di LUCA PERRONE (in Machina, gennaio 2021)
Verso una nuova composizione tecnica [1] del lavoro formativo
Qualche giorno fa sono andato dal barbiere che, di fronte alla mia ammirazione per la velocità con cui tagliava i capelli, mi ha descritto di come sia cambiato il suo lavoro, tipicamente artigianale, dal momento dell’introduzione del rasoio elettrico. Raccontava che la sua destrezza era stata acquisita quando la macchinetta non c’era ancora e che la sua introduzione aveva determinato essenzialmente una decisa velocizzazione in alcune sequenze della sua lavorazione (che nella mia mente avevo immediatamente tradotto in un aumento corrispondente del processo di valorizzazione).
Nella scuola, o meglio nelle scuole, da qualche anno, si stanno introducendo delle macchine, e l’emergenza Covid ha accelerato in maniera esponenziale questo fenomeno. Niente di straordinario, se visto in generale. Semplicemente un processo che ha investito a partire dalla metà del XVIII secolo tantissimi lavori e che ora investe anche la scuola e gli insegnanti.
Ma nella scuola questa è una innovazione importante, che definisce una vera trasformazione della composizione tecnica della modalità di lavoro di oltre 800.000 insegnanti in Italia, quindi una fetta consistente di quell’iper-proletariato intellettuale (di ceto medio?), ancora struttura portante, ma non unica, del processo di formazione [2] di quell’altra parte di iper-proletariato, o forza lavoro intellettuale in formazione, formato da oltre 8.000.000 di studentesse e studenti italiani.
Fino a poco tempo fa, la cosa che colpiva della scuola era la sua apparente immobilità «formale», «strumentale»: le classi, i banchi, la cattedra, la scansione oraria, la campanella, la lavagna, il gesso, il libro di testo, il quaderno, l’astuccio, la cartella, l’articolazione disciplinare. E soprattutto colpiva la sua dimensione artigianesca. L’insegnante recitava in una dimensione teatrale, andando a soggetto o seguendo più o meno pedissequamente il copione del libro, ma in questo lavoro prevaleva assolutamente la dimensione relazionale-comunicativa, nel bene e nel male, senza mediazione che non fosse il corpo del docente, la sua voce, la sua presenza, in quell’«erotica dell’insegnamento» di cui parlava Massimo Recalcati nel suo libro L’ora di scuola, di fronte a corpi e menti degli allievi.
Con l’introduzione massiccia delle macchine in questo contesto, qualcosa certamente cambia. L’irruzione di Capitale-mezzi [3]nella scuola deve avere un significato economico e di ridisegnamento del rapporto sociale dell’insegnamento. L’insegnante non è più in cattedra da solo, ma è affiancato sempre più a una macchina a cui è continuamente connesso nel suo ciclo di lavorazione, in un rapporto particolare, perché non segue al momento procedure eccessivamente standardizzate, come gli impiegati delle segreterie (anche se questo è da studiare con attenzione). Donne e uomini a fianco di macchine potenti, che sia una LIM o un PC portatile o un tablet. Qualcosa che evidentemente, a differenza di un libro o di un registro cartaceo, li domina, ne detta stili e modalità di lavoro.
La prima cosa che si è potuta osservare, è che gli insegnati non possono che condividere l’osservazione di John Stuart Mill («è dubbio se tutte le invenzioni meccaniche fatte finora abbiano alleviato la fatica quotidiana d’un qualsiasi essere umano») che Marx pone all’inizio del capitolo su Macchine e grande industria, cap. XIII del primo libro del Capitale. La percezione soggettiva fortemente diffusa è che l’affiancamento alla macchina abbia determinato un aumento del carico individuale di lavoro e una dilatazione della giornata lavorativa. Questa mezzificazione è apparsa quasi subito «fredda» e «ostile», più «impoverente» che «arricchente» rispetto alle Capacità umane sia degli insegnanti sia degli allievi. Tutte dimensioni da verificare sul lungo periodo e da indagare oggi, per costruire battaglia politica. Ecco una vera materia di conricerca!
