Conflitti ambientali come critica sistemica al capitalismo

di MATTEO LUPOLI (in Effimera.org, marzo 2019)

Da qualche tempo a questa parte pare che le sorti del pianeta siano finalmente al centro di un dibattito politico che attraversa la nostra società a ogni livello e latitudine, e impone una presa di posizione a tutti i soggetti e le forze sociali e politiche attive. Se le destre nazionaliste e autoritarie sempre più spesso assumono un atteggiamento di tipo negazionista nei confronti dei problemi ambientali, i partiti di centro sono da tempo allineati sulla difesa dei principi dello sviluppo sostenibile e dell’innovazione tecno-ecologica che stanno alla base della cosiddetta green economy. Resta da capire quale ruolo in questo scenario sapranno giocare i movimenti anti-capitalisti e le organizzazioni politiche nate da esperienze di autogestione e conflitto.

Le preoccupazioni connesse alla crisi ecologica non sono certo una novità. A differenza delle generazioni che hanno preceduto la nostra, credo di poter affermare che l’esperienza mia e quella dei miei coetanei è stata necessariamente plasmata fin dagli inizi dalla consapevolezza di vivere in un mondo non soltanto finito in quanto limitato, ma proiettato irrimediabilmente verso la fine in quanto esaurimento catastrofico. Questo sistema di conoscenze, che trova nelle verità scientifiche presentate come neutrali il proprio fondamento e descrive un immaginario catastrofico, non ha prodotto però negli anni alcun tipo di attivazione concreta e collettiva in direzione di un’inversione di tendenza. Certo si sono moltiplicati i programmi per la raccolta differenziata nei comuni e le aziende così come i governi hanno sbandierato un po’ ovunque nuovi proclami di sostenibilità ambientale. Ma questo non ha avuto alcun tipo di ricaduta concreta sui livelli di inquinamento e tossicità e se una certa colpevolizzazione universale si è prodotta pare essere servita solamente a ri-orientare i consumi e ad aprire nuovi spazi di mercato nel momento in cui i limiti fisici alla crescita e le spinte conflittuali hanno messo in crisi il modello industriale classico e le contraddizioni interne ai processi di finanziarizzazione sono esplose. I movimenti di massa nel Nord globale non hanno per decenni ricompreso una critica ecologista all’interno del loro armamentario. Con ciò non voglio far intendere che manchino o siano mancate lotte ambientali in ogni angolo del pianeta, al contrario ritengo si possa affermare che questi conflitti rappresentino su scala planetaria le forme di mobilitazione più diffuse e possano vantare una storia secolare.

Gli esempi sono numerosissimi e per avere un quadro complessivo riferito alla situazione attuale basta osservare l’atlante web[1] dedicato ai conflitti relativi alla giustizia ambientale. Questo strumento è il frutto di un lavoro di ricercacoordinato da Leah Temper, Daniela del Bene e Joan Martinez Alier che ha coinvolto, tra il 2011 e il 2015, 23 organizzazioni in tutto il mondo: gruppi di ricercatori accademici e attivisti ambientalisti hanno collaborato alla progettazione e creazione dell’atlante attingendo da lavori di ricerca precedenti e dalle banche dati costruite talvolta dai movimenti (che in questo processo sono stati riconosciuti in quanto produttori autonomi di conoscenze e non soltanto come oggetti di studio).

La prima pubblicazione risale al 19 aprile 2014 e registrava 940 casi. Ad oggi sono 2696[2], diffusi in tutti e cinque i continenti. È un lavoro estremamente prezioso se si considera il problema dell’invisibilità delle lotte socio-ecologiche nel mondo (Alier, 2009).

