro a buon mercato e sulle popolazioni umane sotto il dominio coloniale. Il capitale non si confronta con le popolazioni umane nelle colonie come “pronte al lavoro”. Esse devono essere costrette a lavorare per il capitale. Ma il capitale non ha né la capacità né l’interesse per farlo. È troppo costoso. Entra, allora, lo Stato moderno, o qualcosa di simile ad esso. Parte di ciò che gli Stati fanno è applicare la forza. Un’altra parte di ciò che gli Stati e gli imperi fanno è mappare e indagare i territori di potenziale profitto. Questo è stato fondamentale per trasformare la rete della vita in una macchina produttrice-di-profitto. Una delle prime cose che ogni grande impero europeo ha fatto è stata la creazione di uffici di mappatura e cartografia e di giardini botanici. La rete della vita non è un deposito di valori d’uso preesistenti pronti per essere utilizzati dal capitale. I valori d’uso devono essere prodotti. In agricoltura, ad esempio, i valori d’uso implicano quantità straordinarie di lavoro umano ed extra-umano. La natura, in altre parole, non è automaticamente utilizzabile dal capitale.
Ci vuole lavoro per rendere utili al capitale gli elementi della rete della vita. Gli Stati devono co-produrre unità della natura che siano utilizzabili dal capitale: quindi, la natura sociale astratta. I regimi di proprietà borghesi evidenziati dai marxisti politici sono un esempio di questo processo: la “terra” non potrebbe essere messa al lavoro per il capitale senza uno Stato moderno che possa imporre la legge di proprietà borghese, che a sua volta è pensabile solo attraverso l’agrimensura, l’astrazione di parcelle vive di terra in unità astratte di proprietà. Ma tutto ciò che ho appena detto sull’agrimensura e sulla proprietà borghese si può dire della moderna creazione di mappe e del territorio globale. È impossibile esagerare il significato della moderna cartografia per l’ascesa del capitalismo – o, del resto, il significato della sorveglianza planetaria e dei sistemi di mappatura organizzati dall’Impero americano dopo la seconda guerra mondiale. La mappa moderna – si pensi alla proiezione di Mercatore del 1569 – fu un’invenzione epocale il cui significato è pari, o addirittura superiore, a quello del motore a vapore.
Non entrerò in tutti i dettagli qui di seguito, ma la mappatura moderna parla di un secondo contributo della natura sociale astratta. Questo evidenzia la specificità storica delle relazioni del capitalismo tra lavoro mentale e lavoro manuale, tra il pensiero e l’azione, in termini storico-mondiali. La mappatura e la matematica moderne hanno contribuito a un capitalismo emergente nel lungo sedicesimo secolo, consentendo la separazione storico-mondiale del lavoro mentale e manuale. C’è una linea retta che conduce da questi sviluppi del sedicesimo secolo alla proliferazione di “armi di distruzione matematica” (O’Neil, 2016) finanziarizzate e all’anello di satelliti intorno alla Terra impegnati a mappare e rimappare ogni angolo dello spazio planetario. Ciò che è cruciale in questa discussione è che tali sistemi tecnici non possono essere ridotti al loro contenuto “materiale”; essi esprimono l’antagonismo di pensiero e pratica nel capitalismo storico. Quindi, quando parlo di qualcosa chiamato “dualismo cartesiano”, sto dicendo che Cartesio ha dato espressione filosofica a questo antagonismo storico-mondiale, che si è andato sviluppando per quasi due secoli dal diciassettesimo secolo.
Parliamo ora in merito alla “legge del valore”. Se accettiamo che il “tempo di lavoro socialmente necessario” determina il valore delle merci, allora dobbiamo espandere i nostri orizzonti sociali e geografici al fine di comprendere cosa determina il tempo di lavoro socialmente necessario. È chiaro che i rapporti tecnici e di lavoro nell’ambito della produzione – nei campi, negli uffici, nelle officine – sono importanti per determinare il tempo di lavoro necessario. È anche molto chiaro, però, che i rapporti di valore si estendono ben oltre l’ambito immediato della produzione. Per tanto, ho accettato l’intuizione femminista secondo cui il tempo di lavoro necessario è determinato dal lavoro non retribuito.
