di CARLO CUCCOMARINO E FRANCESCO MARIA PEZZULLI (in Commonware, agosto 2013)
Queste cinque tesi rappresentano, in sintesi, i risultati raggiunti dall’inchiesta sulla precarietà e il comune in Calabria, cominciata a metà del 2012 e tuttora in corso. L’inchiesta si è articolata in “incontri” tra operatori di call center, nei quali si è discusso criticamente delle problematiche concrete del lavoro outbound, e di altre questioni emerse nel corso degli incontri.
Sin dal primo incontro abbiamo detto inchiesta politica, nel senso che l’obiettivo prioritario del lavoro è quello di favorire i processi di soggettivazione degli operatori. Restiamo infatti convinti che rendersi conto della propria alienazione è il primo passo per sovvertire la propria condizione di precarietà, alla quale gli operatori di call center e gran parte dei lavoratori precari sono sottoposti. Last (but not least) l’inchiesta si è impegnata nel ricostruire il processo di “produzione” economica (e di soggettività) del call center; nel descrivere la struttura organizzativa; nell’individuare i processi di valorizzazione/sfruttamento.
In altri interventi, pubblicati sul portale Uninomade 2.0, sui Quaderni di San Precario (n.4) e sul Manifesto, abbiamo illustrato questi quattro punti, intendiamo adesso formulare alcune tesi generali, che possono essere considerate come fili conduttori del lavoro politico e teorico che ci attende.
Tesi 1. La produttività dell’operatore non può essere misurata. La valorizzazione capitalistica in un call center avviene attraverso lo sfruttamento delle qualità umane e sociali degli operatori.
Nei call centernon si producono oggetti ma si vendono servizi e si offre assistenza. Per far ciò servono abilità non materiali, qualità che gli operatori acquisiscono attraverso l’educazione familiare, la scuola e le loro esperienze di vita e socializzazione. Si tratta di capacità linguistiche e relazionali, di competenze e conoscenze acquisite in ambito lavorativo ma soprattutto extra-lavorativo: sono saperi, sentimenti, versatilità, reattività, eccetera. In una parola, l’insieme delle facoltà umane che, interagendo con sistemi automatizzati e informatizzati diventano direttamente produttive.
Basta questo per capire che la prestazione lavorativa nel call center non è misurabile e il tempo come misura del valore del lavoro, ostinatamente imposto dai capitalisti ed imprenditori del call center è assolutamente arbitrario. Come misurare in ore le capacità intrinseche di ciascuno di noi? Come misurare in ore la nostra capacità di stabilire un rapporto empatico con gli altri? Come misurare temporalmente i nostri sorrisi, la nostra attenzione e il nostro linguaggio? Nonostante i tentativi – cinici e dolorosi – di valorizzare la nostra vita, ci sarà sempre una eccedenza non misurabile in termini capitalistici. Misurare il tempo di lavoro, e da questo far discendere il valore delle prestazioni lavorative, nel call center vuol dire svalorizzare le capacità cognitive degli operatori, gerarchizzare le loro diverse abilità. In una parola, mercificare ed umiliare il loro lavoro.
Nella fase fordista del capitalismo alcune dicotomie sono state fondamentali per la critica dell’economia politica: produzione/riproduzione; produzione/consumo, eccetera. Queste dicotomie rimandavano a quella più generale, di marxiana memoria, di lavoro produttivo/improduttivo. Fino a qualche decennio fa la distinzione era chiara, oggi è necessario ridefinirla perché nell’attuale fase finanziaria la base della valorizzazione capitalistica si è estesa notevolmente sino ad interessare l’insieme delle capacità vitali dei singoli: in questo senso parliamo di biocapitalismo. Oggi, nel call center ed anche altrove, la misura dello sfruttamento non riguarda semplicemente la giornata lavorativa degli operatori ma coinvolge anche quella parte di vita dedicata agli affetti, alle relazioni, alla socialità. In questo senso il call center è un caso esemplare di sfruttamento del lavoro immateriale. Per questo motivo la prestazione lavorativa è sempre meno misurabile e diventa obbligatorio un ripensamento radicale della “cassetta degli attrezzi” economici finora utilizzati.
Nei “discount della parola” il valore è generato dai saperi relazionali degli operatori e dalle loro competenze tecnico-informatiche, saperi e competenze che rappresentano il “comune” sul quale i capitalisti dei call center generano i loro profitti, ma che non viene contabilizzato in alcun modo nei compensi degli operatori.
