Fare società solidali oltre il Covid

La pandemia ha fatto emergere come mai prima d’ora i limiti del modello economico prevalente e l’evidenza che i nostri stili di vita sono aggrediti sempre più pesantemente da molteplici crisi (finanziaria, economica, ecologica e di giustizia sociale) permanenti e sovrapposte. La “società solidale” sta dimostrando in questa crisi un’importante capacità di risposta, mettendo in atto molteplici pratiche generative di nuova economia la cui trama comune è il patto di cura del proprio spazio di vita, in solidarietà con la comunità umana e con l’ambiente


di RICCARDO TROISI (in Comune-info.net, gennaio 2021)


La pandemia di Covid-19 ha fatto emergere limiti e fragilità del modello economico lineare basata sui passaggi «take, make, consume and dispose» (prendi, produci, consuma e scarta). Ancor più chiaramente s è evidenziato come l’Italia, in cui da quasi vent’anni non si vara un Piano industriale nazionale che individui priorità di produzione e di approvvigionamento, né una strategia commerciale che lo sostenga tenendo conto dei limiti dell’approvvigionamento e della crisi climatica e sociale in atto a livello globale, un evento improvviso come il dilagare di una pandemia, pur previsto da enti di ricerca e istituzioni internazionali da decenni tra gli scenari possibili, possa portare i sistemi sociali e economici globali e locali al collasso.

Con la quarantena e la serrata delle produzioni e della socialità è ormai abbastanza chiaro come siamo al centro di molteplici crisi permanenti e sovrapposte (finanziaria, economica, ecologica e di giustizia sociale) che aggrediscono sempre più pesantemente la convivenza umana e i nostri stili di vita.

Ma anche che queste crisi non sono subite e pagate allo stesso modo ai diversi livelli economici e sociali delle nostre comunità, e che i sistemi territoriali hanno reagito anch’essi in modo completamente diverso agli ostacoli della pandemia.

La “società solidale” è emersa in modo inequivocabile come il legame fondamentale per tutte le comunità e i territori e si è dimostrata capace di attivare reti capillari di prossimità dimostrando un’importante capacità di lettura dei bisogni, operatività organizzativa e di intervento.

Questa attivazione è anche frutto di un vasto movimento attivo da diversi decenni, segnato da una straordinaria pluralità, che declina le sue ispirazioni e pratiche alternative articolandole ogni giorno nelle attività dei gruppi di acquisto solidale (Gas), nei distretti e le reti di economia solidale (DES) e nelle altre reti territoriali, nel commercio equo e solidale e nella finanza etica.

Agli stessi principi e alla medesima condivisione di pratiche, si attengono molte altre forme partecipative e collaborative di economia, come le diverse realtà che fanno riferimento ai commons, le economie comunitarie e quelle femministe, i movimenti attenti alla prospettiva di genere, le esperienze di mutualismo sociale, l’imprenditorialità sociale, le economie del bene comune, quelle della decrescita e ancora altre reti e organizzazioni che stanno portando avanti visoni incentrate sul modello di un ecologia integrale (Fridays for future e Extinction Rebellion).

Sono esperienze che puntano ad una trasformazione radicale dell’economia, promuovono nuovi modelli socioeconomici a cui tendere, come quello dell’economia di cura, dell’economia dei beni comuni, dell’economia delle comunità, dell’economia generativa e trasformativa, che tutte si fondano sul concetto dell’ecologia integrale.

Un modello che non sia da misurare in termini di PIL ma che utilizzi indicatori di “ben-essere” legati alla qualità della vita delle persone e alla salute del pianeta.

A livello internazionale il “Forum Sociale Mondiale delle Economie Trasformative” vuole essere un’occasione per confrontare pratiche e teorie, per individuare punti di convergenza e tracciare assieme, a livello mondiale, nuove proposte per lo sviluppo delle Economie Trasformative.