L’insegnante e la macchina
Che la scuola italiana, e in particolar modo la scuola di base, sia arrivata impreparata all’appuntamento con il Covid, fa parte di quella mancata modernizzazione delle istituzioni scolastiche e dal loro continuo impoverimento, a causa delle contro-riforme di stampo neoliberista che da decenni a ondate alterne le investe. I Pon [4] non sono stati sufficienti a dotare tutte le scuole di adeguati strumenti informatici, reti, formazione, presenza di personale tecnico, capacità di far fronte alla manutenzione e all’obsolescenza dei materiali. In molte scuole per anni l’acquisizione di nuovi PC era prioritariamente demandata alla raccolta punti delle diverse catene di ipermercati (quindi a un sistema di carità da parte delle famiglie) o dalla possibilità di intercettare rottamazioni di materiali informatici da banche o aziende, sotto la forma della donazione. Il semplice cablaggio dell’intero istituto è spesso un miraggio.
La dotazione tecnologica personale degli insegnanti è stata demandata al bonus docenti di renziana memoria, che ha permesso a tutti gli insegnanti di acquistare computer di fascia bassa o tablet per gestire il registro elettronico. Per gli allievi, neanche a parlarne, ancora costretti a trainare zaini pesantissimi, a cui da alcuni anni sono state aggiunte delle ruote, come allenamento per trainare poi i trolley nell’esperienza del turismo di massa o per trascinare il carrello della spesa in vecchiaia.
La tecnologia, la macchina, da alcuni anni aveva fatto la sua timida comparsa a scuola. Sotto forma di Lim, lavagna interattiva multimediale, di registro elettronico, di portale della scuola, di libro on-line con estensione digitale, di digitalizzazione e smaterializzazione della pubblica amministrazione nei rapporti con la segreteria, di servizio NoiPA per l’acquisizione del cedolino e del Cud, di scheda di valutazione digitale, di prova Invalsi fatta on line. Raramente sotto forma di sperimentazione di classi 2.0. Un processo piuttosto lento che, come dicevamo, ha avuto una accelerazione pazzesca a partire dal marzo 2020, con il primo lockdown.
Da questo momento la scuola cambia, e questo cambiamento colpisce per la sua rapidità e perché avviene in una situazione di completa impreparazione. Nel giro di poche settimane ogni insegnante, tutti, diventa youtuber, inizia ad utilizzare piattaforme come Zoom, Meet, la sua vita viene scandita da Calendar, gli organi collegiali si svolgono da casa, le lezioni sono in Dad, come gli incontri con i genitori, gli scrutini, addirittura gli esami nella scuola secondaria di primo grado.
Nella seconda fase, si ha invece la Didattica Digitale Integrata (Ddi), ed è questo, in realtà l’orizzonte a cui conviene fare riferimento, perché questo è quello che rimarrà anche dopo la crisi Covid.
L’introduzione del registro elettronico prima e la didattica digitale integrata (che avviene utilizzando piattaforme come Classroom, servizio web creato da Google, ad esempio) sono il connubio che lega e legherà l’insegnante alla dimensione macchinica. In questi mesi sono stati sperimentati servizi per l’e-learning di aziende come Google con G-Suite for Education, Microsoft con Office 365 Education o Tim con WeSchool, piattaforme che permettono di creare classi digitali per sviluppare video streaming a distanza, condividendo materiali, gestire verifiche e test, rendendo accessibile e recuperabile, indipendentemente dal luogo in cui ci si trova o dal dispositivo che si sta utilizzando, il lavoro svolto. La promessa di Google Classroom, ad esempio, è di essere uno «strumento che permette di creare classi virtuali in cui interagire con studenti o con docenti ed è perfettamente integrato con tutte le altre applicazioni della G Suite for Education. Permette di creare e gestire compiti anche a distanza e agevola la comunicazione e la collaborazione tra insegnanti – studenti e studenti – studenti e insegnanti – insegnanti (sia all’interno della scuola che fuori)». L’applicazione di Meet permette di creare le lezioni in streaming, con la possibilità di registrare le lezioni, per rivederle anche in differita, salvandole nel proprio Google Drive scolastico.
Da un lato la scuola diventa finalmente direttamente produttiva. Non produce più solo «forza-lavoro» più o meno formata e qualificata, ma direttamente big data. Quello a cui si sta assistendo è certamente una enorme estrazione di dati che vengono gratuitamente riversati nelle piattaforme e da queste messe a valore. Tutti lo sanno, non è una scoperta eccezionale. Lavoro vivo che viene incorporato in software e app, «incorporato in Mezzi in quanto Capitale accumulato», come scriveva Romano Alquati, «una accumulazione della capacità umana-vivente mercificata nella Formazione».