Queste, diffuse in maniera capillare un po’ ovunque, sono in molti casi sconosciute al di fuori dei confini delle zone in cui avvengono. Un primo ostacolo per il riconoscimento di questi conflitti è rappresentato dalla loro stessa definizione: la nozione di ambiente era estranea alla filosofia politica prima del Novecento, è un costrutto teorico recente, così come quello di ambientalista, nato sul finire degli anni Sessanta dello scorso secolo. Un altro elemento problematico riguarda gli attori di questi conflitti che solitamente non appartengono tutti a specifici settori sociali e possono esser restii alle diverse forme di etichettatura o inconsapevoli del portato ambientalista delle loro rivendicazioni. L’invisibilità che talvolta ne deriva, riguardante soprattutto i conflitti più radicali e le zone povere del pianeta, produce una cecità selettiva nelle zone più ricche, dove uomini e donne sono talvolta consapevoli delle crudeli pratiche di macellazione e allevamento intensivo, mentre trascurano situazioni talvolta anche più drammatiche (senza voler fare una scala di valore antropocentrica, considerando solo l’intensità del danno da un punto di vista quantitativo) come quelle connesse alla deforestazione o allo spossessamento territoriale.

L’immagine che emerge dall’Atlante delle lotte socio-ambientali non lascia spazio a interpretazioni differenti: questa categoria di conflitti non solo è molto diffusa a livello globale, ma è tutt’ora in continua espansione. Ciò che a mio avviso è mancata, se non in forme estremamente deboli e discontinue, è una connessione tra questi momenti di critica ecologista e altri movimenti come quello operaio o studentesco, che hanno un’antica tradizione in Europa e negli Stati Uniti.

Mi sono domandato a lungo come delle istanze provenienti da una critica delle nocività prodotte dal regime industriale capitalista fossero state assorbite più dal marketing delle imprese che dalle rivendicazioni dei movimenti sociali nel Nord globale. Credo che due differenti risposte, in parte connesse, siano possibili. Da un lato, in un momento di crisi e di riorganizzazione capitalistica come quello verificatosi a cavallo degli anni Settanta del secolo scorso, l’emergere delle prime istanze ecologiste nei paesi industrializzati è stato presto sussunto dalla narrazione liberale che ha reso la superficiale preoccupazione per le sorti dell’ambiente naturale un elemento economico e finanziario neutralizzandone parzialmente la potenziale spinta critica. Secondo Leonardi “[i]l problema cruciale è quello della cooptazione delle formazioni discorsivo-argomentative che il movimento ambientalista propone e talvolta impone al dibattito pubblico”, e di questo occorrerà tenere conto anche nel prossimo futuro. Dall’altro lato i movimenti di ispirazione marxista che ancora resistevano alla fine del Novecento hanno nella maggior parte dei casi sostenuto la centralità esclusiva o la priorità del rapporto di lavoro come campo di intervento e scontro, lasciando in secondo piano le questioni connesse alla dimensione ecologica. È così che progressivamente il termine ambientalista nel nostro continente ha finito per indicare esclusivamente quei soggetti animati da interessi post-materialisti,impegnati nella difesa o conservazione dello spazio naturale e che nulla hanno a che spartire con le lotte di classe e i conflitti connessi alle condizioni di vita e di lavoro.

La crisi economica e finanziaria che si è poi manifestata tra il 2007 e il 2008 penso abbia modificato profondamente la realtà economica e sociale paesi industrializzati (e non solo) e abbia accelerato determinati processi rendendo visibili tendenze fino ad allora non evidenti. Un discorso di questo tipo credo sia valido anche per quanto riguarda la relazione tra ambiente ed economia. Se la crisi ha danneggiato in maniera significativa gran parte della cosiddetta economia reale, alcuni settori ne sono usciti fortificati. Tra questi sicuramente vi è quello connesso alla green economy: dallo sviluppo delle imprese impegnate nella produzione di energie rinnovabili alla creazione di nicchie di mercato (in costante espansione, al punto che probabilmente è improprio parlare di nicchie) dedicate al cibo biologico o al turismo sostenibile. La valorizzazione del limite ambientale e la costruzione di narrazioni fondate sul paradigma della sostenibilità sono state due valide strategie di ri-organizzazione per molte imprese. Inoltre la finanza ha giocato un ruolo fondamentale in questa transizione sviluppando meccanismi e sistemi in grado di valorizzare il rischio ecologico e la riduzione delle emissioni, divenendo uno dei principali motori dell’economia legata all’ambiente (Leonardi, 2017). Non si tratta di novità sorte dal nulla: alcune dinamiche originatesi negli ultimi decenni del Novecento e riguardanti una nuova considerazione del limite ambientale non hanno fatto che approfondirsi e svilupparsi. Il paradigma della green economy ha le radici nella transizione degli anni Settanta del Novecento a una fase caratterizzata dalla governance neoliberale. A oggi occupa una parte sempre più significativa dell’economia capitalistica, al punto da poter esser forse considerato come cifra delle economie più sviluppate (e di riflesso elemento determinante anche per quelle degli altri Paesi). Poiché i profitti delle aziende che si professano verdi e sostenibili sono in crescita mentre i livelli di inquinamento non calano, credo sia necessaria un’analisi di quest’economia al di là del livello superficiale del marketing e delle operazioni di disvelamento.

