di KETTY NARDULLI (in Sudcomune, marzo 2018)
Per introdurre il presente scritto, partirò dalle conclusioni del precedente lavoro in cui ho espresso l’ipotesi di una realtà sociale in certa misura modificabile dal soggetto che l’interpreta e dalla definizione che esso ne dà secondo i propri schemi e costrutti mentali rinvenenti da retaggi culturali acquisiti nel tempo. Con ciò intendo dire che il cresciuto interesse da parte della letteratura rispetto al tema della femminilizzazione dei flussi migratori ha insito in sé il merito di aver fatto sì che la presenza della donna acquisisca un suo peso ed una sua importanza, tanto da essere riconosciuta come una delle questioni di cui tener conto per una conoscenza completa del fenomeno stesso, ma al contempo porta in sé alcuni limiti.
Primo fra tutti è la tendenza ad utilizzare i numeri non solo come strumento per una ricostruzione contestuale, bensì come riferimento – talvolta unico ed univoco – per spiegare aspetti invece non quantificabili, poiché essi stessi di natura meramente qualitativa. Il riferimento è all’aver spiegato, per esempio, la presenza femminile nei flussi migratori attraverso il numero di permessi per ricongiungimento familiare. Ciò ha portato lo studioso a concludere che si tratta di una migrazione “passiva” o “a seguito” e che dunque tale esperienza si esaurisce, nel contesto di approdo, nel ruolo e nella funzione di madre e di moglie. Ciò non ha evidentemente però giovato a dar contezza reale ed oggettiva alle esperienze, alle pratiche e ai vissuti che contrariamente queste stesse donne agiscono nel quotidiano, in quanto persone ancor prima di essere donne, straniere e lavoratrici. Queste letture hanno prodotto, e talvolta supportato, la costruzione di un immaginario collettivo che relega la donna migrante, ancor più di quella autoctona maggiormente interessata e coinvolta nel mercato del lavoro locale, in ruoli di cura sia nel contesto famigliare che in quello extra domestico, contribuendo a rafforzare la sua condizione di segregazione. E a relegare nuove forme di vita nell’esclusione e, quando visibili, nella criminalizzazione.
Tale impostazione teorica porta in sé una grande responsabilità. Essa, consapevolmente o inconsapevolmente – spesso assistiamo ad un loro uso strumentale in ambito politico, senza che gli autori lo sappiano o lo condividano -, ha gettato le basi teoriche cosicché l’antagonismo sia stato letto come contrapposizione tra due soggetti non più egemoni e tra loro identici – “maschio-etero-bianco” – ma in conflitto tra loro secondo la classe di appartenenza. L’irruenza invece di un soggetto che non sia né maschio né bianco (inteso come “occidentale”), bensì donna e straniera è tendenzialmente registrato come un nuovo “mezzo” del capitale nelle forme di lotta di classe contemporanee e ciò, ancora una volta, nasce dalla tendenza ad identificare la donna migrante non in quanto soggetto, ma in quanto oggetto, strumento, “cosa” da usare a beneficio di altri/e (spesso si parla di nuove forme di servitù). E’ questa una linea interpretativa che genera e produce ulteriori forme di razzismo. Un razzismo di tipo accademico, in questo caso specifico, che ha portato a recuperare – denaturalizzando e stravolgendo il loro significato originale – vecchie categorie analitiche, come ad esempio «l’esercito industriale di riserva», col risultato di una mistificazione dell’antagonismo sociale: non più il lavoro contro il comando, non più il soggetto autonomo contro la catena di dominio, quanto l’italiano contro lo straniero, fino alla donna italiana contro quella straniera.
Sono queste letture ed interpretazioni che acquisiscono un peso rilevante rispetto al clima di odio e di stigmatizzazione dell* stranier* di cui è impregnato buona parte del dibattito politico attuale. Diventa, dunque, assolutamente urgente la necessità di trattare il tema dell’immigrazione in termini e con strumenti quanto più oggettivi e avalutativi possibile, così da riportare una fotografia reale dell’oggetto studiato, scevro da interpretazioni strumentali ed opportunistiche.
Nel tentativo di contribuire, senza superbia ma con onestà intellettuale, a porre un primo tassello a questo nuovo orizzonte teorico, il presente contributo vuole offrire una diversa prospettiva, un’inversione di tendenza rispetto al più recente passato. La scelta è di porre la persona al centro dell’analisi, nel tentativo di far emergere la complessità insita in essa e, dunque, il bagaglio di valori, principi, sogni ed aspettative di cui questa è diretta espressione. I risultati ottenuti con tale lavoro ritengo siano utili a gettare le basi per una reale decostruzione degli stereotipi di cui le donne migranti, in modo ancor più forte degli uomini, sono oggetto in quanto donne, in quanto straniere ed in quanto appartenenti a specifiche comunità etniche.