In questa (presunta o reale che sia) accresciuta potenza produttiva, in questa scuola digitale vi sono solo conformazione, quantificazione, banalizzazione dell’esperienza didattica? O questa accumulazione di capacità umana mercificata e mezzificata nella Formazione può essere «ambivalente», aprire cioè a scopi differenti e alternativi? Esiste in questa tendenza un margine di «un’ipotizzata Autonomia», di una «quasi contro-accumulazione» possibile? È a questo livello che si può indagare quella «potenzialità tanto flebile da porsi come utopia [che] è l’unica disimmetria accumulativa favorevole all’iper-proletariato. Ma non è poca cosa!» [5], come ricordava Alquati.
In pochi mesi tutti gli insegnanti hanno modificato il contenuto della loro borsa, oggi in ogni borsa si trova un pc portatile o un tablet. La prima operazione che fa l’insegnante in classe è accendere il pc, collegarsi al registro elettronico per firmare la presenza, indicare quali attività svolge, per segnare assenti e presenti. Quindi collega il pc alla Lim e inizia la lezione di fronte allo schermo. Finita la lezione, la classe non scompare chiudendo la porta, ma rimane attiva come «classe virtuale» tutto il giorno, pronta ad essere attivata da un comando dell’insegnante o da un compito inviato da un allievo. A volte da un semplice saluto[6].
Durante il primo lockdown è comparsa la figura, minoritaria ma significativa, dell’insegnante che ha aderito all’ideologia della Dad, cogliendo l’occasione di una improvvisa modernizzazione, tanto attesa e auspicata e finalmente realizzata, l’idea di trasformare l’emergenza in opportunità. Ma questa adesione all’innovazione è stata velocemente travolta da un dato inoppugnabile: la didattica a distanza, soprattutto nella scuola dell’obbligo e con la fascia 6-14 anni, non funziona affatto. È impossibile fare lezione, è difficilissimo seguire, le diseguaglianze sociali si sono approfondite, molti allievi sono «desaparecidos», l’attenzione è impossibile da mantenere, la valutazione è una pura assurdità (ammesso che abbia un qualche valore diverso dall’ultimo strumento di ricatto e di comando ancora funzionante in parte per «far studiare» gli allievi). In questa prima fase si è visto però un fenomeno interessante di autoformazione solidale tra insegnanti: tra tutorial e incontri su Skype, tra una valanga di Whatsapp e un’altra di telefonate, tutti gli insegnanti si sono messi in condizione di fare lezione a distanza. Questo fenomeno di autoformazione di massa non è cosa da sottovalutare, anzi sarebbe da capitalizzare come potenziale forma di contro-formazione. È stato un momento importante che ha fatto anche misurare l’inutilità di tanti corsi di formazione a cui gli insegnanti si sottopongono, e la forza dell’intelligenza collettiva e della solidarietà tra lavoratori.
Dopo la prima fase di stordimento è seguito il rigetto di massa della Dad (tanto che il ministero ha dovuto ridefinire anche nominalmente lo strumento in Ddi, didattica digitale integrata), con la evidenza generalizzata per cui «la Dad non è scuola», la classe virtuale non è una classe, la didattica è relazione «calda» tra corpi. Punto fermo da ribadire di un programma didattico critico minimo, come ha fatto il movimento Priorità alla scuola. La smaterializzazione della didattica, semplicemente, non ha funzionato. Ma questo non vuol dire che tutto ritornerà come prima. La didattica sarà sempre più mediata tecnologicamente da macchine.