La natura postfordista del lavoro immateriale che l’operatore compie è in conflitto con la struttura taylorista dell’organizzazione del lavoro, dove si guadagna al più alto numero di servizi erogati. Ai capitalisti del call center interessa soprattutto riuscire a gestire un numero sempre maggiore di chiamate nel minor tempo possibile. A tal fine, vedremo nei prossimi punti, è fondamentale relazionarsi con operatori che si immedesimano nelle logiche aziendali, che ne accettano acriticamente l’ideologia. Dal momento che questo tipo di operatore è merce di difficile reperimento il call center si organizza per produrla da sé.
Tesi 2. L’organizzazione di un call center si fonda sulla cattura delle qualità sociali degli operatori.
I capitalisti e gli imprenditori del call center non riescono, al pari dei loro padri di fabbrica, a separare chi lavora dai mezzi di produzione, perché questi ultimi sono “interiorizzati” dagli operatori. Questo fatto genera problemi nella gestione del processo lavorativo, dal momento che i risultati di quest’ultimo sono fortemente condizionati dalle qualità sociali ed umane degli operatori. Non disponendo di queste a priori gli organizzatori del call center sono obbligati a “contrattare” quotidianamente la qualità delle prestazioni lavorative, che variano al variare delle condizioni psico-fisiche ed emotive dell’operatore. Influenzata in modo decisivo da tali variazioni, l’organizzazione di un call center si articola e prende forma per ridurle al minimo, con ogni strumento a disposizione: privi di ogni immaginazione gli imprenditori del call center non sanno far altro che predisporre il disciplinamento e il controllo di ogni mansione lavorativa.
L’organizzazione di un call center è in grado di misurare costantemente le performance degli operatori ed i loro stati emotivi, perché ne deve “valutare” il grado di affidabilità, di converso il grado di devianza e di potenziale conflitto.
L’organizzazione di un call center è una macchina totalizzante che imbriglia (logga) il corpo e la mente. Quando inizia il turno si è subito “loggati” su piattaforme informatiche (che registrano ogni azione) e disposti in spazi (postazioni separate in grandi open space piuttosto che in angusti sottoscala) dove si esercita una consistente attività ideologica. Quest’ultima inizia nei corsi di formazione e prosegue quotidianamente con il team leader nelle postazioni, nelle riunioni con i responsabili, nelle relazioni con altri addetti. Questi momenti sono fondamentali dal punto di vista organizzativo, rappresentano a tutti gli effetti le tappe del processo di produzione di soggettività in un call center. Gli assiomi da inculcare sono due: l’operatore di call center deve raggiungere determinati obiettivi che verranno valutati oggettivamente (principio di efficacia/efficienza); qualsiasi obiettivo è raggiungibile tramite il miglioramento progressivo delle performance dell’operatore. I corsi, che diffondono tali assiomi con tutti i loro addentellati come se si trattasse di teorie scientifiche, servono per fare una prima scrematura tra gli operatori ed individuare i meno malleabili, quelli potenzialmente conflittuali. Le “riunioni” con i dirigenti e i “richiami” (o le conversazioni) del team leader servono per ribadire gli assiomi durante la giornata lavorativa, nel tentativo di “rifunzionalizzare” un operatore in calo di produttività o con disposizione conflittuale.
L’organizzazione di un call center è praticamente l’organizzazione della cattura delle qualità sociali degli operatori. Tale marchio d’origine le imprime una fisionomia particolare: da un lato è la reinvenzione della vecchia catena taylorista, la sua informatizzazione, la sua attualizzazione. La tecnologia informatica, come un tempo, è utilizzata per ridurre al minimo il tempo necessario delle singole prestazioni, soltanto che adesso, diversamente da quanto accadeva in fabbrica, il contenuto della prestazione è soprattutto cognitivo. Ma il prezzo da pagare è ugualmente molto alto: la fatica fisica è diventata ora fatica mentale.
Da un altro lato, l’organizzazione del call center somiglia a quella del “grande fratello” della comunicazione: l’ideologia del “bravo operatore” (che, competitivo e vincente, potrà raggiungere favolosi obiettivi di vendita e guadagno) costruisce una figura con la quale si trovano a convivere quotidianamente gli operatori. Una figura mitologica da eguagliare, ma che può rivelarsi anche irraggiungibile, insopportabile e violenta. É il leit motivessenziale al processo di valorizzazione capitalistica, una figura che favorisce la precarietà soggettiva ed esistenziale, contro la quale bisogna lottare.
