Abbiamo conosciuto Benedetto Vecchi ai tempi di Uninomade e più volte ci siamo incontrati in riunioni, assemblee e manifestazioni. Un compagno e un amico sincero e gentile. Il suo discorso sull’informatica, le reti e le piattaforme ci è stato fondamentale per capire le attuali trasformazioni e le dimensioni tecnologiche del capitalismo. La sua scomparsa ci lascia un grande vuoto dentro. Vogliamo ricordare Ben Olds con le parole di Toni Negri e Marco Bascetta sul Manifesto di oggi.
Se n’è andato, è partito con la sua vecchia moto?
di TONI NEGRI
«Ho comperato Wired… dimmi, Benedetto, chi è questo Negroponte? Un mago…?» Diversamente dal solito, Ben ride fragorosamente. Non val neppure la pena di prendermi in giro, tanto – ne è fermamente convinto – continuerò a fingere di muovermi nel mondo informatico. Lui no, lui c’entra davvero, lo studia e spiegherà più e meglio di Negroponte, la complessità della Rete.
QUESTO ricorderò di Ben, che sempre precisava i nostri comuni pensieri, quando non correggeva i miei arzigogoli marxisti. Ci ha insegnato a identificare il potere produttivo della Rete e a scoprirne le funzioni estrattive. Il General Intellect lo ha scorticato e ricostruito dal basso. Ci ha mostrato che questa era l’unica via per comprendere la cultura, il modo di vita informatici e la produzione automatica. E che bisogna attraversare il caos e la dissipazione che i mutamenti tecnologici provocano, per riuscire a costruire un ordine migliore. E che non si poteva pensare che la «sussunzione reale» rendesse tutto liscio ma, al contrario, che poteva arricchire la realtà e il sapere di infinite declinazioni.
Lo chiamavano postoperaista: «se operaista è uno che non usa il computer – mi diceva ridendo – hanno ragione di affibbiarmi questo post». Ma è tutto per uno che l’operaismo lo ha reinventato nelle pratiche della lotta di classe che attraversano il digitale.
NON NE HA PERDUTA una di occasioni, da Seattle a Plaza del Sol, la «tecnopolitica» l’ha ripassata tutta. Poco tempo fa, gli ho chiesto: «Ben, questa Teresa Numerico è un tuo nome d’arte?». Benedetto ride fragorosamente, diversamente dal solito: «Certo son miei pseudonimi, Numerico e Lovink e tanti altri – come una volta quando si parlava di General Intellect, lo erano Paolo e Marco e tanti altri – perché ancora e sempre, quando si avanza nella ricerca, siamo un noi».
Questa mattina mi telefonano: «Ben se ne è andato!». Dove, chiedo. È partito con la sua vecchia moto? Riprendo fiato e dico all’amico: «vedrai che presto avrai una mail dove ti chiede una recensione o un articolo». Aggiungo: «era l’unico cui non si poteva dire di no». Fatti intanto una vacanza, Ben, con quella bella moto.
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La lotta di classe si è spostata nel cyberspazio
di MARCO BASCETTA
Da dove cominciare non si sa. Da un amico carissimo, compagno di quasi tutto. Complice fino in fondo. Nelle pagine culturali del giornale, nei cortei, nelle assemblee di movimento, nel lavoro di ricerca, in quel sentire comune (e comunardo) che lega noi vecchi e meno vecchi ragazzi degli anni ’70.
Benedetto è stato dall’inizio alla fine un compagno di movimento senza mai cadere però nella retorica movimentista, nelle illusioni autoconsolatorie, senza mai rinunciare a vedere i limiti, le impasse, i circoli viziosi di quel mondo inquieto e volubile. Con una passione politica a tutto tondo, ma senza ombra di settarismo. Trascinato da una curiosità intellettuale, da un desiderio di sapere che lo ha reso un vorace divoratore di libri e di testi d’ogni genere.
Scriveva molto e molto in fretta accumulando una leggendaria quantità di refusi, ma offrendo sempre ai suoi lettori una panoramica larga e mai banale delle idee più innovative e del dibattito politico-culturale in corso.
