di SUSANA ROITMAN e ELISABETTA DELLA CORTE
(in Sudcomune, novembre 2019)
In un mese, lo scenario politico e sociale a livello globale è velocemente cambiato, perché, con un sincronismo inaspettato, dopo la crisi del 2008, è emerso un nuovo ciclo di rivolte, contro le misure di austerità di stampo neoliberale. Barcellona, Hong Kong, Haiti, Puerto Rico, Quito, Sudan, Libano, Tunisia, Iran, e in Chile, sono alcuni di questi luoghi.
Queste nuove insorgenze vedono come protagonista una forza moltitudinaria, ovvero, giovani, donne, precari, proletari, persone senza casa, ceto medio indebitato; come quelli che in Cile dicono “Non sono trenta pesos, sono trent’anni ”, per rimarcare che le radici di quella protesta, che ha solo poco più di tre settimane è destinata a non placarsi; perché viene da lontano, dal passato; in particolare nel modello neoliberista imposto, nel secolo scorso, dopo il colpo di stato del 1973 ordito da Pinochet, generale fellone, nominato dal governo Allende.
Queste forze moltitudinarie che sono l’anima delle recenti ribellioni, si pongono in una prospettiva di trasformazione dell’impianto neoliberista; e proprio per questo preoccupano fortemente il potere che dal suo lato reprime e prova ad adottare delle soluzioni istituzionali di paravento dal carattere vagamente schizofrenico; valga, come esempio la proposta, del presidente cileno Piñera che, mentre abusava della repressione proponeva in simultanea una riforma della costituzione in senso democratico-liberale. Sono 23 i morti registrati, 1300 i feriti, centinaia le donne e gli uomini che sono stati colpiti dai proiettili nel corso delle manifestazioni in Cile, decine le donne violentate dalle forze dell’ordine e circa tremila i detenuti nelle carceri. Nonostante questo inquietante scenario – morte, tortura, abusi sessuali- le proteste nelle strade di Santiago, Valparaíso e altri luoghi in Cile continuano a resistere in nome dell’autoorganizzazione, la libertà, la possibilità di costruire un altro mondo meno ingiusto.
Sempre in America Latina, in Brasile, negli ultimi giorni l’annuncio della scarcerazione, per altro provvisoria, dell’ex presidente Lula- condannato per corruzione con prove dubbie – ha riaperto la speranza di riavviare un camino riformista, a partire dall’apparato statale.
Proprio mentre si festeggiava la libertà per Lula, un colpo di stato in Bolivia lentamente prendeva forma, dopo le ultime elezioni, per poi esplodere negli ultimi due giorni. L’immagine di Evo Morales che rassegna le dimissioni, ha fatto il giro del mondo così come quelle delle violenze contro indigeni, donne, giornalisti, sindaci che in diversi modi lo hanno sostenuto.
Quella boliviana è l’altra faccia, quella negativa, rispetto alla ribellione cilena. Per capire questa storia bisogna, anche in questo caso, ricorrere alla memoria e ricostruire la storia degli interessi del capitale finanziario globale, in particolare quello nordamericano, che saldandosi con quelli dei grandi proprietari terrieri, hanno, da oltre un secolo, usato l’America Latina come il cortile da cui estrarre le risorse naturali, la forza-lavoro a basso costo, in un lungo processo di accumulazione predatoria.
Il Mas, il Movimento al Socialismo di Evo Morales, ha una lunga storia; il suo governo è il prodotto di lotte sociali esplose per evitare la privatizzazione di risorse fondamentali come l’acqua e il gas. La base sociale del governo di Morales era quella dei popoli indigeni, il settore popolare della capitale La Paz e i cocaleros.
Al di là della discussione sulla forma statale del governo e la relazione con i movimenti sociali, che meritano per complessità ulteriori approfondimenti, quello che ci interessa rimarcare è la strategia capitalistica globale per eliminare Evo Morales dalla scacchiera dell’America Latina, mai ‘’pacificata’’, e ora di nuovo in aperto subbuglio.
Siamo, con ogni evidenza, dinanzi ad un ciclo di lotte moltitudinarie che può essere inteso correttamente solo se si evita di mescolare il tutto, ma procedendo per analogie e differenze specifiche, così da evitare di confondere la sovversione cilena con l’eversione boliviana. E’ opportuno specificare che anche se vengono usate parole uguali, come, ad esempio, assemblea, ‘’cavildo’’ (assemblee civiche), democrazia, queste nel caso boliviano mascherano gli interessi dei gruppi di potere che, per l’ennesima volta, mirano ad appropriarsi delle risorse – la Bolivia è tra le altre cose ricca di litio, una risorsa indispensabile per costruire computer, cellulari, batterie per auto elettriche-. Si capisce perché l’eliminazione di Morales è un piano orchestrato con cura. Se la rivolta cilena è contro il neoliberalismo di matrice pinochetista, quella boliviana è il tentativo di bloccare un progetto redistributivo, che limita la concentrazione capitalista, ed in particolare la presenza invasiva delle multinazionali, attraverso lo stato.
Per chiudere senza concludere, c’è da segnalare che con Trump, perfetta ‘’maschera caricaturale’’ del capitalismo, la politica estera statunitense rispetto all’America Latina è in continuità con quella praticata da Nixon negli anni settanta del secolo scorso: con l’imposizione di dittature civico-militari per contrastare la possibilità di governi di sinistra e di insorgenze di massa- come ad esempio il governo di Allende in Cile e la rivolta del Cordobazo e Rosariazo in Argentina. Eppure, nonostante le dittature vecchie e nuove, la cruenta repressione, le torture, le migliaia di desaparecidos, la sovversione sociale in America Latina continua ad aprire spazi di possibilità per immaginare un altro mondo, altri sistemi di relazione fuori dall’egemonia del capitale nord-americano, e più in genere, di quello globale.