Tesi 3. L’organizzazione di un call center produce necessariamente alienazione e malessere.
L’organizzazione di un call center è gerarchica e non può essere altrimenti, dal momento che gli ordini non sono discutibili. In cima alla piramide c’è il “direttore” che è responsabile dell’intero processo lavorativo. A seconda delle dimensioni del call center, il direttore può essere supportato da “manager” (prevalentemente addetti alla formazione o al miglioramento delle performance) ai quali è affidata la risoluzione dei problemi di coesione aziendale e prevenzione e gestione dei conflitti. In una posizione intermedia troviamo i “supervisor” che coordinano le attività e fungono da catena di trasmissione tra i vertici e la base aziendale. Più in basso ci sono i team leader che si preoccupano di controllare e supportare gli operatori loro assegnati sulla base delle prescrizioni dei supervisor. Alla base troviamo gli operatori che si distinguono a seconda dell’inquadramento contrattuale e dell’attività svolta (in-out-bound). Dal dipendente a tempo indeterminato, addetto inbound, al collaboratore a progetto, addetto outbound. Quest’ultimo è colui che si affaccia al call center con necessità materiali precise e si trova dinanzi un’organizzazione gerarchica con ruoli strutturati, nella quale potrà trovare posto se sarà rispettoso dei comandi e flessibile nelle prestazioni e negli orari.
Tale struttura dei ruoli, abbiamo detto, è funzionale alla cattura delle qualità sociali degli operatori, e non è indolore. I resoconti degli incontri d’inchiesta, da questa angolazione, sono dei veri e propri cahiers de doléances. I partecipanti all’inchiesta ci hanno detto che essere operatore di call center vuol dire essere sempre loggati. Anche quando si esce dal lavoro «si è sempre con quelle maledette cuffie addosso». Così succede a Paolo che agli amici o ai familiari risponde al telefono con lo script iniziale. A Lina che a casa sente squillare sempre il telefono e quando va a rispondere non c’è mai nessuno. A Roberto ed Alessandro che nei giorni di magra (quando si chiudono pochi contratti) sono particolarmente nervosi ed irritabili anche a casa o con gli amici. A Rachele che ha rifiutato il lavoro outbound nonostante fosse una vincente (cioè una che settimanalmente chiudeva il doppio di contratti dei suoi colleghi) perché la portava finita mentalmente, la logorava dentro, le portava uno stato d’ansia che, a suo dire, a furia di reprimerlo rischiava la pazzia. E così via per moltissime altre esperienze, che testimoniano che nel call center le barriere tra tempo di vita e tempo di lavoro si sono definitivamente disciolte, e che il lavoro cognitivo è sottoposto ad uno stress continuo fonte di disagio psico-fisico e di alienazione. Quest’ultima si presenta all’operatore come una cappa che offusca e riempie, uno stato d’animo negativo che lo accompagna anche quando non è loggato.
Un medico del lavoro autore di un pregevole studio sull’argomento è convinto che gli operatori di call center si ammalano di lavoro e che per evitare o ridurre i danni sarebbe sufficiente far sì che sia il lavoratore a governare la tecnologia invece del contrario. Effettivamente è un lavoro che avviene in stabilimenti dove la tecnologia governa ed utilizza gli operatori. Li aliena perché interviene sulla mente e sul corpo: da quando sei “loggato” ti devi attenere completamente ai dettami aziendali sei costantemente controllato e valutato. Dopo qualche mese ci si può trovare emotivamente esausti, in uno stato di burnout. Burnout vuol dire “non farcela più”, “consumarsi”, secondo la traduzione letterale, “esaurirsi” e “scoppiare” secondo quella figurativa. Gli operatori in questo caso vivono una condizione di insoddisfazione e irritazione quotidiana, di prostrazione e svuotamento, di infelicità lavorativa, delusione ed impotenza. L’alienazione è la nemica principale dell’operatore di call center, è ciò che lo rende innocuo e docile, nonostante il super-sfruttamento che vive.
Tesi 4. Il sindacato svolge una funzione arretrata rispetto allo specifico lavoro di call center.