Una delle prime ricerche che ci ha portato ad analizzare con maggior dettaglio queste pratiche generative di nuova economia è stata quella su scala europea “Economia trasformativa: opportunità e sfide dell’economia sociale e solidale in Europa e nel mondo” coordinata dall’associazione Fairwatch nell’ambito del progetto “Social & solidarity economy as development approach for sustainability (Ssedas) in Eyd 2015 and beyond” conclusasi nel 2018.  Oltre ottanta ricercatori, 550 interviste e mappature per uno spaccato di 1.100 pratiche di economia sociale e solidale che coinvolgono, da sole, più di 13mila persone in Europa e nel mondo.

La ricerca ha tentato di raccontare la trasformazione concreta dell’economia nei territori e nelle comunità ai tempi della crisi, coinvolgendo ambiti diversi – dall’agricoltura ai servizi e riflettendo le peculiarità di ogni contesto nazionale. In particolar modo in Italia sono state analizzate diverse esperienze, dimostrando come il nostro paese presenta diversi modelli e pratiche virtuose … (Troisi e Di Sisto 2018).


I modelli emersi che hanno funzionato durante la crisi

Alcuni dei modelli analizzati nella ricerca, sono stati particolarmente attivi durante e dopo la fase del lockdown, soprattutto rispetto alle necessità generate dall’approvvigionamento di genere alimentari.

Tra queste pratiche ci sono i gruppi di acquisto solidale (GAS) e loro varianti (gruppi d’acquisto condominiale), gli orti urbani, i mercati contadini di prossimità,  le banche dei semi, le iniziative volte alla condivisione degli alimenti (Food sharing), i Consigli metropolitani sul cibo (Food Policy Council) e le Community Supported Agriculture (CSA).

Tra i punti di forza di queste iniziative, sicuramente prevale la trasparenza delle filiere e il minore impatto ambientale, per questo molti consumatori hanno scelto di avere un rapporto più diretto con i produttori o i fornitori di servizi, diventando in alcuni casi attori-protagonisti della filiera corta.

E’ interessante notare più in concreto come tutte queste esperienze, da tempo in corso e ampiamente documentate, in alcuni casi si sono evolute nel periodo più recente, in particolare come hanno reagito all’improvviso diffondersi di una pandemia, assolutamente inattesa e contro la quale non esistono ancora vaccini efficaci distribuiti su scala mondiale.

Chiaramente per molte di queste esperienze, le misure restrittive, negli spostamenti e nei divieti di incontro diretto delle persone hanno causato diversi disagi sulle attività normalmente svolte, per le quali l’incontro ripetuto e lo scambio continuo di esperienze ed esigenze costituiva la sostanza stessa dell’attività.

Ma nel tempo si sono organizzate ed hanno reagito in maniera sorprendente all’emergenza dettata da Covid, utilizzando in molti casi proprio i contatti e le relazioni già stabilite per raggiungere obietti inattesi, ma assolutamente necessari e urgenti proprio a causa della diffusione del virus e dell’applicazione delle misure di contenimento.

Ad esempio, molte delle persone che come membri di gruppi di acquisto avevano stabilito contatti continuativi con produttori agricoli o con fornitori di beni essenziali rispettosi della natura, hanno nel giro di pochi giorni compreso che fasce importanti di popolazione si sarebbero improvvisamente trovati non più in grado di acquistare nella rete di negozi e di supermercati gli alimenti necessari alla sopravvivenza e hanno messo a punto delle reti, piccole e grandi, di acquisto diretto dai produttori e di messa a disposizione delle famiglie più in difficoltà o delle persone isolate in casa dei prodotti essenziali a titolo gratuito.

Non è stato facile cambiare la logica di fondo delle relazioni già sperimentate, ma sono state le esperienze già fatte – in particolare riguardanti le modalità di raccolta e di trasporto e quelle di distribuzione tra le famiglie – a permettere di creare in tempi rapidi delle reti di cura altrettanto utili.

Ancora, si sono moltiplicate le consegne a casa e si sono promossi e alimentati dei gruppi di acquisto condominiali. A tale proposito dovrebbe essere analizzata a fondo l’esperienza realizzata dalla rete di Economia Solidale di Roma, che si è successivamente estesa in più municipi, ognuno dei quali nella capitale può raggiungere le dimensioni di una città media quanto a popolazione residente, mentre un interesse analoga rivestono le esperienze di Solidaria e del Distretto di Economia Solidale di Varese.