Per le femministe, questo è stato in netta prevalenza il lavoro di riproduzione sociale in casa. Ho anche accettato le intuizioni degli studiosi di studi agrari critici sulla semi-proletarizzazione e sulle riserve di manodopera a buon mercato. Fondamentalmente, se le famiglie possono riprodursi attraverso l’accesso a un reddito non salariale o non in denaro, come quando una famiglia contadina conserva l’accesso ai terreni coltivabili mentre invia alcuni membri al lavoro salariale, allora la soglia salariale minima viene corrispondentemente ridotta (ricordiamo che questo è anche in gran parte il caso del lavoro non retribuito delle donne). Infine, ho visto che il tempo di lavoro necessario è stato anche modellato dal lavoro delle nature extra-umane. Questo è il punto relativo a Marx nel quale egli parla delle cascate e del surplus di profitto o della fertilità del suolo che “agisce” come capitale fisso. Questo è fondamentale per la lunga storia dell’agricoltura capitalistica, radicata nel moderno complesso delle piantagioni di schiavi/zucchero. Ogni nuova fase del complesso delle piantagioni di zucchero è dipesa da straordinari movimenti di frontiera per avvantaggiarsi della fertilità del suolo, delle foreste non capitalizzate e così via.
Assumere il valore come premessa metodologica mi ha permesso, quindi, di rafforzare le connessioni vitali tra lavoro monetizzato, riproduzione sociale e rete della vita.
C’è un altro punto chiave nella discussione sul valore. La “legge del valore” del capitalismo deve essere colta in due dimensioni. Una è il momento dell’accumulazione di capitale. L’altra è la legge del valore come progetto etico-politico. Le due sono fondamentali l’una per l’altra. Questo secondo momento riguarda il modo in cui il capitalismo valorizza – e svalorizza – la vita e il lavoro. Ciò significa che dobbiamo trattare come fondamentali, ad esempio, la razzializzazione e la genderizzazione del lavoro nell’ascesa del capitalismo (e sin da allora!). Le geoculture del dominio – della supremazia capitalista bianca e del patriarcato – emersero nella loro forma moderna e dualistica nel lungo sedicesimo secolo. Non è solo il fatto che la moderna genderizzazione del lavoro – tale che le donne sono state ridefinite come non lavoratrici – e il razzismo moderno “accompagnano” l’era dell’accumulazione originaria; ma soprattutto, il fatto che essi costituiscono l’accumulazione originaria e la formazione di relazioni-di-valore sistemiche del lavoro pagato e non pagato.
Le astrazioni reali di Civiltà, Natura, Razza, Genere e Sessualità prendono forma non solo come progetti di dominio, di “surplus di potere”, ma anche come progetti di Natura a buon mercato e plusvalore. Ciò significa, ad esempio, che il razzismo, il sessismo e il colonialismo moderni svalorizzano il lavoro della stragrande maggioranza degli umani per ridurre meglio il tempo di lavoro necessario incorporato in ciascun proletario. Trattare il lavoro femminile come “lavoro delle donne” equivale a ridurre i salari per il proletariato mondiale e aumentare i profitti dell’Uno per cento. Non è forse questa la storia mondiale dell’industrializzazione del Sud globale dagli anni ’70, con la “lavoratrice usa e getta del Terzo mondo” al centro (Wright, 2006)?
Con riferimento al concetto di valore-negativo, esso è un’idea emersa da questa lettura dell’ecologia-mondo della legge del valore. Il valore-negativo è un tentativo di nominare e narrare contraddizioni di un nuovo tipo, emergenti nel tardo capitalismo. Il valore-negativo parla di una serie emergente di limiti – in particolare i cambiamenti climatici – che non potevano essere affrontati attraverso le vecchie strategie di risoluzione delle crisi. Alcuni critici hanno affermato che io ho ignorato la biosfera nel mio libro e ho ridotto tutto al prezzo, ma in realtà l’intero libro è costruito sull’argomentazione opposta, secondo cui il cambiamento climatico si intreccia con altre contraddizioni in modo da creare le condizioni di una crisi epocale. Il valore-negativo, quindi, non riguarda la sottrazione (come in un libro mastro), ma la negazione.
Il concetto di valore-negativo, quindi, può essere compreso come una barriera all’accumulazione di capitale che non può essere fissata sul modello “abituale” degli ultimi cinque secoli. La fine dell’Olocene, introdotta dalla carbonizzazione radicale dei beni comuni atmosferici da parte del capitale, è un esempio paradigmatico (ma non l’unico). I mezzi tecnici per un’immediata transizione alle energie rinnovabili esistono – come hanno dimostrato il brillante Andreas Malm (2018) e altri. Eppure, una simile transizione non è in nessun luogo all’orizzonte. Perché? Perché il modello di cinque secoli di capitalismo è spietatamente anarchico e competitivo.