Oltre a questa apparente svolta ecologica dell’economia, in seguito al collasso finanziario del 2007-2008 sono sorti anche importanti movimenti di protesta in tutto il mondo. Alcuni tra quelli che hanno animato le piazze del Nord globale, come quello degli indignados in Europa e Occupy negli Stati Uniti, non hanno prodotto alcun cambiamento sostanziale a dispetto dell’attenzione mediatica suscitata. La contestazione al capitale che hanno articolato intorno ai nodi della democrazia e della distribuzione della ricchezza si è rivelata probabilmente poco efficace. Negli anni successivi invece sono state un po’ ovunque le spinte reazionarie e le pulsioni nazionaliste a esprimersi con vigore riuscendo a catalizzare il malcontento sociale intorno a rivendicazioni legate a una presunta difesa delle popolazioni autoctone di fronte a un’altrettanto presunta minaccia rappresentata dall’immigrazione straniera, portando in alcuni casi al governo forze politiche xenofobe e autoritarie. In queste differenti situazioni la critica allo sviluppo capitalistico neoliberale, che è stata al centro tanto delle istanze democratiche degli indignados quanto di molti discorsi e proclami delle destre nazionaliste, è stata condotta su un terreno sociale e politico in cui la questione ambientale non è stata ricompresa se non marginalmente, superficialmente e con finalità propagandistiche. Se questo è stato possibile fino a poco tempo fa, ritengo che gli avvenimenti e i conflitti degli ultimi mesi abbiano dimostrato che in questa fase il tema non è più eludibile né per i governi, né per le opposizioni istituzionali, né per noi. Sono convinto che questo slittamento non sia la conseguenza della diffusione di un nuovo allarme riguardante l’imminente drammatica fine del pianeta e le teorie dell’Antropocene che, anche quando riferibili a un approccio catastrofista e sostenute da sincere preoccupazioni, non fanno altro che legittimare il mantenimento delle condizioni politiche ed economiche attuali. A imporre realmente la questione ambientale nel dibattito politico (al di là dei proclami), sono state le spinte dei movimenti nel Sud del mondo e le istanze ecologiste che stanno caratterizzando anche le proteste nel nostro continente. A tal proposito alcuni parlano già di“enviromentalization delle lotte sociali” (Alier, Del Bene, Temper, 2015, p. 256). Personalmente credo che in riferimento al contesto europeo questa definizione sia azzardata, ma riconosco che alcuni segnali possono far pensare che negli ultimi tempi qualcosa stia cambiando all’interno dei movimenti sociali anche nel vecchio continente. Sono soltanto segnali, suscettibili di diverse interpretazioni e in alcuni casi persino contraddittori, ma probabilmente lasciano intravedere l’emergere di un nuovo lessico che ricomprende la dimensione ecologica in una contestazione più ampia al sistema capitalista.

Citerò alcuni casi recenti, risalenti agli ultimi mesi del 2018.