Vi sono poi altre linee di lavoro riguardanti la produzione agricola e l’alimentazione che sono state probabilmente ritardate nei primi mesi della pandemia, ma che non hanno visto ridursi l’impegno e le elaborazioni.

L’esperienza più interessante è quella della creazione di consigli per il cibo Food Policy Cuncil, in alcune città italiane come Milano, Torino, Roma Bari, Bologna. Si tratta di una recente impostazione, già emersa in alcune grandi città europee, che prevede una analisi unitaria delle linee di produzione agricole che confluiscono sui mercati locali e delle esigenze di una migliore alimentazione di tutta la popolazione locale, in termini sia di qualità dei prodotti, sia di soddisfazione delle esigenze alimentari più corrette delle diverse fasce di consumatori.

Food Policy Council sono degli organismi che mettono assieme i diversi attori che si occupano di terra/cibo in aree urbane (contadini, gas, piccola distribuzione, mercati locali, orti, enti locali) con l’obbiettivo di avviare processi di re-territorializzazione del sistema del cibo su scala metropolitana. Il suo compito è di lavorare perché l’agricoltura urbana diventi parte integrante della pianificazione della città, e sia più facile ottenere terra e acqua.

Ma il consiglio si occupa anche di sicurezza e sovranità alimentare e più in generale di politiche inerenti al cibo.

food council si possono trovare in diverse città del Nord Europa ad esempio in Germania nel Regno Unito, e in Olanda. A Berlino come ad Amsterdam il cibo è stato all’ordine del giorno negli ultimi anni, oggi la città è brulicante di iniziative legate all’alimentazione e il comune sta scrivendo una nuova Food Vision. partendo dall’integrazione di esperienze precedenti con scelte pubbliche ed attivismo locale legato all’accesso al cibo sano come elemento di equità ed impulso dell’economia locale.

Dal lato della produzione agricolo si stanno diffondendo sempre più anche in Italia le cosiddette “Community Supported Agriculture” (CSA).  La CSA è un accordo tra aziende agricole e consumatori, nel quale sono condivise le responsabilità.

I rischi e le produzioni della fattoria. Nella CSA, il cibo non è distribuito attraverso il mercato, ma in un proprio ciclo economico trasparente che è organizzato e finanziato dagli stessi partecipanti. In Italia ci sono circa venti realtà attive e durante la pandemia alcune di queste hanno aumentato il numero di soci, come è il caso diSemi di Comunitàa Roma o Arvaia a Bologna.

Altro fenomeno in crescita anche se molto ridimensionati dalle regole di commercializzazione durante la fase del lockdown sono i mercati contadini di prossimità, spazi pubblici in cui una molteplicità di agricoltori locali si incontrano per vendere.

I prodotti delle rispettive aziende direttamente ai consumatori. I mercati contadini possono essere gestiti dalle municipalità o da rete di produttori e possono essere stagionali o aperti tutto l’anno. 

Queste esperienze sostengono i canali di distribuzione a breve distanza creando relazioni dirette tra produttori e consumatori. Inoltre, numerose attività si svolgono simultaneamente per aumentare le dimensioni di questa pratica: seminari, assaggio di cibi e postazioni per l’informazione sui prodotti locali sulla biodiversità nella regione. 

Un esempio a Bologna è “Campi Aperti. Altra esperienza di produttori in rete nel Salento, è “Oltre Mercato Salento”.

In questo periodo c’è stato anche un fiorire di orti urbani, giardini condivisi, aziende agricole collettive, creati e curati da associazioni di vicini su piccoli appezzamenti messi a disposizione dagli enti locali o occupati abusivamente, il cui ruolo non è soltanto quello di offrire ai cittadini l’opportunità di “sporcarsi le mani con la Terra”.

Gli orti urbani diventano in realtà degli spazi che generano e promuovono relazioni sociali e culturali, uno strumento che può creare una situazione di benessere mentale, fisico e e relazionale, e allo stesso tempo una opportunità per sperimentare e anche far crescere delle piante utili per una alimentazione sana. 

