di TIZIANA VILLANI (in Effimera.org, novembre 2018)
Pubblichiamo alcuni estratti dal libro di Tiziana Villani, Corpi Mutanti. Tecnologie della selezione umana e del vivente, uscito in questi giorni per Manifestolibri. Ringraziamo autrice ed editore per averci concesso questa anticipazione
Cani contro cani
Un cane riconosce sempre il potere a fiuto. I cani iniziano da subito a riconoscere il comando, l’obbedienza, le pause tra il bastone e la carezza.
Chi ti addomestica sa come dosare l’affetto con il dolore. Dolore e minacce di abbandono, di punizioni future, di assenza di protezione, ma soprattutto assenza di quella carezza particolare che solo il padrone sa fare.
È così che si impara a riconoscere, amare e odiare il potere che è ben più forte del guinzaglio. Il cane ha una vaga memoria del suo antenato il lupo.
Sapere dove pisciare, quando mangiare, non sbavare; mostrarsi festosi, affettuosi, allontanarsi in caso di lite, non intervenire, soprattutto non scappare. Si diventa diffidenti e grati. Il processo di addomesticamento è lungo, ma in fondo tutto si consuma nei primissimi tempi, se un cane saprà essere obbediente e timoroso, se saprà essere riconoscente o rabbioso dipende dal padrone, ma anche dalla natura del cane.
Cani che non si possono ridurre alla prima ubbidienza, saranno ridotti alla seconda ubbidienza, quella della lotta.
Il cane aggredirà il cane e offrirà la sua rabbia in cambio di una cella e di un pasto e sarà così pronto a mordere un altro cane. Avevo paura e non conoscevo la mia natura. Imparavo a essere cane. Il timore del bastone, il timore del potere si impara facilmente a introiettarli. Si diventa servili e compiacenti, ci si mostra disponibili e affettuosi, si ringhia di nascosto, ci si nasconde negli angoli.
Sguardo e voce del comando non sono unicamente quelli del padrone, rapidamente si è in grado di riconoscere qualunque dominatore, dipende dai movimenti, posture e poco altro. Io sono il cane e obbedisco al comando. Abbasso la testa, abbasso lo sguardo.
A volte scappo, ma se vado troppo lontano poi ho paura di non saper più ritornare. Quando si è lontani dalla propria muta, quando si è stati ben addomesticati il guinzaglio resta corto ed è difficile potersi ribellare. Si finisce sempre per amare il padrone, soprattutto quello violento, ha dimostrato di saper come si fa a costruire un legame stretto. Non sono un cane cattivo, solo covo rancore.
Il padrone c’è sempre anche quando è lontano. Quando è lontano divento cattivo, senza una direzione da seguire mi sento perduto e poi noi che siamo cani non sopportiamo l’abbandono. Così si può essere cattivi e rabbiosi a causa della nostalgia.
La nostalgia può fare impazzire, il secondo corpo a quel punto è soprafatto dalle ferite del primo, non riesce più a trattenerlo, il dolore diventa feroce, lo spazio si capovolge, e si gira su se stessi, mordendosi la coda.
Brutta cosa a vedersi un cane impazzito, nessuno se la sente di avvicinarlo, nessuno tenta di distrarlo, si spera solo che la sua folle giravolta finisca in fretta, oppure ci si allontana e lo si lascia al suo destino. È un tipo di follia che sa di morte.
L’obbedienza al comando produce timore e reverenza per l’ordine. L’ordine rassicura, organizza persino le mute, distribuisce i ruoli, mentre senza ordine il branco implode e si smarrisce. Il branco unito è la prima forza, un corpo collettivo, un corpo organizzato, le mute devono inventare un altro branco.
