di ANNA CURCIO (in sudcomune, n.0/2015)
Alcuni appunti
La crisi, si sa, è occasione di trasformazione. Almeno in potenza. E le lotte degli ultimi anni ne possono essere prova. Era appena crollata Lehman Brothers, come preludio di una crisi economica di cui non vediamo la fine, che già nell’autunno del 2008, il movimento degli studenti in Italia – l“Onda anomala” – riempiva le piazze al grido di “Noi la crisi non la paghiamo”. Negli anni successivi, altri movimenti di studenti, in Inghilterra e negli Stati Uniti, si sarebbero opposti ai tagli di budget nelle università, imposti con il pretesto della crisi. Poi tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011 è stata la volta delle insorgenze arabe che hanno espresso una fragorosa opposizione ai regimi autoritari in Tunisia, in Egitto, e con dinamiche e conseguenze differenti anche in Libia, Siria, nel Barain. Ancora una volta una componente prevalentemente giovanile, mediamente istruita, a suo agio nella comunicazione digitale, e compressa dentro gli spinti processi di precarizzazione neoliberale, aveva preso parola. Negli anni successivi, in un rimando continuo tra Nord e Sud del mondo e, per restare in Europa, tra le due sponde del Mediterraneo, abbiamo visto rimbalzare linguaggi, pratiche e immaginari. Dal Maghreb alle piazze spagnole e greche e dunque oltre oceano con l’esplosione del movimento Occupy, e di nuovo lungo le coste del Mediterraneo a Istanbul nel 2013 e poi ancora al di là dell’Atlantico con l’esplosione del movimento per il Passe-livre in Brasile. E questo solo per citare alcune delle lotte di cui più si è parlato.
Si è trattato certamente di lotte tra loro differenti, sempre innescate da questioni di natura locale/nazionale, nel senso che le rivendicazioni avanzate hanno sempre riguardato questioni territorialmente specifiche: la rapacità di Wall Street, la costruzione di un centro commerciale nello storico parco di Gezi a Istanbul, il potere autoritario e la corruzione dei regimi di Ben Alì e Mubarack in Tunisia e Egitto, l’istallazione di un sistema di controllo della velocità nelle strade di Maribor in Slovenia, l’aumento del prezzo dei trasporti pubblici nelle metropoli brasiliane, e così via. Tuttavia, queste lotte, pur scaturite da rivendicazioni specifiche, hanno tutte al contempo assunto un respiro immediatamente transnazionale, nel senso che hanno individuato la propria controparte nelle politiche neoliberali diffuse sul piano globale che stanno all’origine della crisi e delle politiche del rigore.
In questo senso si può parlare di un vero e proprio ciclo di lotte nelle crisi, articolato all’intersezione tra il piano nazionale e sovranazionale, che ha messo profondamente a critica il neoliberismo. Un ciclo più propriamente della soggettività, nel senso che nelle differenze che hanno segnato le lotte nella crisi, è possibile individuare una comune composizione soggettiva (1). Si tratta prevalentemente di un ceto medio ormai privato di quella funzione di mediazione assegnatagli dal compromesso fordista e dunque superfluo alle logiche neoliberali, insieme ai poveri delle metropoli, intesi marxianamente come quella parte della working-class con occupazioni informali o sui generis che vive al disotto dei livelli di povertà, a cui il neoliberismo ha esplicitamente dichiarato guerra (2).
