di CENTRI SOCIALI DEL NORD EST
È una cosa importante quella accaduta ieri nelle piazze d’Italia e di mezzo mondo. Milioni di persone, in gran parte giovanissim*, sono scesi in piazza per pretendere giustizia climatica.
Ieri abbiamo partecipato alla prima impressionante manifestazione di un nuovo movimento transnazionale (globale forse). La direzione che questo prenderà è un dilemma che ci riguarda e ci pone di fronte alla necessità di orientare con cura la nostra azione.
Ciò che è certo è che in piazza è scesa una generazione i cui segni di novità maggiore stanno nel rifiuto della rassegnazione, nella percezione della crisi climatica come un problema che la interroga direttamente e dunque nell’urgenza della mobilitazione. Il futuro non è più freno all’azione, in nome suo non ci si arrende, considerandolo irredimibile, né ci si adagia, coltivando la speranza della realizzazione di un’utopia a venire. Il futuro è semplicemente la posta in palio del presente.
Questa generazione ha già ampiamente dimostrato di muoversi su un piano transnazionale. Del resto si tratta di un carattere già espresso negli ultimi anni da Non Una di Meno. Questa aveva, però, delineato da subito i suoi notevolissimi tratti di novità sullo sfondo dell’eredità del femminismo storico, dimostrando così un altissimo grado di auto-consapevolezza. Più complesso è associare allo sciopero globale climatico di ieri una pari consapevolezza dei punti di continuità o differenza con l’ambientalismo storico. E’ chiaro che l’ordine dei problemi che pone oggi la crisi climatica non è paragonabile alle pure importanti vertenze ecologiste degli anni 80, né tantomeno al riflusso istituzionale dei decenni successivi. Insomma, siamo in presenza di una più netta cesura con il passato che non giudichiamo negativamente, ma che deve essere presa in considerazione.
Lo sciopero di ieri ha mostrato che la battaglia sul clima appartiene già a milioni di persone, con buona pace delle cassandre, dei negazionisti, degli scettici di una certa età e dei materialisti tutti d’un pezzo che ancora vedono la questione climatico-ambientale come una preoccupazione dell’élite, “lontana” da orizzonti massificati.
Sia chiaro, i movimenti che si battono per il clima non nascono il 15 marzo 2019, nè si sono sedimantati solo con l’esperienza di Fridays for Future. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un mutamento dell’attivismo sociale, nel solco di un lessico biopolitico che ha sempre più inglobato il nodo della sopravvivenza del Pianeta. D’altro canto stiamo assistendo a diversi movimenti che stanno intrecciando la resistenza all’estrattivismo con una richiesta sempre più esplicita redistribuzione della ricchezza. Un intreccio, quello tra giustizia sociale e climatica, che sta emergendo in tutta la sua dirompenza anche in Europa, in particolare nella Francia di Macron, autoproclamatosi testa d’ariete della green governance, da tre mesi messa a ferro e fuoco dai gilet gialli.
Ma il 15 marzo, oltre che di entusiasmo, deve essere occasione per aprire una riflessione in seno ai movimenti. E deve farlo soprattutto perché per la prima volta si sono espresse chiaramente le potenzialità di una rottura globale – dal basso – della crisi climatica. Capendoci però.
Partiamo da noi. Pur con tutti i nostri limiti, siamo una soggettività che da anni tenta di produrre mobilitazione e di spingere la riflessione sul versante ambientale-climatico. Da tempo abbiamo scommesso sul fatto che sulla contraddizione capitale-biosfera potesse aprirsi una linea di tendenza, ma, contemporaneamente, sappiamo di non essere detentori di alcuna ricetta e siamo consapevoli di come ogni tentazione avanguardista sarebbe non solo sbagliata, ma anche ridicola. Non ci soffermiamo nemmeno sui residui di gruppuscoli ideologizzati (magari di sinistra) e sulle espressioni di impotenza rancorosa che, a mezzo social, hanno già decretato la compatibilità di questo movimento con lo status quo, magari adombrando l’ipotesi complottista. Si tratta solo di manifestazioni marginali, segnate da vecchie e nuove patologie politiche.
Quale è, allora, nostro compito? Intanto si tratta di un compito da svolgere assieme ai/alle giovanissim* sces* in piazza ieri. I nostri strumenti sono l’inchiesta, la mobilitazione, la presenza, la capacità organizzativa, l’indicazione e la condivisione di pratiche comuni.