Stereotipi di cui le donne albanesi risultano essere particolarmente rappresentative. Al contrario, invece, e direi anche paradossalmente, esse risultano essere l’espressione diretta di una mistificazione reazionaria del conflitto sociale. Dalle venti esperienze raccolte nel corso del mio studio infatti l’aspetto comune, il filo conduttore delle esperienze raccontate è il protagonismo e l’autodeterminazione che esse fortemente rivendicano. In altre parole, si può affermare che la migrazione è il condensato di un insieme di azioni individuali e soggettive, dove l’agire è la diretta espressione e la manifestazione di una precisa volontà collettiva. Ciò emerge in particolare laddove raccontano del “perché” sono partite, “come” e “con chi” abbiano elaborato e condiviso la scelta di migrare ed illustrano “cosa” abbiano fatto per concretizzare la decisione elaborata. A tal riguardo, le amiche incontrate hanno affermato che la scelta di partire ed il partire stesso siano il frutto di un insieme di azioni soggettive, di iniziative prese in minima parte a favore delle proprie famiglie, ma in un quadro collettivo quale è quello di un flusso migratorio.
La ragione per la quale esse hanno raccontato di essere partite è legata alla soddisfazione di uno specifico bisogno: raggiungere ed ottenere autonomia e libertà. L’aver soddisfatto tale bisogno ha poi generato in loro la decisione di restare, così come di andare e di tornare, di studiare e di lavorare. In altri termini, tutte hanno rimarcato con forza e determinazione che la migrazione ha costituito per loro la via di uscita e la rottura degli schemi e delle convenzioni patriarcali a cui sarebbero invece state costrette se fossero rimaste, come riportato in questa tranche de vie:
“Se fossi rimasta a casa mia (Tirana – Albania) sarei diventata schiava di un marito, di un padre, di un fratello e nessuno mi avrebbe vista se non per quello… perché moglie, figlia e sorella. Qui, oggi, sono io!”
(Rezharta, partita da Durazzo nel ’92 verso la Puglia).
Il migrare assume dunque un significato focale per la produzione di una soggettività autonoma: la singolarità oggettivata all’interno di un’organizzazione di dominio e di comando qual è la famiglia di origine e la società di partenza per loro. Questa singolarità si ritrova in un milieu nuovo, anche all’interno della famiglia in taluni casi, ma con prospettive sul futuro cangianti: inserimento sociale, ambiente culturale e lavorativo. In questa novità, data dai territori ora abitati da tali singolarità, porta la soggettività stessa a sganciarsi dalla sua posizione oggettivata – all’interno sempre della catena di dominio/comando – e libera, nel senso «libera da» e non «libera di», nel potersi soggettivare da sé: relazioni sociali, contaminazioni culturali, inserimento lavorativo. Questi diventano poi i mezzi attraverso cui la soggettività-donna si rende autonoma rispetto alla famiglia e alla cultura di riferimento, e diventa protagonista delle proprie scelte di vita.
“Partire” e “restare” hanno generato ulteriori effetti non previsti e che sono stati determinanti nel rafforzare l’idea di proseguire l’esperienza migratoria: le nostre protagoniste hanno acquisito la funzione di «veicolo di integrazione» per la comunità di riferimento essendo fortemente ricettive nell’assimilazione degli usi e dei costumi del Paese ospitante, e al contempo pronte a trasmetterle anche e soprattutto alle generazioni future. Le donne albanesi ricoprono dunque un ruolo assolutamente centrale e determinante nel processo migratorio, in quanto esse si fanno portatrici sia dei saperi della comunità d’origine (della lingua, delle storie tradizionali, dei canti, delle prime fondamentali regole di comportamento, del primo approccio alla fede) sia delle conoscenze e delle competenze acquisite nel Paese di accoglienza, cruciali per i processi di radicamento e di integrazione nelle società globalizzate. Esse si trovano, infatti, a fronteggiare in prima persona una serie di situazioni di incontro e di confronto con le persone e le istituzioni del Paese di accoglienza che le portano ad elaborare, più o meno volontariamente e consapevolmente, strategie di mediazione e di dialogo tra diversità per loro inedite – che costituiscono il punto di forza nella determinazione del ruolo che esse ricoprono nel sistema di relazioni (famigliari, parentali, amicali) di cui esse sono parte.
Sulla base di tali evidenze, si può dunque concludere che l’esplorazione delle esperienze vissute e direttamente raccontate dalle donne incontrate consente di mettere in luce aspetti focali per la buona riuscita del progetto migratorio. L’autodeterminazione e l’auto-emancipazione femminile sono le risorse che le nostre protagoniste hanno sviluppato nella costruzione di una nuova e diversa identità, e da cui trova forza ed espressione l’esperienza migratoria stessa.