Guardare alle lotte nella crisi mettendo a fuoco il ciclo della soggettività permette, inoltre, di complicare l’idea del ciclo, sgombrando il campo da ogni possibile lettura lineare tra crisi e lotte, tra il peggioramento delle proprie condizioni di vita innescato dalla crisi e la produzione di percorsi conflittuali. Tanto più che alcune tra le lotte più significative di questi anni hanno interessato i BRICS, o comunque paesi in cui la crisi non ha fatto registrare dinamiche recessive, come è invece accaduto in Europa e negli Stati Uniti. Si pensi ad esempio alle lotte per il Passe-livre in Brasile o, con alcune differenze, al movimenti degli ombrelli a Hong Kong, o alle stesse insorgenze arabe del 2011. Mettere a fuco le soggettività delle lotte, vuol dire allora considerare, oltre ogni determinismo, lo spazio di tensione tra soggetti e contesto, tra le specifiche e differenti condizioni economiche e produttive che interessano le economie mondiali nella crisi e la produzione di soggettività. Significa, detto altrimenti, interrogare la tensione sempre aperta tra assoggettamento al capitale e produzione di soggettività autonome. Da questo punto di vista, le lotte nelle crisi possono essere più proficuamente lette alla luce, e dentro quello spazio di tensione tra le condizioni materiali determinate dal contesto e le proiezioni anche emozionali, o le “aspettative”, che i soggetti producono rispetto alla loro stessa vita.
Il tema delle aspettative può, in questo senso, mettere a fuoco le lotte nella crisi, per coglierne le differenti sfumature e interrogarsi sui nodi aperti e le questioni irrisolte. Un angolo d’osservazione peculiare, per affinare gli strumenti necessari a dipanare la sempre intricata matassa dei processi di soggettivazione autonoma e, perché no, per provare a rispondere alla domanda del perché in Italia, nonostante il mordere della crisi, non ci sia stato un movimento Occupy. Più precisamente, questo breve saggio, intende riflettere, a mo’ di appunti, sull’ipotesi di un ciclo di “lotte allo specchio”, che vede, nel frame comune di lotta al neoliberismo, inclinazioni soggettive speculari. Ovvero lotte che si sono date in un contesto di “aspettative crescenti” come tensione all’appropriazione di una ricchezza socialmente prodotta in contesti produttivi in espansione o solo in parte segnati dalla crisi e lotte che hanno invece preso forma in un contesto di “aspettative decrescenti” come difesa o salvaguardia di prerogative sociali mese in discussione nella crisi. Si tratta, evidentemente, di uno schema di lettura che riprende, riarticolandola nei contesti della crisi del neoliberismo, l’intuizione Toquevilliana secondo cui una rivoluzione esplode non quando la situazione economica è drammatica, ma quando questa migliora non abbastanza da soddisfare le aspettative della popolazione (3). Ma resta un’ipotesi di massima, una traccia di lettura, non la formula risolutoria che interpreta le lotte nella crisi.
Un ciclo di lotte nella crisi
L’idea del ciclo qui proposta, seppur nell’accezione di ciclo della soggettività, evidenzia, innazitutto, una comune critica al neoliberismo. In linea con le più recenti analisi sul capitalismo neoliberale (Streeck 2013; Crouch 2012) le lotte nella crisi, pur negli inneschi specifici che le hanno alimentate, hanno tutte largamente insistito sulle “distorsioni” introdotte dalla sovrapposizione tra Stato e mercato, tra pubblico e privato, ed hanno declinato una critica originale rivolta, al contempo, alle strutture di potere e ai dispositivi di sfruttamento. In questo senso, le lotte non hanno assunto una dimensione strettamente economica, meramente rivolta alle politiche del rigore e ai tagli che nella crisi hanno interessato soprattutto il welfare. Hanno piuttosto messo in discussione la violenza del capitalismo contemporaneo come questione più propriamente politica (o etico-politica). E il tema dell’indignazione per la corruzione della politica istituzionale e dei mercati è diventatao cruciale a tutte le latitudini.