Queste pratiche generano anche approcci sociali innovativi e l’appropriazione politica di spazi pubblici locali per una transizione socio-ecologica.


Il nuovo mutualismo nelle comunità urbane

Nuove forme di mutualismo si stanno realizzando anche per rispondere ai bisogni immediati dovuti all’aggravarsi dell’emergenza pandemica, praticando forme relazionali e economiche alternative, anche se su piccola scala, ed in alcuni casi per elaborare rivendicazioni più ampie, come quella del diritto a un lavoro autodeterminato e dignitoso

Sono pratiche sociali che sono rimaste attive anche durante questa fase indubbiamente difficile per assicurare un presidio sociale nel territorio dove sono insediate. Gruppi e organizzazioni che sono state protagoniste negli anni passati, nelle zone in cui operano, della tutela e della valorizzazione dei beni comuni.

A Napoli sono state approvate una serie di delibere comunali sull’uso civico che garantiscono per la prima volta non solo poteri di accesso, ma soprattutto di autogoverno ed autorganizzazione alle persone che si prendono cura del territorio.

Questo primo atto innovativo e coraggioso ha permesso di creare lo spazio giuridico ed amministrativo all’interno del quale sono state regolarizzate e messe a sistema una serie di occupazioni di spazi comunali abbandonati tra i quali la struttura “Ex Asilo Filangieri”: un bellissimo spazio gestito da una “comunità aperta degli operatori dello spettacolo e della cultura” della città, che negli anni è diventato un polo culturale e un centro di produzione artistica per l’area partenopea.

A Roma una delle esperienze più interessanti che stanno lavorando in questa direzione èS.Cu.P.! – Sport e cultura popolare: un centro polifunzionale autogestito, nato nel maggio del 2012 dall’occupazione dell’edificio della ex Motorizzazione della Capitale ed in seguito sgombrato. Il centro ha ritrovato immediatamente una propria sede in alcuni capannoni abbandonati accanto alla linea ferroviaria della Stazione Tuscolana.

L’idea è stata sin da subito quella di creare dal basso, uno spazio capace di produrre welfare comunitario su base territoriale, per dare una risposta alla crisi economica, sociale e culturale che colpisce la città da molti anni.

Il community welfare è inteso come ben-essere comune e si struttura in una serie di pratiche volte a connettere innovazione culturale, necessità sociali e territorio in una gestione diretta da parte dei cittadini.

Un altro caso che non ha ancora trovato una soluzione nella relazione con l’istituzione pubblica è nella gestione del bene è la Fattoria di Mondeggi, sulle colline di Firenze: un grande esempio di difesa collettiva per un bene comune (un’antica villa fattoria) promosso da cittadini e cittadine di Bagno a Ripoli (città metropolitana di Firenze) che hanno dato vita a un vero laboratorio di democrazia diretta e di autogestione incentrato sulla produzione agricola. Così, attorno al tema della terra come fonte di relazioni umane e di cibo, è nata una comunità diffusa

L’innovazione sociale innescata da luoghi come questi che stanno nascendo anche in altre città è proprio quella di provare a rigenerare spazi urbani abbandonati e restituirli come “beni comuni” per una fruizione condivisa dal territorio.

Una delle considerazioni necessarie da fare in merito alle esperienze descritte, che spesso sono il risultato di pratiche “isolate” rispetto al modello di sviluppo economico e sociale del territorio, è che esse solo in casi rari riescono a essere pensate in maniera sinergica e progettuale.

L’esempio dei Distretti di economia solidale (Des) è il tentativo più organico di rappresentazione di questi modelli su un territorio. Per fare un salto in avanti su queste progettualità di riconversione locale, occorrerebbe iniziare a sperimentare proposte di pianificazione dal basso che costruiscano progettualità di rigenerazione locale orientate a questi modelli con progetti pluriennali e plurisettoriali, orientati alla riconversione.


