Assemblea dei Gilet Jaunes di Belleville
****
Fascisti, razzisti, antisemiti, omofobi, odiosi, vermi, poujadisti, populisti, putchisti, complottisti, idioti, sempliciotti, plebaglia… per non parlare del più importante: fannulloni.
Veramente, avete solo l’imbarazzo della scelta, fra tutte le buone ragioni che le “élites” (poiché esistono veramente) tengono “liberalmente” a vostra disposizione, per condannare i Gilets Jaunes e nello stesso tempo condannare voi stessi all’impotenza.
Da novembre a Giugno, ci è stato propinato un arsenale di anatemi così insultanti quanto monotoni, per soffocare tutto ciò che si è rivelato con il movimento dei Gilets Jaunes.
Siamo chiari, come i giornalisti sanno esserlo quando vogliono far passare un messaggio: eravamo fascisti, razzisti ed omofobi già da novembre; d’estrema destra, antisemiti e manipolati in dicembre; poi sempre manipolati ma anche sediziosi, odiosi e putchisti (ed omofobi bis) a fine Dicembre. In gennaio le cose si precisano: in più d’antisemiti, dunque, eravamo manipolati dall’estrema destra, infiltrati dall’ultrasinistra, idioti al punto di “cercare di provocare il morto”.
Ancora e sempre omofobi, antisemiti, razzisti e di estrema destra in febbraio; antisemiti, omofobi, d’estrema destra e decisamente idioti in marzo, utili idioti ma anche vermi in aprile; di nuovo manipolati e d’estrema destra in maggio; d’estrema destra (scoop) in giugno…
È comunque incredibile che sia sfuggito alla sagacità dei nostri osservatori che, per concludere il tutto, mangiassimo i bambini e chiamassimo alla distruzione del sistema solare ed al caos cosmico.
Tanto per cambiare, gran parte dei media hanno recentemente adottato una tattica sperimentata: minimizzare l’inqualificabile fenomeno rappresentato dal persistere del movimento dei Gilets Jaunes, occultando semplicemente questo persistere che determina periodicamente una data fase temporale.
In Aprile e Maggio bisognava riportare la calma per convincere di andare a votare.
Ormai la comica é durata abbastanza. È tempo di riprendere l’attività normale, partire in vacanza per tutti quelli che possono permetterselo.
Conosciamo la vecchia furbizia dei media: quello di cui non si parla, non esiste. Si parlerà quindi sempre di meno dei Gilets Jaunes.
La minaccia è passata, d’altronde il movimento si sgonfia.
Avremmo dovuto saperlo, poiché il movimento dei Gilets Jaunes é nato asmatico, senza fiato sin dai primi passi.
Otto mesi che sbraita e rovescia i soprammobili al passaggio; otto mesi che ci ripetono: il movimento si sgonfia.
E si è sgonfiato, vero? Ha continuato inesorabilmente a sgonfiarsi, d’altronde non finisce mai di sgonfiarsi. Si sgonfia ancora e sempre; possiamo dire che passa il tempo a sgonfiarsi.
Si sta esaurendo con entusiasmo. L’ultima notizia è che siamo “à bout de souffle”, come a Parigi il 16 marzo o a Montpellier l’8 giugno. Come in occasione delle Assemblee delle Assemblee. È incredibile quanto amiamo la mancanza di respiro. Dev’essere l’effetto perverso dei gas che respiriamo avidamente.
Ma, naturalmente, non è a causa della massiccia repressione che ha colpito noi, i nostri parenti e gli altri esseri umani, incarcerati, feriti o terrorizzati, né a causa della calunnia che la repressione ha sostenuto con tanto fervore, isolandoci in una condanna morale e in un sospetto sapientemente mantenuto.
Sarebbe presumibilmente insito nella natura del nostro movimento di essere senza fiato. Tutto lo dimostra. O no?
I governanti ed i loro giornalisti lo dimostrano, basta ascoltarli, loro che si sono immersi nella menzogna proclamata come verità, una menzogna senza ritorno, e nell’allucinata negazione di una realtà incompatibile con il software che ronza nella la loro testa.
Tutto questo va oltre l’arroganza ed il disprezzo; è il preoccupante tentativo di un governo agli sgoccioli di contrapporre un discorso falso alla realtà, sostituendo al linguaggio umano un agghiacciante delirio di autorealizzazione .