Il tema spinoso e controverso della corruzione si presenta, in questo senso, come utile esemplificazione della doppia natura delle le lotte nella crisi, tra economia e politica, tra critica etica e critica sociale. Nel senso che la critica e la lotta alla corruzione che ritroviamo come costante dalla Tunisia alla Spagna, dalla Slovenia all’Egitto, ma anche nella critica serrata alla corruzione della finanza mossa da OWS o in alcuni dei discorsi sviluppati in Italia dal M5S, non è solo intesa come critica al sistema politico e di potere, non è cioè mera espressione della crisi di legittimità delle istituzioni democratiche. È, al contempo, l’espressione della frustrazione per i processi di declassamento e impoverimento innescati dalle politiche di austerity. Detto altrimenti, la critica al potere è immediatamente critica ai rapporti di produzione. È il disappunto per le promesse di ascesa sociale tradite o la paura di perdere i propri privilegi. In tutti i casi un ostacolo – o limite – al conseguimento delle proprie aspettative di vita. A tal proposito, si può notare come la critica alla corruzione abbia saputo canalizzare verso obiettivi concreti la frustrazione per le aspettative deluse o tradite, individuando la controparte delle lotte nella governance neoliberale sul piano nazionale e sovranazione. In questo senso il tema della corruzione nelle lotte ha funzionato come dispositivo “tattico”, per l’articolazione e declinazione della protesta (4).
Nel suo articolarsi tra Stato e mercato, tra pubblico e privato, la critica al neoliberismo mossa dalle lotte nella crisi ha poi portato in primo piano il tema della riproduzione sociale. Più precisamente, si potrebbe dire che sul terreno della riproduzione sociale si gioca oggi un’importante partita, data anche la pervasività del capitale contemporaneo che ha esteso all’intera vita i processi di estrazione del valore. Si parla, in questo senso, di un vero e proprio «assalto alla riproduzione sociale condotto dal capitale finanziario» che si è soprattutto tradotto come smantellamento del welfare (5). In questo quadro, le lotte nella crisi, come ha notato Christian Marazzi, sono lotte per la «possibilità stessa di sopravvivere» (6), nel senso che quando l’intera vita è messa a valore, come dentro le coordinate della produzione neoliberale – e quando la vita stessa diventa terreno di valorizzazione per il capitale (si pensi ad esempio ai processi di indebitamento o alla compravendita del genoma umano) e le forme della riproduzione sociale vengono messe sotto attacco (come sta accadendo in Italia e in Europa con i pesanti tagli al welfare che accompagnano il neoliberalismo e la sua crisi) – la lotta diventa una questione di sopravvivenza, da cui dipende la possibilità stessa della riproduzione sociale.
In questo quadro, la critica congiunta che le lotte nella crisi muovono allo Stato e al mercato, al pubblico e al privato, non punta a restaurare equilibri sociali compromessi dalla crisi come garanzia per la “sopravvivenza”. Non è la richiesta di un intervento pubblico a sostegno del welfare (come avevano fatto altre lotte negli anni ’60 e ‘70). Si presenta piuttosto come la sperimentazione e invenzione di un nuovo terreno che si rende “autonomo” dal privato del mercato e dal pubblico dello Stato. L’invenzione collettiva di un nuovo rapporto sociale fondato sulla condivisione e la cooperazione. È, detto altrimenti, la sperimentazione di uno spazio di produzione del comune o commoning che è al contempo fonte e risultato della cooperazione sociale, ovvero l’ambito in cui si da la composizione del lavoro vivo e al contempo prende forma la sua autonomia. Si pensi ad esempio all’esperienza delle Mareas in Spagna. Qui le lotte hanno inventato e praticato un nuovo terreno di cooperazione, autonoma dal privato del mercato e dal pubblico dello Stato che, nel contrastare i tagli al welfare e la conseguente riduzione di taluni servizi come la sanità o la formazione scolastica, ha sperimentato l’azione congiunta e conflittuale di lavoratori e utenti dei servizi come organizzazione e gestione comune e autonoma del servizio messo in discussione.