La dilatazione della giornata lavorativa
Come è noto, il lavoro dell’insegnante si caratterizza giustamente all’occhio di chi svolge altre attività, come un lavoro che ha un orario ridotto: 18 ore alla secondaria e 24 alla primaria; luglio e agosto in vacanza; dal dieci giugno attività comunque ridotte; quindici giorni a casa a Natale e una settimana a Pasqua. Addirittura Don Milani in Lettera a una professoressaricordava che «il vostro orario di lavoro è un privilegio strano. Ve l’ha regalato il padrone fin da principio per motivi suoi. Non è stata una vostra conquista sindacale». E in effetti è bene ricordarselo. Però è anche la prova che lavorare meno è possibile (anzi necessario!). Ebbene, con la Ddi la giornata lavorativa si è decisamente dilatata e l’immagine dell’insegnante che usciva di corsa da scuola non corrisponde più alla realtà: terminata la giornata di lavoro in presenza si apre il mondo di Classroom: compiti da caricare, mail degli allievi con i compiti da scaricare e a cui rispondere, comunicazione dai gruppi Whatsapp per sostituzioni, accordi, riflessioni sull’andamento della lezione, comunicazioni che ti inseguono durante la giornata, circolari che arrivano in numero ormai fuori controllo ad ogni ora e in qualsiasi giorno della settimana, incontri su Meet, caricamento di lezioni serali, contatti senza orario con genitori e allievi in modalità digitale. Tanto che il Ccnl «Istruzione e Ricerca» 2016-2018 del 19 aprile 2018, all’art 22 comma 4 c8, definisce che «sono oggetto di contrattazione integrativa: i criteri generali per l’utilizzo di strumentazioni tecnologiche di lavoro in orario diverso da quello di servizio, al fine di una maggiore conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare (diritto alla disconnessione)». E di questo tutti gli insegnanti se ne sono accorti. Ma anche per gli allievi non esiste più la demarcazione tra scuola e non-scuola, diventata più precaria.
L’intensificazione del carico di lavoro
Accusati da tempo di essere «fannulloni», gli insegnanti hanno potuto misurare concretamente non solo la dilatazione della giornata lavorativa, la sempre più labile distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita, ma anche un vero aumento dei carichi di lavoro. Mentre negli anni precedenti si è assistito ad un aumento del carico di lavoro burocratico (e di vigilanza), appesantito e niente affatto alleggerito dalla digitalizzazione nel vissuto quotidiano di ogni insegnante, che alimenta una richiesta sotterranea di «liberazione» da questo lavoro percepito inutile a favore di un ritorno ad un maggiore investimento nell’attività educativa e didattica vera e propria, ora si ha la percezione che il mezzo in sé, la «mezzificazione», comporti un maggiore impiego di tempo-lavoro per ogni singola unità produttiva (banalmente l’ora di lezione), sia nella fase di progettazione che nella fase di post-lavorazione (in termini di ritorno dei lavori svolti dagli allievi e di archiviazione e documentazione del lavoro fatto). Intensificazione ovviamente a parità di salario, e con la percezione di avere un salario ormai basso, sia in termini europei, sia in termini assoluti nella società italiana, dove la professione docente è inquadrata in una situazione appena al di sopra della fascia del lavoro-povero.
Il Comando e il Controllo
La macchinizzazione del processo formativo modifica inoltre profondamente i termini del Controllo del lavoro dell’insegnante, sia da parte dell’utenza, sia da parte del datore di lavoro.
Le famiglie per la prima volta, dopo che la scuola è entrata a casa loro con la Dad, ora possono «entrare» in classe (nella classe virtuale) e verificare il lavoro svolto dall’insegnante in maniera decisamente più pregnante, attraverso l’ascolto di lezioni registrate, la supervisione sull’invio di materiali didattici, la modalità di restituzione delle verifiche, il controllo diretto su assenze, note comportamentali, messaggi scambiati tra docente e allievo.
Il Datore di Lavoro, perché così, come noto, si configura il Dirigente scolastico al tempo dell’autonomia scolastica, può facilmente supervisionare il lavoro del singolo insegnante con mille modalità più invasive (e nascoste) che in precedenza. Oggi si hanno strumenti per verificare la «performance» del singolo insegnante in termini quantitativi al di là della semplice presenza in classe o delle lamentele da parte delle famiglie sulle modalità didattiche: si può infatti facilmente misurare il numero di verifiche, di valutazioni, di materiali postati, di contatti con gli allievi, ecc.
Anche questa una novità.
Una nuova generazione di insegnanti iper-proletari
La pandemia ha coinciso con un ulteriore passaggio importante nel mondo della scuola: un passaggio generazionale, accelerato dalla reintroduzione di quota 100. È definitivamente andato in pensione chi ha iniziato a insegnare nella scuola degli anni ’80, che aveva conosciuto la scuola del tempo pieno ad esempio, quella scuola che esisteva (realmente o in forma «mitica» almeno) prima dell’ondata di riforme diverse tra loro (Berlinguer-Moratti-Gelmini-Renzi), ma tutte con una comune matrice neoliberista, pur nelle sue varianti.