L’ultimo contratto siglato nei call center – quello sui i lavoratori a progetto, che riguarda 40.000 cocopro in outbound (firmato il 1° agosto, da Sle-Cgil, Fistel Cisl e Uilcom Uil con Asstel e Asscontact) – è indicativo dell’arretratezza del sindacato italiano, nel senso che quest’ultimo non è in grado di contemplare le trasformazioni in atto nella produzione materiale e immateriale. Le palesi contraddizioni che emergono da questo accordo consentono inoltre di capire meglio i problemi che impediscono o rallentano i processi di soggettivazione tra gli operatori.
Dopo questo accordo, i lavoratori cocopro sono destinati a rimanere lavoratori a progetto. Il contratto difatti ha confermato questo rapporto senza alcuna previsione di stabilizzazione, in linea con quanto rilevato dal secondo e terzo rapporto Isfol sulla Riforma Fornero: aumenta la percentuale dei contratti precari sul totale dei nuovi assunti, sono ormai quasi al 68%.
Dal loro canto i sindacati sottolineano che i cocopro finalmente potranno accedere alla paga da “contratto nazionale”. Bisogna a tal proposito aggiungere che non è stata la capacità di contrattazione alla base di questa conquista ma la semplice applicazione della Legge Fornero, per la quale i minimi retributivi dei cocopro devono essere come quelli dei dipendenti dello stesso settore e che svolgono analoga mansione.
A ben vedere quest’ultimo contratto inquadra ad un livello più basso del “normale operatore” delle telecomunicazioni (al secondo livello anziché al terzo) ed estende a 5 anni il tempo per l’adeguamento della paga, che dovrebbe invece essere subito obbligatoria. Al danno si aggiunge la beffa: ogni anno l’adeguamento è sottoposto a verifica aziendale.
Insomma, si è data la possibilità alle imprese fuori legge di applicare la Fornero. E proprio sul nodo della legalità arriviamo ad un altro punto contraddittorio: il lavoratore che vuole essere inscritto nel “bacino di prelazione” per i successivi contratti, sempre a progetto, deve firmare una conciliazione sul pregresso. Peraltro, la stessa intesa afferma di “voler contrastare gli abusi” e stabilisce paghe orarie. Ma un lavoratore autonomo non dovrebbe guadagnare per obiettivi e non per paghe orarie? Palesi contraddizioni, dicevamo, al fine di acquisire conciliazioni. Quindi anche le aziende che compissero abusi, che violassero le leggi, che fossero contigue a organizzazioni criminali avrebbero praterie davanti per questa conciliazione.
Essere esclusi da un bacino lavorativo (di ulteriore precariato) solo perché non si è sottoscritto un testo magari non veritiero è la cifra di quanto siamo alla frutta!
Insomma, non solo non si contrattano le condizioni di precarietà per eliminarle o ridurle, non solo si è incapaci di immaginare e proporre “variabili distributive” più consone all’attuale produzione di ricchezza, ma si assiste impotenti alla progressiva perdita di valore economico del lavoro. Il ritardo culturale dipende dal fatto che il sindacato è imbevuto di etica lavorista e legittima se stesso sull’attuale sistema degli ammortizzatori sociali. Testardamente interessati a lavorare e ragionare con le categorie classiche del capitalismo industriale sono ciechi dinanzi alle novità (finanziarie e biopolitiche) del capitalismo cognitivo.
Tesi 5. Se la vita è produttrice di valore capitalistico, il reddito di base è la misura relativa adeguata alla retribuzione delle attività vitali.
Finché c’è separazione tra lavoro e vita, c’è anche una separazione concettuale tra salario e reddito. Ma quando la vita viene messa a lavoro la separazione perde consistenza. La tendenziale sovrapposizione tra lavoro e vita (quindi tra salario e reddito) non è considerata dall’attuale regolazione istituzionale. Il conflitto univocamente orientato alla richiesta salariale deve piuttosto riguardare la lotta per la continuità di reddito, a prescindere dall’attività certificata da un qualche rapporto di lavoro. Possiamo dire che nel biocapitalismo cognitivo la rivendicazione di un reddito di base equivale a ciò che rappresentava la richiesta di salari più elevati nell’era del capitalismo industriale fordista.
É importante però ribadire che salario e reddito sono complementari e non conflittuali, riguardano settori diversi del lavoro. In modo schematico: il salario è qualcosa che riguarda gli occupati dipendenti (la lotta dei quali oggi, purtroppo, è una lotta di resistenza, troppo spesso schiacciata dal ricatto della concorrenza e dell’alto costo del lavoro), il reddito è qualcosa che riguarda i precari. Le due lotte non si escludono, ma il ragionamento di estendere ai precari il diritto al lavoro dipendente, oggi, in Italia, ha qualcosa di fiabesco, sicuramente non coglie le novità epocali del capitalismo e, così facendo, ne favorisce il dominio.