La trama comune

Quella che emerge da queste esperienze è una trama, abbastanza nitida, di punti di forza e intersezione tra i diversi ambiti d’approfondimento sui quali continuare a lavorare insieme di qui in avanti.

In gioco, come sottolineato più volte, non è il destino di una nicchia virtuosa “verde” ed “etica” dell’economia e della società. È il cambio di paradigma da innescare dal basso a livello sistemico, a partire dagli impegni assunti dalla comunità internazionale, per affrontare i limiti del pianeta non come minaccia al nostro stile di non-vita attuale, ma come indicazioni programmatiche per una convivenza paritaria e pacifica nel benessere condiviso, in equilibrio con l’ambiente in cui viviamo.

Vivere la comunità, e il territorio su cui insiste, non come un limite da superare o difendere, entro i quali definirsi e rinchiudersi, ma come patto di cura del proprio spazio in solidarietà e contatto consapevole con la comunità umana e l’ambiente tutto, è la cifra più profonda del cambiamento individuato come necessario.

“Comunità di cittadini che fondano il loro stare insieme non attraverso la forma del contratto, inteso come accordo fra interessi individuali e di gruppo, ma in quanto legati dalla cura del bene comune e dal vincolo del dono”.

Per realizzare una tessitura di relazioni e pratiche tra le comunità e nelle comunità territoriali e di pratiche non vi è certo bisogno di leader, maschi e soli, ma di mediatrici e mediatori: pontieri in grado di ascoltare, vedere, entrare in relazione e veicolare auto rappresentanza e autorappresentazione, interpretando il potere e i suoi flussi come veicolo di autodeterminazione e non come scopo di dominazione.

I soggetti sociali, in questa nuova tessitura, non si riconoscono più come corpi intermedi ma come spazi d’azione. Quello che minaccia questa possibilità oggi è l’incapacità, da parte dei singoli nodi di innovazione, di mettersi in rete: pur condividendo la centralità del territorio nelle dinamiche economiche e di sviluppo locale, siamo spesso incapaci di creare reti tra movimenti di autorganizzazione negli stessi territori e tra i territori, e le realtà più solide sono quelle nelle quali la tessitura delle relazioni mutualistiche rende possibile la sperimentazione delle alternative.

Gli snodi, quando non facilitano, diventano grumi di accumulazione di piccoli poteri, rendite di posizione, risorse, destinate a perdersi nel medio-lungo periodo. La fragilità strutturale, la frammentazione dei territori si approfondisce se non si vince la sfida della fiducia da ricostruire, del patto sociale da riempire di nuovi significati. 

Questo lo impone anche il periodo che stiamo attraversando dove abbiamo potuto constatare quanto sia state più efficaci quelle pratiche che hanno saputo convergere in una strategia di rete orientata al muto aiuto su dimensione territoriale.   


Per un’economia trasformativa

Quale economia può essere strutturata a servizio di questa idea di società? Innanzitutto un’economia che non spreca – a partire dalla terra -, ma conosce, rispetta, custodisce i beni comuni.

Un’economia “circolare” che non estrae valore monetario dai territori, ma rigenerandoli rigenera le comunità insediate.  Un’economia di transizione per rendere sostenibile il lavoro come progetto esistenziale, nella vita di tutti i giorni.

E’ chiaro che se il lavoro resta, come sempre più lo si vuole, una variabile dipendente dall’accumulazione di profitto lungo la catena delle filiere o nelle maglie strette delle piattaforme delle Industrie X.0, qualsiasi ipotesi di liberazione del lavoro dalla eterodirezione rischia di essere archiviata come un sogno romantico.

Ma nelle economie cooperative, altre e resilienti, motivazione, realizzazione e vita sono parte integrante del valore prodotto e considerato.

Durante il periodo di crisi pandemica, in Italia come nel resto d’Europa, è stato osservato un importante spostamento della partecipazione individuale e collettiva verso azioni autonome di autogestione e autogoverno. 