Ormai sono presenti massicciamente insegnanti con una età media tra i 35 e i 45 anni (per la scuola un notevole abbassamento anagrafico) e una grossa esperienza di precariato, con una fetta notevole di insegnanti che provengono dai nuovi fenomeni di emigrazione dal sud Italia, con un percorso universitario anche per accedere alla scuola primaria, e soprattutto con un buon bagaglio tecnologico. Si è definitivamente conclusa così una pagina davvero interessante della scuola, un periodo unico, quello che va dall’introduzione degli smartphone all’espansione dei social, quando gli allievi si sono sentiti (e effettivamente erano) per alcuni anni più capaci e competenti dei loro insegnanti nella disciplina che ritenevano per loro essenziale: l’utilizzo delle nuove (all’epoca) tecnologie. Ora questo gap a favore degli studenti si è chiuso definitivamente e i nuovi insegnanti, almeno nel rapporto con le macchine, hanno riguadagnato la loro preminenza (o almeno sono tornati su un piano paritario).
Formati nei corsi universitari e nei percorsi formativi per accedere ai concorsi, alla neo-scuola capitalistica europea delle competenze (le otto competenze chiave europee: competenza alfabetica funzionale; multilinguistica; matematica e di base in scienze e tecnologie; digitale; personale, sociale e capacità di imparare ad imparare; sociale e civica in materia di cittadinanza; imprenditoriale; in materia di consapevolezza ed espressione culturali), questi insegnanti saranno i protagonisti di questo cambiamento profondo.
Una soggettività tutta da indagare, che non ha conosciuto probabilmente nessuna delle precedenti ondate di protagonismo collettivo (movimento dell’85, la Pantera, Genova 2001), scarsamente incline alla sindacalizzazione (se non all’uso del sindacato, anche di quei pseudo sindacati che sono nati solo per portare avanti cause legali per tutelare frazioni di precariato, con l’intento in realtà di metterlo a valore, estraendone denaro in cambio di una speranza di accesso al posto fisso), ma capace di costruire percorsi di solidarietà minima (costruzione di reti per scambi di informazione per le prove concorsuali, ad esempio), che ha sperimentato la dimensione europea (dall’Erasmus a forme di studio e lavoro in altri paesi europei), che conosce tutte le forme di precarizzazione del lavoro contemporaneo, che ha quindi tutto il disincanto di chi è stato «tritato» da quell’esperienza, che ha condiviso spesso con altre attività lavorative in corso, che soprattutto ha attraversato tutta la lunga crisi apertasi nel 2008.
Saranno questi soggetti (tra l’altro una composizione etnica omogenea, tutta «italiana», a fronte di una composizione ormai decisamente «melting» degli studenti, in attesa dell’arrivo dei primi insegnanti italiani figli di immigrati), a vivere e determinare questa nuova scuola mezzificata.
Il sabotaggio degli studenti
Dopo aver fatto di tutto negli scorsi anni per cercare di «parlare» un linguaggio più moderno e quindi, si pensava, più vicino ai millennials e alla net generation, dopo aver riempito i regolamenti di istituto di norme che vietassero l’uso dello smartphone in classe (al fine di dimostrare che è possibile vivere alcune ora disconnessi, cosa che gli insegnanti per primi non riescono a fare, ovviamente), dopo aver pontificato sul calo delle capacità di attenzione, del rapporto di dipendenza con i social dei ragazzi, in questi mesi abbiamo visto un «mondo alla rovescia», dove gli adulti «inchiodavano» gli allievi a ore e ore su smartphone (il device più utilizzato) o tablet per le lezioni e i compiti, ma con una bella sorpresa. Questo che doveva essere il «Paese di Cuccagna» per i ragazzi e le ragazze, si è rivelato un vero Inferno.