Il problema politico che ci si presenta e che deve essere risolto dall’interno del movimento, è chiaro: come è possibile evitare che la grande potenzialità espressa oggi non venga recuperata dalla governance neoliberale? Come si può fare in modo che questo nascente movimento non venga ridotto ad attore sulla scena di una contrapposizione tutta interna all’arena neoliberale tra i residui screditati e sviluppisti della socialdemocrazia e gli arrembanti reazionari, nazionalisti e sviluppisti à la Trump, à la Bolsonaro e così via? Come è possibile non lasciare questa forza alla mercé di due versioni diverse dello stesso capitalismo estrattivista?
Precipitiamo la questione sull’arena nazionale: lasciamo perdere la Lega che si risparmierebbe volentieri di dover flirtare con l’attivismo climatico (cosa che invece sta molto più nelle corde dei 5 stelle) e concentriamoci sulle prime dichiarazioni di Zingaretti. Appena eletto segretario, il Nostro affermava di dedicare la vittoria delle primarie a Greta Thunberg; poche ore dopo lo stesso confermava il proprio appoggio incondizionato al TAV. Come è possibile sostenere la giustizia climatica con una mano e con l’altra avallare un sistema di sviluppo predatorio, totalmente alieno rispetto alla necessità di una messa in sicurezza del territorio nel tempo del cambiamento climatico?
Dal canto suo, ieri, il Corriere si affrettava a dare una lettura del movimento climatico come di un movimento nuovo, ma soprattutto “buono”, contrapposto ai vecchi movimenti “rabbiosi” e “cattivi”. La solita storia, ma che oggi tradisce un’insolita ansia di “arruolamento” a cui, dobbiamo scommettere, questa generazione pienamente post-politica, saprà opporre un rifiuto.
Si pensi alla battaglia intorno al simbolo Greta Thunberg, l’entusiasmo unanime che genera presso molte componenti dell’establishment fa parte del tentativo di infantilizzazione della sua persona, una strategia che mira, in realtà, all’ infantilizzazione dei contenuti che la ragazza svedese veicola. Il tono paternalistico è un dispositivo per disinnescare una possibile minaccia allo status quo: il movimento deve essere in tutta fretta condotto all’alveo istituzionale, anche attraverso il riconoscimento più alto, quello del premio Nobel.
Che fare dunque? Non pensiamo che il problema sia sostituire i bambini con gli adulti, o la ragazzina con gli uomini alla guida del movimento. Il problema è quello di rifiutare collettivamente il paternalismo dei padri e dei padrini. Scorgendo e squarciando la rete che l’apparato politico-mediatico ha già teso tutto intorno, si potrà rovesciare la cattura, ribaltarla proprio a partire dallo spazio di agibilità e di visibilità aperto dalle lusinghe.
Un primo passo importante in questa direzione può essere compiuto molto presto, il prossimo 23 marzo a Roma, dove decine di migliaia di persone convergeranno per la Marcia per il clima, contro le grandi opere e la devastazione ambientale. Sarà la più grande espressione di piazza di un processo di reale organizzazione autonoma iniziato otto mesi fa, promosso dai comitati contro le grandi opere di tutta Italia, uniti dalla consapevolezza di lottare tutti all’interno e contro il cambiamento climatico, condividendo inoltre alcuni punti fermi: chi avalla le trivellazioni e la TAP (ovvero chi ancora punta sull’investimento nei combustibili fossili) non può essere un serio interlocutore quando si parli della salvezza del pianeta; chi cementifica, consuma suolo e impegna enormi capitali pubblici in grandi opere inutili e irreversibili, ha a cuore l’interesse di certe lobby, non certo l’adeguamento del territorio che deve, già da ora, rispondere a piccole, grandi e medie catastrofi climatiche.
I comitati sanno che destra e sinistra hanno, negli ultimi anni, parimenti spinto sull’acceleratore dell’estrattivismo ed hanno spesso mancato di rispettare la volontà popolare (quella stessa volontà di cui anche i 5 Stelle, prima di disattenderla in toto, si riempivano la bocca). Allora il passaggio del 23 marzo non riveste un’importanza episodica. Non ci accontenteremo di un evento, la scommessa è che il portato politico del percorso verso il 23M (che del resto è paragonabile a quello di altre campagne di ecologismo radicale in giro per il mondo) sappia arricchire e farsi arricchire dalla potenza dell’onda di questo sciopero climatico globale.
Possiamo indicare i responsabili politici, economici e culturali del perdurare di condizioni che aggravano la crisi climatica. Noi, in ogni caso, questa sera andremo a letto con il sorriso, loro con una preoccupazione in più. Non lo ammetteranno, ma hanno una paura folle di dovere pagare il costo di una transizione ecologica. E noi dovremmo cominciare a pensare che “transizione ecologica” sia uno dei nomi nuovi della rivoluzione.