Non quindi solo e rivendicazioni nei confronti delle autorità, ma l’attivismo economico in prima persona, consumo critico, gruppi di acquisto, occupazioni di case e riuso di luoghi di produzione, attività di mutualismo e autorganizzazione sociale, costruzione di servizi e welfare dal basso, messa in comune di servizi e attività, banche del tempo, mense popolari, alloggi sociali, giusto per menzionarne alcune.

Oggi, queste esperienze sperimentano un’alternativa reale di produzione, distribuzione, scambio, utilizzazione, fruizione e riciclo. Un fenomeno che si sta diffondendo che rappresenta oltre il 10% di tutte le imprese dell’Unione Europea, coinvolgendo più di 13,6 milioni di persone – circa il 6,3% dei lavoratori dell’UE, 82 milioni di volontari.

Poche tra esse, tuttavia, possono dirsi completamente o in gran parte “fuori mercato”, ossia del tutto sostenibili grazie a relazioni solidali di acquisto, scambio o di mutualità.

Poche godono del riconoscimento pubblico della propria attività di gestione di beni comuni, anche se rispetto a questa pista di lavoro alcune città italiane sono laboratori di riconoscimento dell’uso civico e collettivo di alcuni beni. 

Le istituzioni europee e italiane le hanno trattate “a silos”: sostenendole come nicchie specifiche oppure, nei casi più avanzati, come nicchie tenute insieme da principi e pratiche specifici, “certificate” e sostenute finanziariamente o fiscalmente attraverso percorsi ad hoc scarsamente inclusivi.

Nella cultura mainstream vi è l’idea della possibilità di un capitalismo sostenibile e dal volto umano (“dell’impresa sostenibile” e del consumatore che “vota con il portafoglio”). Si moltiplicano le esperienze di pianificazione e reporting nate nelle economie trasformative.

Molte comunità, attraverso reti e distretti di economia locale, comunità del cibo, filiere ecosolidali, stanno raccogliendo in tutta Europa la sfida di costruire patti e strumenti per superare i parametri del “valore di mercato” di beni e servizi (che oggi si contraddistinguono per ingiustizie sociali e disastri ambientali globalizzati), ricostruendo invece il loro valore d’uso riconosciuti dalle comunità che li esprimono.

Se alcuni soggetti dell’economia solidale storica in Italia, scelgono la via delle grandi piattaforme globalizzate, scatenando un vivace dibattito dentro e fuori il mondo del commercio equo e solidale, la sfida dell’innovazione tecnologica, a partire da storiche esperienze di sharing sussunte nel mercato convenzionale al netto dell’innovazione, è molto sentita nelle “economie altre”.

Uno dei progetti su cui molto si è discusso soprattutto per le difficoltà incontrate da queste realtà sul tema della cosiddetta “logistica” è l’’appropriazione dei meccanismi delle piattaforme digitali da piegare a favore di un superamento della concentrazione che si registra nella distribuzione e facilitare invece la condivisione dei fini e dei mezzi tra produttori, distributori, consumatori. Ma decisiva è la loro gestione a partire dal locale.

Gli hub rappresentano potenza e potere. Non sono mezzi neutri e il loro utilizzo dipende dalla capacità di condivisione degli stressi strumenti (alfabetizzazione digitale, innovazione).

Il “convitato di pietra” di queste riflessioni è senza dubbio la debolezza e miopia della politica istituita rispetto alla politica praticata dalle comunità nei territori, al proprio interno e nelle relazioni di cooperazione.

Le associazioni delle economie solidali trasformative vivono in gran parte con difficoltà il rapporto con le istituzioni: da un lato ne hanno bisogno per poter operare nella legalità e non subire nella vita quotidiana sanzioni, sequestri, soprusi ed estorsioni, ma dall’altro scontano o temono la possibilità di sussunzione e/o di addomesticamento del proprio potenziale innovativo in una relazione troppo stretta o preferenziale con l’incaricata/o di turno.

Nel mondo delle “economie altre” c’è una evidente difficoltà nella capacità di traduzione in provvedimenti puntuali gli obiettivi “alti”, che vanno necessariamente “oltre la portata della legislatura “che è troppo spesso la portata massima della politica istituita.