L’opposizione di massa, il rifiuto di massa degli studenti alla macchinizzazione della formazione è stato un fenomeno clamoroso nella sua evidenza. Studenti e studentesse hanno messo in atto tutte le forme possibili di opposizione passiva alla didattica digitale integrata, ampiamente denunciata dagli insegnanti, che però non hanno vissuto bene questa pratica di massa. Dal non presentarsi a lezione, dal tenere oscurata la propria immagine, dalla continua dichiarazione di non funzionamento della connessione, dalla sparizione sistematica nel momento in cui si è chiamati in causa, dal non invio di lavori e compiti, alla creazione di tutte una serie di modalità per copiare o leggere durante interrogazioni e verifiche, la vera attività distruttiva, di sabotaggio, nei confronti della Ddi ha avuto per protagonisti ragazze e ragazzi che erano stati rappresentanti come nativi digitali e che quindi si immaginava come docili, se non entusiasti, accoglitori della nuova modalità macchinica. Di estremo interesse sono le percentuali verificate di fruizione delle lezioni di Didattica Integrata asincrone (cioè non in diretta, da fruire successivamente da parte degli allievi): la percentuale di allievi che aprono le lezioni asincrone è bassissimo, e ancora più basso è il dato sulla fruizione dei prodotti didattici fino al loro termine (anche se hanno format al massimo di 15 minuti)!
Questo fenomeno è certamente ineludibile.
Il futuro ci riserva lezioni a distanza con l’intelligenza artificiale?
Già trent’anni fa Alquati segnalava che «la Formazione è un’Attività, in mercificazione/capitalizzazione ed in “mezzificazione” e Macchinizzazione» [7]. Per convincersene oggi basta gettare uno sguardo sul mercato dell’e-learning in continua espansione, con colossi come Tal Education Group, holding cinese che offre istruzione post-scolastica agli studenti delle scuole primarie e secondarie, o K12 (ticker Lrn) o Universal Technical Institute (Uti) o VipKid e simili, mercato che risponde all’esigenza di formare un gran numero di persone a costi accessibili, per assecondare le esigenze della forza lavoro moderna di impegnarsi nell’apprendimento permanente, in una situazione in cui l’apprendimento attraverso un portale Web è più efficace e conveniente rispetto alla formazione d’aula (anche nella scuola pubblica i corsi di formazione sulla sicurezza, sul Covid, hanno assunto la forma dell’e-learning, così come i corsi che danno punti ai precari). Gli scenari appena futuribili fanno immaginare «tecniche avanzate di formazione che vanno al di là del mero apprendimento standard a distanza, ma lo personalizzano in base all’intelligenza artificiale» [8]. Basta andare sul sito della Squirrel Ai Learning, società cinese di formazione online, per vedere un possibile futuro: l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per personalizzare i piani delle lezioni per ogni singolo studente, al fine di superare la mancanza di attenzione personalizzata nelle classi tradizionali e la disuguale distribuzione delle opportunità educative. Qui i ricercatori cinesi hanno accesso ai database degli studenti più grandi del mondo, che vengono utilizzati per addestrare le intelligenze artificiali.
Dell’ambivalenza della mezzificazione parziale dei processi formativi e della conricerca
La mezzificazione (parziale) della formazione scolastica ha insita in sé, con evidenza, la capacità di potenziare le possibilità di insegnamento/apprendimento, rispetto alla didattica tradizionale. Ma appare chiaro che, come sottolineava Alquati a proposito dei Mezzi della Comunicazione, questi Mezzi sono «potenzianti (ed uniformanti) nell’applicazione…Potenzianti ma (forse) tutt’altro che arricchenti. Questo è il punto delicato» [9]. Ipotesi da indagare con attenzione e questa discussione interessa certo sia gli insegnanti che gli studenti.
Ricordava lo stesso autore che «i Mezzi embrionali e sul punto di nascere o finanche neonati spesso sono molto flessibili e ricchi di potenzialità e perfino già di utilizzi differenti e diversi e altri. Ma in genere l’utilizzo sistemico specifico li sviluppa solo selettivamente: sviluppando certe potenzialità contro altre. E così talora addirittura vengono fin dall’inizio progettati. Ma le potenzialità di alterità rimangono in essi almeno latenti, e possono essere a certe condizioni liberate liberandoli e liberando la Combinazione-attiva umana e noi» [10].
Anche perché al momento il processo di mezzificazione procede sul piano della selezione dei format efficaci (nella scuola questo ha il nome di individuazione e implementazione delle «buone pratiche»), per poi avviarsi sulla via della uniformazione e della standardizzazione relativa dei percorsi formativi.