Esso si basa anche su un modo di pensare che prima frammenta poi connette. Tale frammentazione non consente al capitalismo “illuminato” di risolvere la crisi climatica, perché la crisi climatica è una crisi complessiva che non può essere “riparata” attraverso misure parziali. Questo è il contributo penetrante di Elmar Altvater sulla relazione tra geo-ingegneria e cambiamento climatico. Noi abbiamo a che fare con una crisi olistica che – se si desidera una transizione sostenibile e giusta – richiede una politica olistica. E questo è esattamente ciò che stiamo iniziando a vedere, in una famiglia di movimenti che collegano lavoro, indigeni, clima e giustizia alimentare – secondo un elenco che è tutt’altro che esaustivo! (Sono sbalordito dai critici che insistono – senza nemmeno uno straccio di prove – sul fatto che l’ecologia-mondo appiattirebbe queste differenze). Questi movimenti e rivendicazioni sono parte di una nuova politica ontologica che vede la vita e la giustizia, il potere e la produzione, come fondamentalmente connessi nelle e attraverso le loro differenze. Non è necessario essere romantici al riguardo. Naturalmente, ci sono molti problemi con tali movimenti. Ma la tendenza a connettere le rivendicazioni di giustizia sociale ed economica, democratizzazione e sostenibilità planetaria è estremamente significativa. Tali movimenti sono essi stessi una forma di valore-negativo.
Infine, in molti articoli hai scritto sulla crisi finale dell’ecologia-mondo capitalistica. Puoi articolare la tua ipotesi sulla transizione ad un’ecologia-mondo post-capitalista?
Il capitalismo non è più eterno di qualsiasi altra civiltà. Le crisi – intese come punti di svolta fondamentali nel modo di pensare, nel potere e nella ri/produzione di una civiltà – sono inevitabili. Ma questo non ci dice molto su quando e dove le crisi si svolgeranno e delle politiche di crisi della civiltà.
Il mio pensiero è passato attraverso tre domande generali. In primo luogo, quando e dove si vedono precedenti crisi sistemiche all’interno del capitalismo e tra modi di produzione (ad esempio, tra feudalesimo e capitalismo)? In secondo luogo, come sono state risolte le precedenti crisi del capitalismo? E, in terzo luogo, come queste crisi si sono dispiegate attraverso la rete della vita?
Inizio con un’osservazione: la fine del lungo periodo dell’Olocene di un clima relativamente favorevole rende distinta l’attuale crisi di civiltà. Il cambiamento climatico di oggi oscura i precedenti momenti di cambiamento climatico nell’Olocene. Esso fa parte di ciò che gli scienziati del sistema terrestre chiamano un cambiamento di stato (state shift): un cambiamento improvviso, irreversibile e fondamentale nelle condizioni della rete della vita.
Una delle intuizioni che ho raccolto dalla lettura della scienza del clima negli ultimi due decenni è che il cambiamento climatico è non-lineare e che i modelli per dare un senso a tale non-linearità vengono costantemente rivisti in modi importanti. Non sono sicuro che i radicali siano stati altrettanto disposti a rivedere i loro modelli dei cambiamenti non-lineari che si stanno verificando proprio sotto i nostri occhi: il valore negativo è un esempio di tale non-linearità. Ciò significa che le lezioni del cambiamento climatico e della crisi di civiltà nell’Olocene non possono essere semplicemente proiettate nel futuro. Né possono essere ignorate.
Venire a patti con il cambiamento di stato nella biosfera richiede un cambiamento di stato nel modo in cui pensiamo e agiamo con gli altri umani nella rete della vita. Richiede un cambiamento di stato intellettuale e, naturalmente, un cambiamento di stato politico. Per fare ciò, abbiamo bisogno di lasciare andare alcuni oggetti sacri, soprattutto quelli di Natura (ecologie senza umani) e Società (umani senza ecologie). Queste categorie non sono semplicemente strumenti di dominio epistemico, ma sono strumenti di dominio pratici, reali di dominio: essi sono astrazioni reali complici nelle successive ondate di ecocidio e genocidio del capitalismo.
Questo dualismo Umano/Natura incoraggia i popoli a sopravvalutare la resilienza del capitalismo. Perfino molti radicali trasformano il capitalismo in una forza sociale al di fuori della rete della vita. L’esito è che il capitalismo diventa un potere soprannaturale capace di resistere al rapido cambiamento climatico. E se alcuni capitalisti faranno incassi su disastri e spossessamento, non c’è dubbio che il cambiamento climatico è dannoso per il sistema nel suo insieme. Il cambiamento climatico segna un’implosione del modello della Natura a buon mercato (Cheap Nature) che ha governato la vita moderna, il potere, l’accumulazione e la razionalità per cinque secoli. Non da ultimo, ma certamente non da solo, il cambiamento climatico promette un’inversione drammatica, brusca e irreversibile.