Uno degli episodi che reputo più interessanti è stato all’origine del movimento francese dei gilet jaunes. Le proteste che ancora oggi animano le strade della Francia hanno avuto inizio dalla contestazione dell’introduzione di un’eco-tassa sul prezzo del carburante. Questa rivendicazione, che inizialmente è costata alle piazze francesi l’etichetta di “anti-ecologiste”, contiene a mio avviso un’indicazione molto importante in una fase come quella attuale caratterizzata dalla costante ricerca di soluzioni per rallentare il degrado ambientale. Migliaia di persone, per lo più appartenenti alle classi popolari, si sono opposte alla logica secondo cui a fronte della devastazione ambientale prodotta in gran parte dagli interessi di grandi poteri economici e politici, i costi andrebbero suddivisi in maniera indiscriminata tra tutta la popolazione, finendo così per produrre nuovi squilibri e divisioni sociali. Già André Gorz in Ecologia e Politica (1977) sosteneva che se fosse stato il capitale a tenere conto dei costi ecologici questo avrebbe determinato solamente un aumento dei prezzi e delle disuguaglianze. Penso sia esattamente ciò che si verifica ogni volta che viene introdotta, in nome della difesa ambientale, una tassa che colpisce in maniera indiscriminata i consumi influendo di fatto solamente sugli stili di vita delle classi popolari. Questo assioma, che contestano i gilet jaunes rifiutando la misura proposta dal governo Macron, è alla base delle proposte di tutti i parlamenti nazionali e delle istituzioni internazionali che continuano ad affrontare la crisi ecologica come una questione di costi da assegnare e ripartire, nello stesso modo in cui le élites affrontano i problemi ambientali sin da quando negli anni Settanta hanno iniziato a considerare il limite naturale come possibilità per lo sviluppo economico. La politica istituzionale, quando si occupa di ambiente, lo fa in ottica economicista o con l’intento di implementare meccanismi di controllo e di governo delle popolazioni.

Non mancherebbero le alternative a questo approccio e le misure concrete possibili, anche all’interno di un quadro riformista. Gli esempi potrebbero essere numerosi, a partire da una riflessione sull’impatto ambientale dell’industria bellica, ma non è obiettivo di questo scritto indicare politiche di riforma possibili e da tempo già note.

La spinta del movimento francese, che per intensità non ha avuto sicuramente eguali nell’ultimo periodo, non è comunque rimasta isolata. Il vertice tenutosi nella città di Katowice in Polonia nei primi giorni di dicembre 2018, la ventiquattresima Conferenza delle Parti (COP24), non ha registrato sostanziali svolte per quanto riguarda la linea dei governi coinvolti e persino gli obiettivi minimi previsti durante la COP 21 di Parigi del 2015 sono ancora molto lontani. Ma negli stessi giorni del vertice e precisamente nella giornata dell’8 dicembre molte città europee sono state teatro di manifestazioni di protesta caratterizzate da istanze ecologiste. In centinaia di città (in più di 15 nazioni) ci sono state manifestazioni autodefinitesi “marce per il clima” sorte in opposizione al vertice polacco e sull’onda del successo registrato solo tre mesi prima dalle omonime manifestazioni coordinate dal network internazionale Rise for Climate. Nel nostro Paese non sono mancate le città che hanno risposto a quell’appello, come Padova e Bergamo, ma le principali mobilitazioni hanno riguardato soprattutto la costruzione di grandi opere ad alto impatto ambientale: a Torino decine di migliaia di persone hanno contestato nuovamente la costruzione del TAV, nel Salento ci sono state proteste contro il progetto del gasdotto TAP; in Sicilia una manifestazione ha animato le strade del comune di Niscemi per protestare contro la base militare per le comunicazioni americane MUOS. Queste lotte territoriali connotate da un marcato profilo ecologista hanno assunto progressivamente una dimensione o un’eco nazionale (in misura diversa a causa anche della differente longevità di questi conflitti) e rappresentano un modello possibile di integrazione tra la dimensione ambientale, sociale ed economica della contestazione. Nello stesso giorno in tutta Francia le manifestazioni dei giubbetti gialli hanno raggiunto per la quarta settimana consecutiva le dimensioni e l’intensità di una vera e propria rivolta popolare. La contemporaneità di questi momenti e i linguaggi condivisi che si sono espressi in quelle piazze credo possano alludere a una nuova consapevolezza viva nei movimenti anti-capitalisti anche in Europa e che questa riguardi l’esigenza di schierarsi dentro lo spazio di una crisi che non è soltanto economica, sociale e politica, ma anche ecologica.

Dall’altra parte del pianeta le lotte degli indigeni, come quelle del popolo mapuche contro lo spossessamento dei territori e la costruzione di centrali energetiche, e più in generale l’ampio panorama di conflitti connessi a questioni di giustizia ambientale che si esprimono da lungo tempo nel Sud globale rappresentano per diffusione e intensità una parte significativa dello spettro di resistenze al capitalismo nel mondo.