Questa cosa curiosa chiamata “informazione” cominciò dall’inizio a credere nell’effetto dei suoi stessi annunci.
Lo si sa bene. Il motivo per reprimere i manifestanti è quello di difendere il loro stesso diritto di manifestare, così come vengono organizzati “grandi dibattiti” per chiarire il dibattito di quelli che invece lottano nelle strade ed allo stesso modo gli ospedali vengono chiusi per difendere il futuro dell’ospedale in modo più efficace.
Così, i Gilets Jaunes non sarebbero più d’attualità. E ci sta pure bene, perché non ci interessa proprio entrare scomodamente in una qualsiasi agenda politica, né di essere “di moda” (salvo forse per i bambini, anche i vostri, che nei parchi non giocano più a cowboy e indiani ma a poliziotti e giubbotti gialli e, non a caso, con una chiara preferenza per questi ultimi).
Siamo pronti a cedere il posto nell’ “attualità” a quelli che ci tengono talmente, che se la fabbricano da zero per poter occuparci di un reale da cui si sentono costantemente minacciati.
Noi siamo costanti. Siamo la profondità del reale.
I Gilets Jaunes incarnano la favolosa e folle unità di una critica rapida, vorace, non settoriale, non frammentata; una critica istintiva e riflessiva basata sul rifiuto di una vita miserabile, con o senza lavoro, ma sempre ingombra di merci e futilità.
Un sabato di non molto tempo fa si sentiva per le strade di Parigi, una canzone graffiante che si imponeva a tutt*: “Lavora, consuma e chiudi la bocca!”. Ecco la vostra attualità.
La nostra inattualità è piuttosto ancorata alla realtà di ciò che condividiamo da novembre. Sulle rotatorie. Nei cortei. Durante le riunioni. Mentre le telecamere e i droni ci guardano. Non appena si presenta l’opportunità o quando la provochiamo, che si tratti di bloccare o scagliare, di fare un picchetto, un’occupazione, una fuga, un inseguimento, moltiplicando i modi di azione e sperimentando.
Perché, a differenza dell’ordine, ossessionato dall’ostentazione di una forza eccessiva e sterile, noi sappiamo improvvisare.
Non sappiamo quello che facciamo e sappiamo molto bene quello che facciamo. Con le nostre voci, i nostri corpi e le nostre teste, anche amputate.
Che rabbia, ma anche quale felicità, per attaccare ciò che ci fa male. Sperimentare noi stessi, scoprire noi stessi, l’uno ed il multiplo, con tutto ciò che abbiamo in comune e nelle differenze, nella solidarietà.
E dovunque, noi parliamo. Non appena l’opportunità si presenta o quando la provochiamo. Una forma di discorso che non si sente da tempo, un discorso diretto che si assume, nel suo prosaicismo e nella sua poesia, fondato sull’esperienza individuale e che si svolge in un’esperienza collettiva.
Una parola che afferma una nuova soggettività, fatta di sincerità disarmante, di traboccante capacità di ascolto degli altri e di benevolenza intelligente, anche nella lotta che ci è cara, perché siamo vivi, mutanti, disordinati e nello stesso tempo ordinati; non smettiamo di trasformarci. E niente di quello che il governo troverà da dire o di cui borbottare, con gli abituali trucchetti e giochi sporchi, che sono il marchio di fabbrica delle burocrazie partitiche, sindacali e mediatiche, ci toglierà più la parola. Il virus si sta diffondendo.
Questa forma di discorso liberatorio e organizzativo, che non abbiamo inventato ma che stiamo portando alla luce, sta gradualmente penetrando in tutta la società.
Un atteggiamento da Gilet Jaune si sta diffondendo in tutti gli ambienti, tra lavoratori portuali, infermieri e insegnanti, nella messa in discussione radicale delle gerarchie “meccaniche”, della morale che le mantiene, delle regole ingiuste, delle manipolazioni banalizzate e degli interessi nascosti.
Agli altri! Ma non a noi, che siamo ciò che siamo, che siamo tutti noi.
Allora, ne abbiamo abbastanza della loro attualità, del loro mondo stanco e stancante.
Con i Gilets Jaunes, il reale rivendica voluttuosamente i propri diritti.
Traduzione di Massimo Meloni