In questo senso è possibile sostenere che, nella crisi, il terreno della riproduzione diventa cruciale, vero e proprio campo di battaglia. Perché la riproduzione non è solo terreno della valorizzazione capitalistica ma anche, come ricorda Silvia Federici, la «pietra su cui si fonda il comune» (7). E, la produzione del comune, a OWS così come a Gezi Park, nella Casba di Tunisi o nell’esperienza delle Mareas, ha trovato il suo fondamento proprio attraverso pratiche che hanno messo al centro l’aspetto specifico della riproduzione dei movimenti e degli stessi soggetti che li animano. Così le piazze occupate hanno riservato grande attenzione alla gestione e organizzazione delle aree e delle attività comuni (dalla presa in carico di servizi come cucine e biblioteche fino alla discussione sui rapporti di genere, la violenza contro le donne e così via (8), ciò sempre valorizzando una dimensione di condivisione e cooperazione rispetto ad una più verticistica modalità propria alle strutture tradizionali della rappresentanza democratica.
Lotte allo specchio
Anche dal punto di vista della composizione delle lotte è possibile individuare un piano comune tra le differenti esperienze conflittuali che sul piano transnazionale hanno preso forma negli anni della crisi. Come si diceva, ad aver preso parola nelle strade e nelle piazze di mezzo mondo è stato soprattutto un ceto medio privato della sua funzione di mediazione sociale, con una forte componente giovanile, affiancato o accompagnato da una nuova figura di povero, tutt’altro che improduttivo, che vive però al di sotto della soglia di povertà. Penso in particolare agli homeless di Ows o ai camaleros, gli ambulanti delle favelas brasiliane nelle proteste per il passe-livre, ma anche ai poveri della periferia tunisina dove la protesta è esplosa prima di raggiungere il cuore politico del paese, e tutti quei poveri sulla cui vita il capitale ha investito, indebitandoli.
Nel quadro di un’analisi che considera il contesto di “aspettative soggettive” da cui le lotte hanno preso forma, è possibile sostenere che ad essere soprattutto colpite sono state le aspettative di giovani e giovanissimi (ma non solo) che hanno visto declinare o drasticamente peggiorare le proprie condizioni di vita e di lavoro. Spesso si è trattato, almeno in Europa, di precari di “seconda generazione”, ovvero soggetti immediatamente socializzati a una condizione di precarietà e privati di ogni aspettativa sul futuro. Ad animare i conflitti nella crisi è dunque, soprattutto, un vasto e variegato precariato sociale, figlio diretto del neoliberismo, fatto non più e non solo del precario classicamente inteso come lavoratore intermittente e non coperto da tutele, ma da tutta una più vasta schiera di inoccupati, disoccupati, temporaneamente occupati, parzialmente occupati, pensionati, studenti e neet.
Si potrebbe dire, schematizzando, che a riempire le piazze occupate sono stati soprattutto giovani mediamente istruiti, che maneggiano con disinvoltura le tecnologie digitali e la comunicazione in rete, spesso con alti livelli di istruzione. Per esempio, in Tunisia, il relativamente alto grado di istruzione ha senza dubbio svolto un ruolo cruciale nella costruzione della protesta, mentre nelle metropoli brasiliane i programmi di diffusione culturale nelle favelas avviate dal lulismo hanno senz’altro costruito un terreno importante nei processi di politicizzazione. Si tratta di soggetti che sul piano più propriamente politico, o più precisamente della rappresentanza politica, hanno espresso un rifiuto diffuso per le forme tradizionali della democrazia rappresentativa. Un rifiuto altrimenti inteso come irrappresentabilità, ovvero impossibilità ad essere ricompresi dentro i canali tradizionali della rappresentanza democratica: partiti e sindacati ma anche organizzazioni di movimento.