Uso qui la parola inversione, ma è molto più non-lineare. Non si stanno chiudendo ora le frontiere della Natura a buon mercato, il che è abbastanza vero. Piuttosto, è che l’intera strategia del potere e della produzione del capitalismo si è basata sulla rete della vita che offre Natura a buon mercato, e questa strategia si sta ora invertendo. La rete della vita – che include attività umane di ogni tipo e la più ampia gamma di movimenti per la giustizia – si sta spostando dall’essere un enorme attivatore dell’accumulazione di capitale all’essere una barriera fondamentale. Questa transizione, da frontiera a limite, è il passaggio dal plusvalore al valore-negativo. Questo limite, vorrei sottolineare, si trova nei tessuti connettivi tra il capitalismo e la rete della vita nel suo insieme. Lungi dal far collassare il momento biosferico nelle contraddizioni del capitalismo, tale visione presenta il cambiamento di stato planetario come un momento epocale nella crisi del capitalismo.
Negli ultimi 4000 anni circa, i cambiamenti climatici e le crisi di civiltà sono andati insieme. Possiamo vedere questo legame nella crisi delle civiltà dell’età del bronzo del Mediterraneo intorno al 1200 a.C.. La fine dell’Optimum climatico romano – ad un certo punto nel secondo secolo – fu seguita dalla crisi del terzo secolo di Roma e dalla grande ondata finale di invasioni “barbariche” nel quarto e quinto secolo, culminata nel collasso dell’Impero occidentale. Vale la pena notare che le invasioni barbariche del IV-V secolo iniziarono nel mezzo di una delle peggiori siccità dell’Eurasia negli ultimi 2000 anni. La crisi del feudalesimo fu strettamente legata all’inizio della Piccola era glaciale nel XIV secolo. E probabilmente la più grande crisi del capitalismo (finora) – la “crisi generale” del diciassettesimo secolo – si è verificata durante il tratto più sfavorevole della Piccola era glaciale (1550-1700 circa).
La capacità del capitalismo di svilupparsi attraverso il clima rigido del lungo e freddo diciassettesimo secolo – intensificato dai genocidi del Nuovo Mondo e dall’Orbis Spike (Maslin e Lewis, 2015) – è istruttiva. Contrariamente alle crisi alimentate dal clima dei lunghi quarto e quattordicesimo secoli – segnate dalla “caduta di Roma” e dalla crisi feudale – non vi fu alcuna inversione sistematica della mercificazione e, sebbene alcuni imperi se la passarono meglio di altri, non vi fu alcun grande crollo del potere imperiale. Ciò che emerse fu quella che ho definito una dinamica di “forzatura del clima-riparazione del clima” (climate forcing-climate fixing). I sistemi europei di potere e produzione si sono del tutto radicati nel mondo tropicale, in particolare nella bestia a quattro teste del mondo atlantico: il complesso di zucchero-argento-trasporto marittimo-schiavitù. A ciò possiamo aggiungere che la rivoluzione del capitalismo del combustibile fossile iniziò anche in questo stesso periodo, con i boom estrattivi olandese e inglese di torba e carbone. In altre parole, la risposta del capitalismo alla crisi climatica del diciassettesimo secolo fu quella di ampliare la sua estensione verso nuove frontiere: sia orizzontali, come con lo zucchero e l’argento e le loro reti regionali, sia sotterranea, come con l’estrazione del carbone. Nessuna di tali frontiere esiste oggi giorno.
Ciò che viene dopo è impossibile da prevedere. Ci sono lezioni che possiamo trarre dalla politica radicale nel secolo scorso. Una delle lezioni più oscure che possiamo trarre riguarda la volontà delle forze imperialiste di distruggere le forze produttive. Chiaramente, il cambiamento climatico capitalogenico porta con sé un enorme potere distruttivo. Fino a un certo punto, come dimostra Naomi Klein (2007), si verificheranno ricostruzioni della “dottrina dello shock”. Ma ad un certo punto, io penso prima più che dopo, queste cesseranno di essere redditizie su larga scala. Non lo stiamo già vedendo in luoghi come Haiti e in altre parti del Sud globale, nei quali i disastri climatici portano solo miseria senza molte opportunità di accumulazione su larga scala? Questo pone la questione delle ricostruzioni climatiche in un’epoca in cui il capitale non desidera più ricostruire e si interseca con le questioni di come resistere ad un capitalismo sempre più predatorio e finanziarizzato, come Saskia Sassen (2014) ha mostrato.
Queste sono questioni spinose che coinvolgono la ricostruzione climatica e la giustizia climatica. Tali ricostruzioni devono trovare un equilibrio tra “orizzontalismo” (un approfondimento della democrazia partecipativa) e “verticalismo” (pianificazione statale). Avremo bisogno del meglio delle tradizioni anarchica e socialista, avremo bisogno di avere la voglia di andare oltre entrambe nel secolo che viene. Avremo anche bisogno di cambiare l’idea e la pratica di usare la Natura come una forza produttiva, e di adottare una concezione multi-specie della giustizia planetaria. Il socialismo – o ciò che finiamo per chiamare un mondo più democratico, egualitario e sostenibile – sarà socialismo per l’intera vita o non sarà niente.
Riferimenti bibliografici
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