Le donne, i cyborg, il trans, l’animale, il queer, indicano interazioni con l’ambiente del tutto diverse da quelle proposte dal sistema capitalistico dominante, si tratta di una proliferazione di sensibilità, modi di esistenza e relazioni che reinventano il presente proprio da quei margini in cui erano state ricacciate. È una diversa concezione delle corporeità e del sentire quella che sempre più insiste dai margini. Scrive Daniela Daniele, nella Prefazione a Meduse cyborg: “I ‘corpi che contano’ di Judith Butler, le donne cyborg di donna Haraway attraversano il corpo femminile per trascenderne i limiti biologici. Come quello del travestito, dello sciamano, il corpo della donna-medusa esce così potenziato, assumendo insieme i poteri del maschio e della femmina, come fa Diamanda Galé¢s, nel suo uso amplificato e non solistico della voce (über-voice), o Laurie Anderson, quando assume un timbro di voce maschile grazie a un altro strumento elettronico, il vocoder. Così come la performance reinventa i limiti dell’arte, questi corpi di donna appaiono mutevoli, permeabili, queer, alludendo alla possibilità di riformulare il proprio destino oltre il senso comune, producendo insoliti paradossi”. (7)
Il processo di costruzione dei generi, delle identità, dei ruoli è pertanto una costruzione politica.
Le dominanze storiche che hanno oppresso il soggetto donna hanno più a che vedere con la strutturazione di forme del pensiero che hanno organizzato la sessualità, la procreazione, la bestia ecc. come modalità di adeguamento necessarie al processo continuo di privatizzazione e segregazione delle esistenze.
Resta difficile comparare la domesticazione del femminile con le molte altre forme di assoggettamento. Non si tratta tanto di “decolonizzare il genere”, quanto di metterne in valore una varianza, che in forme modi spesso umbratili, ha continuato a lavorare disegnando linee di slittamento che hanno, in momenti diversi, messo in crisi il processo di addomesticamento delle donne.
Già Carla Lonzi, indicando il femminile come “soggetto imprevisto”, infrange ogni ipotetico percorso dialettico che possa riassorbirne l’irrimediabile alterità: “Prendendo coscienza dei condizionamenti culturali, di quelli che non sappiamo, non immaginiamo neppure di avere, potremmo scoprire qualcosa di essenziale, qualcosa che cambia tutto, il senso di noi, dei rapporti, della vita. Via via che si andava al fondo dell’oppressione il senso della liberazione diventava più interiore. Per questo la presa di coscienza è l’unica via, altrimenti si rischia di lottare per una liberazione che poi si rivela esteriore, apparente, per una strada illusoria”. (8)
Questa che Lonzi indica come una presa di coscienza, dev’essere intesa in senso più ampio, dev’essere intesa come sovvertimento delle scritture dominanti. Non è l’uguaglianza che è necessaria, quanto la liberazione di tutti quei percorsi che la codificazione dei ruoli determina in modo gerarchico ed escludente. L’uguaglianza è pericolosa se viene intesa come sfera generale dei diritti da rivendicare, certo il diritto allo studio, al lavoro e a retribuzioni adeguate sono rivendicazioni necessarie, ma una nuova collocazione della donna nel sociale non può prescindere dalla radicale differenza del suo essere, delle sue caratteristiche che non possono essere appiattite in un ambito da sempre definito dall’universale uomo. Occorre sperimentare le varianti, le diverse concezioni, i diversi affetti, l’immaginario altro che le donne custodiscono spesso in estrema solitudine.