Dati questi tratti comuni, tuttavia, il contesto di aspettative che ha dato forma alle lotte non può essere assunto come omogeneo. Nel senso che le lotte nella crisi hanno preso forma da contesti sociali e produttivi, e dunque alla luce di inclinazioni soggettive, tra loro differenti e speculari. Detto altrimenti, quello stesso ceto medio e anche quei poveri che sono stati colpiti in modo inequivocabile dalla crisi, hanno però fatto esperienza della crisi in modo diverso da paese a paese. Perché in modo diverso la crisi si è articolata sul piano globale. Ha cioè in modo diverso e con intensità differenti interessato le economie globali e dunque il lavoro vivo. Riflettendo sull’ipotesi di “lotte allo specchio”, si potrebbe dunque dire, sintetizzando, che da una parte stanno le lotte in quei paesi segnati da un processo di crescita economica – come il Brasile, la Turchia o gli stessi stati Nord Africani interessati dalle insorgenze del 2011 – dove le lotte hanno preso forma in un contesto di “aspettative crescenti”, dall’altra parte stanno invece le lotte nei paesi del Sud dell’Europa o negli Stati Uniti, dove la crisi ha più marcatamente segnato le economie e le lotte hanno preso forma in un contesto di “aspettative decrescenti”.
Si prenda ad esempio il caso del Brasile. Nel contesto di crescita economica che ha caratterizzato gli anni del lulismo, tra il 2003 e il 2011, ha preso forma un ceto medio prevalentemente cognitivo e precario, che ha cominciato a politicizzarsi in modo autonomo. Un ceto medio altamente precario e quindi ben lontano dall’idea tradizionale di una classe media stabile, capace di mediare i conflitti sociali. Un ceto medio, dunque, più fittizio che sostanziale, immediatamente calato nel contesto metropolitano, che ha costruito un terreno di lotta comune con i poveri delle favelas. Questi, tutt’altro che esclusi dai processi produttivi, costituiscono un tassello importante della crescita del paese, muovono infatti l’economia informale lavorando anche come ambulanti, camerieri o addetti ad altre attività low-cost. Tanto gli uni quanto gli altri hanno visto nell’aumento dei trasporti pubblici un attacco diretto alle aspettative di mobilità sociale innescate dalla crescita economica. Com’è stato notato, per i poveri delle favelas, in particolare, il rincaro dei trasporti metteva in immediatamente in discussione la possibilità di vivere autonomamente gli spazi della metropoli. In questo senso non è un caso che nel 2013, la protesta sia scoppiata sulla questione della mobilità, un terreno intrinseco al lavoro vivo contemporaneo, che ha permesso la ricomposizione di strati sociali differenti, come conquista di qualcosa da cui si veniva esclusi, come riappropriazione della ricchezza sociale prodotta (9).
Nel caso invece dei paesi del Sud dell’Europa, il contesto è, in modo speculare, quello di una profonda contrazione economica e produttiva che ha innescato violenti processi di declassamento e impoverimento che hanno colpito soprattutto il ceto medio. In questo quadro, le esplosioni sociali in Grecia e soprattutto in Spagna hanno visto un precariato cognitivo, declassato e indebitato (che in Spagna aveva attraversato la bolla immobiliare degli anni ‘0, legata dell’economia del turismo) che nella crisi stava sperimentando la drastica espulsione da una serie di servizi, privilegi e garanzie sociali. Un proletariato metropolitano senza futuro, fatto soprattutto di “precari di seconda generazione” che vivono l’assenza di futuro come dato costitutivo della propria esistenza, senza più sogni di riscatto sociale. Qui, le lotte si sono declinate come difesa o opposizione ai processi di impoverimento, ed hanno assunto la forma della difesa di specifiche garanzie e prerogative sociali, come orientate a mantenere specifici privilegi sociali messi in discussione dalla crisi.