Ma il terreno forse più interessante da inchiestare è la potenzialità di consolidare, coagulare e condensare cooperazione sociale. Nella scuola, al di là degli ormai asfittici organi collegiali e della vuota retorica dell’équipe educativa, il lavoro dell’insegnante è quasi sempre individuale (lo si vede in particolare per gli insegnanti che «naufragano» di fronte al contropotere sempre attivo degli studenti di permettere o meno un ordinato svolgimento della lezione, insegnanti che sono sempre soli di fronte alla classe, nel bene e nel male). Indubbiamente la macchinizzazione e la sua inevitabile estensione utilizzando le reti (interne agli istituti in primo luogo, ma evidentemente a livello territoriale e potenzialmente in grado di travalicarlo), pone all’ordine del giorno la possibilità che questa cooperazione sociale effettiva inneschi contro percorsi di formazione e riconoscimento, secondo l’ipotesi strategica di Alquati che «la Capacità umana si potenzia nell’uso dei Mezzi-capitale come Capacità accumulativa di Capitale formata potenziando anche la Formazione con Mezzi di Formazione/Capitale formativo, ma il potenziamento stesso è potenziamento di una Capacità (sebbene forse residualmente) ancora utilizzabile per i suoi erogatori stessi e contro il Capitale»[11]. Anche qui riemerge quel «residuo irrisolto», irriducibile alterità alle pretese di dominio del Capitale sulla nostra vita.
Note
[1] Il concetto di composizione tecnica di classe rimanda all’analisi della «forza-lavoro, definita dalla divisione capitalistica del lavoro, e quindi dalla struttura tecnologica della produzione, dal rapporto tra tecnologia e lavoro vivo, dai livelli gerarchici e via di seguito», in rapporto alla sua composizione politica (per brevità, con qualche forzatura, l’espressione soggettiva e organizzativa della classe). Si veda a questo proposito S. Cominu, Composizione di classe, 3 marzo 2014, su sito Commonware.
[2] Per formazione si intende qui, seguendo il pensiero di Romano Alquati, «la Riproduzione allargata del Valore della Capacità Attiva (e quindi anche lavorativa) umana […] Formare è cambiare qualcosa di rilevante nella soggettività della gente», in R. Alquati, Appunti quadro per una ricerca sulla «Formazione», primi anni ’90, p.1.
[3] Usiamo, come in altre parti di questo articolo, un concetto ricorrente nel contributo teorico di Romano Alquati sulla società iper-industriale, come egli stesso la definiva. Con «Capitale-Mezzi», Alquati faceva riferimento alla parte di capitale «mezzificata», divenuta «mezzo» con i processi di sussunzione o di incorporamento delle risorse sociali. Adoperava questo concetto, la cui disamina va oltre gli obiettivi di questo contributo, con significato più ampio del «capitale costante» in Marx. Dunque, non solo macchine, materie prime, «mezzi di produzione» tangibili, ma una «catena di Mezzi» includente scienza, tecniche, modelli, forme organizzative, linguaggio, conoscenze codificate, separate dall’agente umano e rese riproducibili come potenza «fredda» contrapposta alla capacità «calda» incorporata negli agenti medesimi (per semplicità, i soggetti proletari o iper-proletari, come li definiva).
[4] Piani Operativi Nazionali del Miur finanziati con i fondi strutturali europei.
[5] R. Alquati, Dispense di sociologia industriale, Il Segnalibro, Torino, tomo 1, IV volume, p.121
[6] Ho una allieva timidissima che ogni giorno manda un saluto su Classroom agli insegnanti, segno «caldo» di una resistenza umana ad uno strumento ostile e a una istituzione scolastica spesso in sé ostile.
[7] R. Alquati, Appunti quadro per una ricerca sulla «Formazione», primi anni ’90, p. 9.
[8] S. Carrer, L’esempio cinese: lezioni a distanza con l’intelligenza artificiale, in La scuola da casa, Il Sole 24 ore Le guide, marzo 2020.
[9] R. Alquati, Sul comunicare, Il Segnalibro, Torino, 1993, p. 85.
[10] Ivi, p. 33.
[11] R. Alquati, Appunti quadro per una ricerca sulla «Formazione», primi anni ’90, p. 10.