Il reddito di base, di converso, rappresenta un elemento di regolazione istituzionale idoneo alle nuove tendenze del capitalismo contemporaneo. Esso introduce il tema della distribuzione della ricchezza sociale generata dalla cooperazione e produttività sociale. Va considerato come un salario sociale legato ad una contribuzione produttiva oggi non remunerata e non riconosciuta. Il reddito di base afferma il primato dei saperi vivi mobilizzati dal lavoro, rispetto ai saperi incorporati nel capitale fisso e nell’organizzazione manageriale d’impresa. Il reddito di base riconosce la crisi del regime industriale di stampo fordista, che distingueva nettamente tra tempo di lavoro diretto, effettuato durante l’orario di lavoro ufficiale e considerato come il solo tempo produttivo, ed il tempo “libero”, dedicato alla riproduzione della forza lavoro e considerato improduttivo. Questa distinzione nel biocapitalismo cognitivo, lo ribadiamo, è saltata in aria. La valorizzazione attiene anche a quello che gli economisti chiamano capitale intangibile: l’educazione, la formazione e la ricerca, la salute, eccetera; tutte cose incorporate nel cervello degli uomini. Nella nostra attuale epoca, la fonte della ricchezza si trova a monte del sistema delle imprese e le condizioni della riproduzione e della formazione della forza lavoro sono divenute direttamente produttive: il tempo di lavoro immediato è solo una frazione del tempo sociale di produzione.
Dal punto di vista dei call center calabresi, l’introduzione di un reddito di base è una proposta adeguata al livello di sfruttamento al quale sono sottoposti gli operatori. Perché il reddito di base, individuale e incondizionato, farebbe saltare in aria tutti quei piccoli e medi call center che vivono grazie a collaboratori con retribuzioni da fame. Ed imporrebbe alle realtà di grandi dimensioni di aumentare i magri salari che dispensano; le costringerebbero, in altri termini, a riconoscere (almeno in parte) quelle qualità comuni produttrici di valore capitalistico delle quali abbiamo discusso. Ad un livello più generale, del Mezzogiorno italiano, il reddito di base sarebbe in grado di sottrarre i giovani (e tutti coloro i quali si trovano in condizioni di povertà) dal ricatto sociale clientelare. Dal momento che si può contare su un reddito di base, non si è obbligati a condividere le relazioni clientelari, così come si è liberi di disobbedire a quei valori culturali, socialmente testati, per i quali l’affiliazione al network di potere è determinante per una vita economicamente dignitosa. In altri termini il reddito di base, che nei paesi a capitalismo avanzato è una classica politica riformista, nel nostro paese moltiplicherebbe l’indisponibilità dei giovani meridionali a far parte dell’attuale assetto di potere clientelare, il quale si troverebbe svuotato, senza più sudditi ai quali concedere favori ma con cittadini liberi titolari di diritti fondamentali. In questi termini si tratta di un riformismo sovversivo.
La tematica del reddito di base è portata avanti da diversi soggetti politici. Non sono mancate le raccolte di firme, i dibattiti e seminari mirati, gli approfondimenti analitici, eccetera. Non c’è però, sempre, comunanza di vedute: per molti il reddito di base è sostanzialmente un sussidio di disoccupazione, un ammortizzatore sociale. Il problema così impostato è fuorviante e politicamente nocivo. Il reddito di base non va inteso come una misura di aiuto quando un padrone è fallito o ti ha sbattuto sulla strada. La corretta interpretazione, aderente a quanto siamo venuti fin qui dicendo, deve tener conto del “passaggio” compiuto dal modo di produzione capitalistico. Se non ci si allinea a quest’ultimo, se non si riesce a compiere un salto culturale, ricadiamo nell’antagonismo salario/reddito, dove quest’ultimo è un sostituto del primo quando si è perso lo status di occupato. Dobbiamo invece avere il coraggio di affermare che se la vita viene messa a valore e produce ricchezza, allora è la vita intera che deve essere remunerata. Il reddito di base non è nient’altro che il compenso per tutte quelle attività produttrici di valore capitalistico che non vengono retribuite, non è l’aiuto umanitario ma è il riconoscimento del maltolto.