COSÌ IN QUESTO GIORNALE in cui ha lavorato per molti anni, senza mai risparmiarsi, è andato spesso e volentieri controcorrente, battendosi contro prese di posizione che riteneva errate, contro ogni adagiamento sulle certezze della tradizione e ogni diffidenza verso le metamorfosi del lavoro e l’insorgere di nuove forme di vita.
Stava sul confine, Benedetto, in una posizione sovente scomoda.
Nel collettivo del giornale difendeva le ragioni dei movimenti e del loro radicalismo, così come nelle sedi di movimento difendeva il ruolo del manifesto e le sue ragioni.
A lui questo giornale, noi tutti, dobbiamo moltissimo. Soprattutto per due ragioni.
La prima è quella di avervi introdotto, all’inizio insieme a Franco Carlini, le tematiche dell’era digitale dalla nascita di Internet al capitalismo delle piattaforme (cui avrebbe dedicato un libro con questo titolo) leggendo questa parabola in quei termini conflittuali che derivavano dalla tradizione operaista cui era vicino, ma non del tutto interno. Che anche rispetto ai suoi compagni più vicini Benedetto non ha mai rinunciato a rimarcare l’autonomia del suo pensiero e la specificità della sua esperienza politica.
Andare a cercare la lotta di classe nel cyberspazio come proiezione di un’aspra realtà materiale, non rientrava negli orizzonti dei fondatori del manifesto e nell’habitus mentale di gran parte del collettivo, che, piuttosto, di questo «nuovismo» diffidavano. Su questo terreno altri, nei movimenti, erano ben più avanti. E Benedetto faticò a farsi ascoltare e capire, mai rinunciando, tuttavia, a lavorare perché il manifesto diventasse una sede importante di questa ricerca e di questa discussione.
LA SECONDA RAGIONE è stato il suo logorante impegno come presidente della cooperativa del nuovo manifesto, nel corso di un passaggio difficilissimo e lacerante.
Chi conosceva bene la sua indole, le sue idee politiche, può facilmente capire quanto potesse essere gravoso per un ribelle abituato alla libertà delle dimensioni di movimento piegarsi alle regole, alle norme, alle costrizioni finanziarie e legislative contro le quali si era sempre battuto, sia pure per salvare una realtà politico-giornalistica cui attribuiva grande valore.
Lo ha fatto con il medesimo sistema con il quale aveva costruito il suo profilo intellettuale. Con lo studio continuo e meticoloso, in questo caso dell’impervia materia societaria, ascoltando gli esperti di questo o quel segmento della politica aziendale. Con qualche ruvidezza, forse, dovuta proprio alla natura costrittiva e tanto diversa dalla sua di ciò che si era trovato a fare, il «bottegaio» diceva lui del suo ruolo di amministratore. Alla fine con successo per quanto era nei suoi poteri. Ci scherzavamo su, con una vena di amarezza e un po’ di costernazione.
IL GIORNALE, però , sebbene Benedetto cercasse di riversarvi la sua intera esperienza, non era che un segmento del suo mondo.
Nelle riviste, da Luogo Comune a Deriveapprodi aveva introdotto competenze e punti di vista che anche in quei collettivi erano ancora carenti. E avrebbe continuato a svolgere un ruolo importante in esperienze di ricerca teorica e di intervento politico come Uninomade e poi Euronomade, oltre che in una miriade di seminari, incontri, dibattiti, presentazioni di libri. Fino a poche settimane fa.
Era soprattutto quello il suo mondo. Una collettività critica e inquieta alla perenne ricerca di varchi attraverso i quali scardinare l’ordine dominante. Tenuta insieme non solo dalle idee, ma da affetti, simpatia e affinità elettive. Una vita pubblica che si estendeva e arricchiva nei legami personali, che Benedetto coltivava con grandissima cura, con empatia, con un’attenzione continua al benessere dei suoi cari e dei suoi molti amici. Di cui, credo, in molti serbiamo un vivido ricordo.
A rivederci, dunque, non solo in quei ricordi ma nelle molte tracce lasciate lungo la strada che abbiamo percorso insieme.