Scrive ancora Lonzi: “L’uguaglianza è quanto si offre ai colonizzati sul piano delle leggi e dei diritti. e quanto si impone loro sul piano della cultura. È il principio in base al quale l’egemone continua a condizionare il non-egemone. Il mondo dell’uguaglianza è il mondo della sopraffazione legalizzata, dell’unidimensionale; il mondo della differenza è il mondo dove il terrorismo getta le armi e la sopraffazione cede al rispetto della varietà e della molteplicità della vita. L’uguaglianza tra i sessi è la veste in cui si maschera oggi l’inferiorità della donna. Questa è la posizione del differente che vuole operare un mutamento globale della civiltà che l’ha recluso. Abbiamo scoperto non solo i dati della nostra oppressione, ma l’alienazione che è scaturita nel mondo dall’averci tenute prigioniere. La donna non ha più un appiglio, uno solo, per aderire agli obiettivi dell’uomo. In questo nuovo stadio di consapevolezza la donna rifiuta, come un dilemma imposto dal potere maschile, sia il piano dell’uguaglianza che quello della differenza, e afferma che nessun essere umano e nessun gruppo deve definirsi o essere definito sulla base di un altro essere umano e di un altro gruppo. L’oppressione della donna è il risultato di millenni: il capitalismo l’ha ereditato piuttosto che prodotto. Il sorgere della proprietà privata ha espresso uno squilibrio tra i sessi come bisogno di potere di ciascun uomo su ciascuna donna, intanto che si definivano i rapporti di potere tra gli uomini. Interpretare su basi economiche il destino che ci ha accompagnate fino a oggi significa chiamare in causa un meccanismo di cui si ignora l’impulso motore. Noi sappiamo che caratterialmente l’essere umano orienta i suoi istinti in relazione al soddisfacimento o meno nei contatti con l’altro sesso”. (9)
Dalla proprietà privata alla privatizzazione dell’intera sfera esistenziale si è delineato un meccanismo in cui le donne sono state oggetto di un’intensificazione del loro sfruttamento che ha imposto l’innalzamento delle capacità performative, di cura, di assoggettamento, di esclusione, di emarginazione. Solo la consapevolezza odierna, più ampia che in passato, ma non scontata, impedisce la dissimulazione di queste pratiche. Il divenire donna non potrà che essere un passaggio/frattura, un passaggio rivoluzionario, un passaggio sovvertitore di senso chiamato a smontare il gravame di “una colpa” gerarchicamente imposta e funzionale ad ogni idea di presa del potere. Non è la presa del potere l’obiettivo di ogni divenire donna, ma la sua liquidazione in direzione della messa in azione di potenze espressive a lungo cancellate.
Queste potenze si realizzano in un modo processuale, che come indica donna Haraway incontra nel cane, un piano coevolutivo quanto mai particolare. (10)
L’incontro tra specie è dunque dinamico, in qualche modo Haraway ravvisa nel divenire del cane una proiezione particolare dell’uomo, ma perché per le donne questo incontro dovrebbe essere ancor più singolare? Forse Haraway quando parla di “buone regole” per un reciproco vivere con maggior soddisfazione, pensa a questo, ossia a un rovesciamento della normatività del potere.
Nella Postfazione a Compagni di specie, R. Marchesini precisa: “Il pensiero femminista della Haraway lucidamente non si ferma sul problema del controllo androcentrico, bensì sugli operatori di discriminazione che lo concretano. ecco che allora la sua attenzione non può ignorare, ma soprattutto passa attraverso le nuove esistenze neglette. Lì si fortificano le radici della pretesa umanistica di lasciare il soggetto sostanzialmente integro all’interno della cabina di regia”. 11
Se il punto centrale di questa riflessione riguarda le esistenze neglette, risulta allora interessante analizzare l’interscambio tra la donna e il cane in una struttura di controllo che affida loro la sorveglianza della casa, dei beni, della prole e del padrone. Argo rimane sulla soglia in attesa del ritorno di Ulisse, Penelope vigila sulla casa, entrambi si consumano nell’attesa nel mentre Ulisse compie avventure, loro sono muti e ubbidienti, sono i sacrificati, gli innamorati abbandonati, i disciplinati che scompariranno nel racconto e nella storia. È dunque lo spazio domestico quello in cui si consumano le vite neglette, l’oikos, la domus, la casa costituiscono il recinto perimetrato dei rituali di addomesticamento e di canonizzazione dei ruoli, la donna e il focolare, il cane a guardia della soglia. eppure questa co-evoluzione tra specie variamente addestrate riesce a produrre strappi, fratture, conflitti. La scoperta più disarmante consiste nel comprendere come non vi siano archetipi cui rimandare. Poiché modelli simili, quand’anche vi fossero, appartengono alla grammatica dominante.
NOTE
7 Meduse cyborg, Milano, Shake, “Research”, 1991, p. 10.
8 Lonzi C., Sputiamo su Hegel, Scritti di rivolta femminile, Milano, 1973, p. 9.
9 Ibidem. p. 13.
10 Vedi in proposito, Haraway D., The Companion Species Manifesto, University Chicago Press, 2003, (tr.it di R. Marchesini, Milano, Sansoni, 2003).
11 Marchesini R., Postfazione a The Companion Species Manifesto, 2003, pp. 127-128.
Estratto pagg. 97-100