Per contro le campagne e le reti di scopo stanno funzionando per molte delle realtà impegnate nell’economia solidale come palestre di “lobby positiva” e di contrattacco normativo/istituzionale nella cornice istituzionale data e in quelle, di medio-lungo periodo, già elaborate o ancora da definire.

C’è bisogno, però, di conquistare ancora più spazio pubblico e massa critica se vogliamo che il cambiamento risalga le scale dei Palazzi, e per farlo c’è bisogno anche di indicatori non lineari di valutazione delle economie “altre”, per verificarne e comunicarne l’impatto generale positivo, al di là dell’affetto o dell’immedesimazione che questa o quella singola pratica possa suscitare nel proprio raggio d’azione sull’onda dell’emergenza o della moda.

Se l’economia che vogliamo è quella ecofemminista della cura del sé, dell’altro da sé e del pianeta, saranno le reti di relazioni tra persone e comunità a dover funzionare come “garanzia” (prima di qualsiasi indicatore numerico).

E’ il concetto del limite, e non quello della crescita indefinita, a dover informare la pianificazione anche gestionale delle attività economiche, a partire da produzione e consumo. Le esperienze di partecipazione, autogestione e mutualismo pre e post covid stanno praticando concretamente democrazia, condivisione e ridistribuzione. Per necessità, ma anche per scelta.

Non possiamo però trascurare le pesanti conseguenze della pandemia ancora in corso e della quale è difficile prevedere la fine. Si può tuttavia ipotizzare realisticamente ancora almeno un anno prima di veder terminata la distribuzione di massa del vaccino (anche se dovessero prevalere forme di produzione non completamente subordinate ai massimi profitti).

Tempi ancora più lunghi saranno impiegati dai sistemi economici per ritornare ai livelli precedenti la pandemia, mentre il recupero della vecchia e nuova disoccupazione richiederà un tempo ancora più lungo.

Cosa succederà dal punto di vista delle dinamiche sociali in tutto questo periodo di tempo? Negli ultimi mesi si sono rincorse diverse previsioni, quella del ritorno puro e semplice alla situazione precedente, poco favorevole a delle modifiche strutturali e invece si sono moltiplicate le analisi di chi è convinto che per reagire al virus si sono riscoperte grandi e diffuse potenzialità di innovazione nelle dinamiche sociali (altruismo, condivisione, riscoperta dei valori familiari, capacità di resilienza nei confronti dei poteri pubblici).

Al momento, non si hanno segnali evidenti verso l’una o le altre tendenze. Sembra però possibile elaborare azioni e strategie alternative basate su potenzialità, facendo cioè leva sulle sensibilità umane venute allo scoperto negli ultimi mesi e moltiplicando delle occasioni di impegno e di coinvolgimento capaci di interessare un numero crescente di persone.

Concetti che valgono, da soli, l’assedio della politica agita direttamente dal basso contro la politica istituita in forma di potere, per riguadagnarne insieme gli spazi di democrazia e la visione del futuro.

A partire da uno spazio di pensiero-azione che si è aperto per rimanere a disposizione di chi vorrà abitarlo e arricchirlo insieme.

Oggi più che mai queste forme di resistenza, sempre più diffuse e multiformi, devono dimostrare di saper realizzare una nuova economia fuori dall’economia di mercato, a partire dal livello locale, dove si possano sperimentare non progettualità testimoniali e residuali ma modelli alternativi di produzione, distribuzione, consumo e risparmio e dove le persone, l’ambiente e le comunità sono rimesse al centro del processo di soddisfazione delle proprie necessità.

Costruire una nuova narrazione del concetto di economia, riportandolo a una dimensione primaria, quella della soddisfazione delle necessità essenziali per una comunità.

Una metamorfosi dell’agire economico è intimamente legata al nostro essere sociale, se non ci riappropriamo di questa dimensione, non saremo in grado di dare risposte alle domande di equità e giustizia sociale e ambientale che stanno diventano ogni giorno più urgenti ed essenziali a livello globale.


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Questo articolo è stato pubblicato originariamente sul numero speciale della rivista Scienze del Territorio “Abitare il territorio al tempo del Covid”