Sono convinto che i prossimi tempi saranno segnati da insorgenze connesse con la distribuzione dei rifiuti e dei costi ecologici, con il diritto di accedere alle risorse naturali e altre questioni che investono contemporaneamente il terreno delle politiche sociali e quello delle politiche ambientali. Se questi conflitti sapranno orientarsi verso una critica decisa e complessiva al sistema capitalista e se al contempo i movimenti anti-capitalisti esistenti e radicati sapranno interpretare queste istanze e includerle nelle loro rivendicazioni, sarà forse possibile un’inversione di tendenza reale.

Pochi giorni fa, lo scorso 15 marzo, in tantissimi hanno risposto all’appello per uno sciopero globale per il clima lanciato da Greta Thunberg (la giovanissima ragazza svedese divenuta famosa per i suoi solitari scioperi per l’ambiente) e dai network che si sono attivati per i FridaysForFuture (simboliche manifestazioni di protesta contro le istituzioni locali e in difesa del clima che da diversi mesi si ripetono ogni venerdì in alcune città). In Italia così come in molti altri paesi europei la partecipazione è stata incredibilmente alta e visibilmente giovanile, segno che esiste probabilmente anche una distanza tra generazioni nel considerare le sfide attuali e nell’approcciarsi a esse.

Il prossimo 23 marzo invece saranno i comitati di lotta e i movimenti territoriali a darsi appuntamento a Roma per la “Marcia per il clima e contro le grandi opere inutili”.

Entrambi gli appuntamenti non sono privi di ambiguità e contraddizioni (dalla mitologia costruita sulla figura della giovane attivista all’enfasi posta sulla possibilità/timore della catastrofe più che su questioni di giustizia sociale) ma dopo decenni di scarsa considerazione da parte di tutte le forze politiche per le questioni ambientali avrebbe sorpreso il contrario. Bisogna registrare come elementi estremamente positivi la comparsa di slogan che associano crisi ambientale e capitalismo (“salviamo il pianeta, non i profitti” o “se il pianeta fosse una banca sarebbe stato già salvato”) nelle piazze di tutta Europa e la disponibilità alla mobilitazione dimostrata. I lunghi cortei che hanno attraversato le città il 15 marzo fanno il paio con la straordinaria giornata di mobilitazione globale transfemminista della settimana precedente. Occorre probabilmente ripartire da questi due nodi politici per articolare un’opposizione al capitalismo ampia e in grado di assumere finalmente un orizzonte trasnazionale in cui dispiegarsi, ma questo non deve determinare la rimozione di tutti gli altri piani di scontro con i poteri locali, nazionali e internazionali. Questi conflitti che investono soprattutto la sfera della riproduzione sociale devono contaminarsi e intrecciarsi con le lotte dentro gli spazi della produzione e contro i sistemi di controllo, solo in questo modo sarà possibile costruire ponti e connessioni tra mondi che ancora si percepiscono distanti. Il rischio che si correrebbe, qualora i piani rimanessero isolati, sarebbe quello di confinare nuovamente le lotte ambientali in un immaginario da ceto medio lasciando spazio ai signori della green economy per trasformare in profitti le preoccupazioni di milioni di uomini e donne.

Félix Guattari ne Le tre ecologie (1989) scrisse che “la connotazione dell’ecologia dovrebbe smettere di essere legata all’immagine di una piccola minoranza di amanti della natura o di specialisti accreditati”. Il dibattito che sui temi dell’ecologia politica si è sviluppato negli ultimi anni, i livelli di partecipazione e le rivendicazioni espresse nelle manifestazioni di dicembre 2018 e marzo 2019 lasciano ipotizzare che ci si trovi sulla strada giusta per uscire da tale impasse.

“Che significato, ad esempio, potrebbe ancora avere l’esortazione a “prendersi la città”, a “volere tutto”, in un paese come l’Italia, dopo che il Mediterraneo fosse stato ucciso dai rifiuti che il capitalismo destina a mare per ragioni di profitto?” (Paccino, 1972, p.199).

Note

[1] The Global Atlas of Enviromental Justice, the EJAtlas https://ejatlas.org/[Immagine 1]
[2] Dato del 30 gennaio 2019