Occorre tuttavia notare, complicando l’ipotesi di partenza, che il contesto di aspettative non pesa solo sulla determinazione soggettiva alla lotta, può anche influenzare la capacità o propensione della lotta stessa a generalizzarsi. In questo senso, ancora schematizzando, si potrebbe dire che in un contesto di aspettative decrescenti la difesa di garanzie e prerogative sociali può impedire o limitare la costruzione di un terreno di composizione e generalizzazione della lotta, lasciando prevalere la segmentazione sociale. Viceversa in un contesto di aspettative crescenti le lotte, orientate alla redistribuzione della ricchezza socialmente prodotta, sono più propense ad aprire il campo alla costruzione di un piano trasversale di ricomposizione sociale. L’ipotesi di un ciclo di lotte allo specchio può dunque essere sviluppata considerando che la ricomposizione nella lotta di strati sociali differenti ma accomunati dalla ricadute sociali della crisi, costituisce uno dei terreni indispensabili per la produzione e generalizzazione dei conflitti, dove il contesto di aspettative crescenti favorisce una ricomposizione trasversale alle appartenenze sociali mentre il contesto di aspettative decrescenti insisterebbe maggiormente sulla frammentazione e segmentazione sociale.
Specificità e limiti del contesto italiano
Per quanto riguarda lo specifico contesto Italiano è evidente che, nonostante il mordere della crisi, non si sia dato alcun movimento capace di produrre ricomposizione sociale e generalizzare il conflitto. Tuttavia, occorre sin da subito sgomberare il campo dalle false convinzioni. Non è infatti vero, come viene a volte sostenuto, che nell’Italia della crisi non abbiano preso forma percorsi conflittuali e lotte di opposizione alle politiche neoliberiste. Al contrario la storia più recente del nostro paese è ricca di importanti momenti di conflitto, dal movimento degli studenti dell’Onda nel 2008 – che forse per primo ha messo a fuoco le ricadute sociali della crisi – alle importanti mobilitazioni contro la linea ad alta velocità in val di Susa, dalle lotte “spurie” del “movimento 9 dicembre” o del suo antecedente storico, la rivolta dei forconi in Sicilia, fino alle più recenti lotte dei lavoratori della logistica di distribuzione che stanno imponendo nuove coordinate al lavoro nel settore. Comunque, l’esistenza di queste lotte pur importanti e significative sul piano delle ricadute politiche e sociali, non ha effettivamente aperto il campo alla composizione di un movimento ampio e trasversale come quelli che in altri paesi hanno messo a critica il neoliberismo.
L’ipotesi delle lotte allo specchio – e in particolare l’idea che le lotte che prendono forma in un contesto di aspettative decrescenti abbiano meno propensione, o incontrino maggiori difficoltà, nel produrre processi di generalizzazione – può, in questo senso, venirci in aiuto. Ciò che soprattutto sembra, infatti, essere mancato ai pur significativi percorsi di lotta che hanno preso forma in Italia è stato proprio il piano della generalizzazione, quell’abilità o capacità di costruire un piano di ricomposizione politica tra soggetti sociali differenti ma accomunati dal costante impoverimento e declassamento determinato dalla crisi (10). Si pensi ad esempio alle lotte dei lavoratori dello spettacolo che per alcuni anni hanno attirato l’attenzione di analisti e militanti che vedevano nella pratica dell’occupazione dei teatri (dal teatro Valle a Roma al teatro Garibaldi a Palermo, solo per citarne alcuni) un importante esercizio di produzione conflittuale e sperimentazione del comune, come avanguardia, o punta di diamante, di una nuova soggettività conflittuale nella crisi. Queste esperienze però, lungi dal produrre processi di generalizzazione, hanno finito per chiudersi su se stesse, spesso inciampando nell’egoistica salvaguardia di prerogative e privilegi messi in discussine dalla crisi. Un discorso analogo potrebbe esser fatto per il lavoro cognitivo nel suo complesso, spesso individuato quale soggetto politico centrale nel capitalismo contemporaneo. Dai ricercatori precari nelle università fino alle cosiddette partite iva, le forme della ricomposizione sociale delle lotte e della costruzione di un piano di generalizzazione sono rimaste non più che una dichiarazione di intenti (11).
Su di un piano per certi versi differente si sono invece mosse le lotte nella logistica di distribuzione, che hanno preso forma in quello che potrebbe essere definito un contesto di aspettative crescenti. Quello della logistica di distribuzione è infatti uno dei settori produttivi che, nonostante la crisi, ha continuato negli anni a produrre utili. Le lotte sono state in queste senso mosse dall’aspettativa dei lavoratori di riappropriarsi di quella ricchezza sociale che producevano, pur rimanendone esclusi. Nello stesso tempo, data la particolare composizione della forza lavoro, prevalentemente lavoro migrante razzializzato, le aspettative soggettive riposte nella lotta da coloro che occupano i gradini più bassi delle gerarchie del lavoro e sono esclusi dai diritti legati alla cittadinanza, hanno anche avuto a che fare con la possibilità di migliorare complessivamente la propria condizione di vita. Non solo dunque poter avere più soldi in busta paga e maggiori tutele sul lavoro, ma anche poter mettere fine agli abusi, ai ricatti e al razzismo dilagante che segnano l’esperienza di vita dei lavoratori e delle lavoratrici migranti in Italia e in Europa.
In questo quadro le lotte nella logistica di distribuzione non si sono limitate a mettere in discussione le forme dello sfruttamento nel settore, hanno mosso una critica complessiva alle politiche neoliberiste sul lavoro che ha permesso, almeno in potenza, l’apertura di un piano di composizione politica trasversale alle appartenenze sociali, alle posizioni rispetto alla cittadinanza, al genere e alle generazioni. Davanti ai cancelli dei magazzini della logistica si sono visti insieme ai facchini in lotta, i lavoratori di altri magazzini, altri lavoratori, moltissimi precari, studenti e militanti di centri sociali e collettivi politici. Tutti mossi dalla convinzione di condividere analoghi – che non vuol dire identici – processi di declassamento e impoverimento nella crisi. Una composizione, dunque, inedita che ha sperimentato la costruzione di nuovi rapporti sociali.
Tuttavia, ciò non significa che si siano apertamente dispiegati i circuiti della ricomposizione. Al contrario, il piano della generalizzazione è rimasto più alluso che praticato, e sono emersi una serie di punti di blocco. Tra questsi, ne voglio ricordare almeno uno: l’incontro a tratti mancato, a tratti incompleto, a tratti inadeguato, tra diverse figure sociali e del lavoro lungo la linea del colore. Nel senso che le lotte hanno faticato, senza spesso riuscirvi, a superare le distanze ipostatizzate tra i soggetti: tra migranti e non, tra cittadini e non, tra le figure del lavoro vivo razzializzato. Una vera e propria frattura che lungo la linea del colore ha indubbiamente segnato il piano della composizione.
Per concludere questa riflessione sulle lotte allo specchio nella crisi e sulle specificità del caso italiano in un ciclo di lotte al neoliberismo, vorrei riprendere una considerazione fatta qualche anno fa introducendo un volume sul movimento Occupy negli Stati Uniti. Tra i motivi che allora ipotizzavamo per rispondere alla domanda “cosa impedisce in Italia il pieno emergere del movimento degli indignati o di Occupy, ovvero del loro equivalente funzionale?” avevamo individuato dei punti di blocco, veri e propri tappi alla composizione politica delle lotte, nelle strutture della mediazione: partiti, sindacati, chiesa cattolica, famiglia e i movimenti stessi intesi come strutture organizzate che avrebbero, in qualche modo, garantito le forme della rappresentanza e dunque canalizzato le aspettative anche critiche del lavoro vivo rispetto alla crisi in corso, depotenziando l’esplosione conflittuale di un movimento trasversale.
Oggi, alla luce anche delle seppur brevi considerazioni riportate in questo saggio, credo si possano considerare insieme a questi “tappi” altri punti di blocco, più specifici, che vanno individuati proprio nelle difficoltà (o nella impossibilità) di comporre su di un piano comune lotte orientate alla salvaguardia di prerogative sociali e dunque arroccate nella difesa di posizioni di privilegi. L’ipotesi delle lotte allo specchio, ci consegna dunque un dato dirimente da assumere come centrale nel nostro agire politico e ci ricorda che resta, sul piano delle soggettività, ancora molto lavoro da fare.
Note
(1) Sull’idea di un “ciclo delle soggettvità” si veda l’intervista a Michael Hardt, “Le lotte nella transizione irrisolta”, in Commonware.org, 20 agosto 2013. http://www.commonware.org/index.php/cartografia/27-lotte-nella-transizione-irrisolta. Si veda anche”Dentro la crisi allo specchio”, in Commonware.org, 30 agosto 2013 http://www.commonware.org/index.php/framing/40-dentro-crisi-specchio.
(2) Sul tema della guerra ai poveri mi permetto di rimandare a Anna Curcio, “Kill the poor”, in Commonware.org, 6 settembre 2014. http://commonware.org/index.php/neetwork/453-kill-the-poor
(3) Per un approfondimento si veda Salvatore Cominu, “Quali soggetti per i conflitti a venire?” in Commonware, Effimera, UniPop (a cura di), “la crisi messa a valore”, CWPress 2015 http://www.commonware.org/index.php/laboratori/561-crisi-messa-a-valore.
(4) Si veda sul tema Adrià Rodríguez, “Il 15m e il giustizialismo tattico: tecnopolitica e potere destituente”, in Commonware.org, 22 gennaio 2014 http://www.commonware.org/index.php/cartografia/226-corruzione-contributi-al-dibattito-1
(5) Nancy Fraser, Fortune del Femminismo, Ombre Corte, Verona 2015
(6) Vedi l’intervista di Gigi Roggero a Cristian Marazzi, “La nemesi storica del Capitale”, in Commonware.org, 16/09/2014. http://commonware.org/index.php/neetwork/457-la-nemesi-storica-del-capitale
(7) Cf. Anna Curcio e Cristina Morini, “Il comune della riproduzione: intervista a Silvia Federici”, in Uninomade.org, 7 ottobre 2011. http://www.uninomade.org/il-comune-della-riproduzione/
(8) Per una rassegna sulla produzione del comune dei movimenti nella crisi, si veda il sito www.commonware.org che nella sezione “Cartografia delle lotte” raccoglie molti articoli sul tema. http://www.commonware.org/index.php/cartografia
(9) Per una rassegna delle lotte per il Pass-livre in Brasile si veda l’intervista a Giuseppe Cocco “Brasile: la nuova composizione tecnica del lavoro immateriale metropolitano”, in Commonware.org, 17/08/2013. http://commonware.org/index.php/cartografia/11-brasile-composizione-lavoro-metropolitano e l’intervista a Bruno Cava, “La rivolta contro l’inclusione”, in Commonware.org, 16/08/2013. http://commonware.org/index.php/cartografia/15-rivolta-contro-inclusione
(10) Si veda Cristina Morini, “La strategia della lumaca. Teatro Valle, alcuni appunti”, in Commonware.org, 07/08/2014.
(11) Sul tema della composizione delle lotte e dei nodi politici aperti, si vedano gli atti del Seminario a cura di Commonware, Effimera e Unipop, La crisi messa a valore, Cw-Press 2015. http://www.commonware.org/index.php/laboratori/561-crisi-messa-a-valore
(12) Per un approfondimento del tema mi permetto di rimandare a Anna Curcio, “Aspettative e fratture nelle lotte della logistica”, in La crisi messa a valore, cit.
(13) G. Roggero e A. Curcio, Occupy! I movimenti nella crisi globale, Ombre Corte, Verona 2012