Una conversazione con Salvatore Cominu a partire dai risultati della tornata elettorale (in Commonware.org, giugno 2019)
Premessa, sono considerazioni poco meditate e spero asciutte. Vorrei restare su un registro di mera analisi. Non mi sembra il caso di alzare i decibel sul fascismo alle porte. Proviamo magari a capire: non avere le idee chiare non è affatto qualcosa di cui vergognarsi.
1Alcune considerazioni a monte. Come è acquisito da chi si occupa di questi temi, la distinzione tra voto di appartenenza – basato sull’adesione ideologica e la continuità della preferenza – voto d’opinione, basato su adesioni cognitive di breve periodo, e voto di scambio, basato su logiche negoziali e calcolo costi-benefici, è saltata da tempo. Dalle politiche del 2013 alle europee di qualche giorno fa solo una minoranza ha mantenuto invariate le sue preferenze, la maggioranza (tra quanti votano) ha cambiato partito, con una quota ormai ampia che si astiene, stabilmente o a intermittenza. Quelle categorie andrebbero come minimo diversamente declinate. Una prima questione, almeno così mi sembra, è che le diverse frazioni di elettorato accordino la preferenza, di volta in volta, sulla base di valutazioni molto pragmatiche, che occorre provare a decodificare. C’è una conclamata difficoltà dell’offerta di rappresentanza nel creare connessioni stabili con i settori sociali cui è rivolta. Credo che questo discorso valga, in prospettiva, anche per la Lega di Salvini.
Nelle elezioni europee – che non sono le politiche, non è semplice capire per cosa la gente effettivamente voti in queste consultazioni – del 2014 il Partito Democratico prese il 41%: Renzi sembrava destinato ad occupare il centro dell’arena politico-istituzionale per diversi lustri e invece, a distanza di pochi anni, sembra confinato nella marginalità, anche per effetto del fuoco amico ma soprattutto perché spedito a casa da quei settori popolari e di ceto medio che non hanno impiegato molto a individuarlo come nemico. Perché nel 2014, però, prese tutti quei voti? Ci fu consenso diffuso verso lo slogan della rottamazione (non solo tra gli elettori di sinistra) e probabilmente una certa capacità di mobilitazione della retorica dell’innovazione, ma credo abbiano pesato anche argomenti più solidi: la misura degli 80 euro fu percepita da parte degli strati medio-bassi con lavoro fisso ma salari contenuti o decrescenti, come segnale della volontà di farsi carico delle loro condizioni. Renzi prometteva una contrattazione moderata con l’UE nella fase più dura della cosiddetta austerity, in un contesto caratterizzato da tredici trimestri consecutivi di calo del Pil. Prometteva, per farla breve, un’uscita dalla crisi accompagnata da misure a beneficio di specifiche frazioni dei ceti medi e popolari, più legati alla sinistra, e dei giovani istruiti con poche chance di mobilità sociale.
Il M5S fece il primo botto alle politiche del 2013, con il 25%, trasformandosi da piccolo Piratenpartei mediterraneo, con un qualche seguito tra ecologisti, internettari e strati inferiori di knowledge worker, in una forza in grado di sparigliare gli assetti più o meno “bipolari” della rappresentanza; fino allo scorso anno, non dimentichiamo, era la lista più votata dai ceti produttivi tradizionalmente intesi (soprattutto operai, impiegati e lavoratori autonomi), da giovani e giovani adulti, precari, meno precari o disoccupati. Da allora, il M5S ingaggia un braccio di ferro col PD, riesce a conquistare Roma e Torino e alcune città medie o piccole, fino al 32% del 4 marzo. Dentro quel voto c’erano, come era stato osservato, anche significative ambivalenze, a dispetto dell’evidente nullità dei personaggi chiamati a interpretarle (cos’altro si può dire di Bonafede o di Toninelli?). La cornice è data dal venire meno delle condizioni che avevano prodotto anche in Italia un ceto medio ampio e articolato, e la rottura dei contratti politici che assicuravano a questi strati integrazione in cambio di consenso. L’affermazione del M5S si portava dietro il sottostante di una domanda redistributiva, ma anche istanze che agitavano confusamente, senza che se ne rendessero probabilmente conto, alcune questioni di fondo del capitalismo dei nostri giorni: dalla crisi ecologica alle nuove tecnologie alla rottura del rapporto tra lavoro e cittadinanza sociale. Al di là della debolezza (o della esistenza stessa) del “programma” e del posizionamento anodino su temi importanti (la UE, i migranti), il M5S ha raccolto una domanda non compatibile con il quadro dato, almeno in assenza di gilet. In più prometteva di mandare a casa la casta con una “rivoluzione senza ghigliottine”, come diceva Beppe Grillo. Quanto insomma era nelle attese di vasti settori popolari: ceti medi impoveriti o impauriti, ceti popolari delle cosiddette periferie o del Mezzogiorno, dei giovani, istruiti e non, accomunati da precarietà o assenza di reddito. Una ricomposizione spoliticizzata (senza azione collettiva) di settori che nella seconda repubblica costituivano bacini elettorali distinti.
Vinte le elezioni, i 5S consumano in pochissimo tempo questo capitale a favore della Lega che, dopo pochi mesi dalla formazione del governo, aveva già ribaltato i rapporti di forza e costruito le basi del consenso che ha trovato ratifica alle europee. Man mano che vengono pubblicati i dati sui flussi di voto, vediamo che non si è trattato in realtà di travaso; la tesi del “traghettamento”, sostenuta da alcune firme del giornalismo italiano, è fuorviante. I voti in uscita dal M5S sono andati in maggioranza all’astensione (e ci sarebbe in effetti da chiedersi se e cosa avrebbero votato in caso di elezioni politiche) e in più piccola parte alla Lega e poi al PD. Il voto leghista, comunque, si può leggere adottando un metro simile a quello usato per Renzi e il M5S, come domanda – proveniente da altri settori di ceto medio e popolari, solo in parte sovrapposti o “dragati” all’elettorato grillino – di differimento degli effetti della crisi, di richiesta di protezioni selettive, e via di seguito. La Lega batte però vie diverse: più conflitto con l’UE – mossa altamente retorica, poiché le autorità europee non offriranno margini, ma nel breve periodo politicamente produttiva – e abbassamento delle tasse. Chiunque sia un minimo sveglio comprende che la flat tax accentuerebbe polarizzazione sociale e disuguaglianze, ma la proposta colpisce nel segno, passando come restituzione della ricchezza a chi la produce e leva per la ripresa dei consumi. Poi, il problema non sarà realizzarla per intero (anche se verso le partite Iva fino a 65mila euro lo hanno fatto), quanto proporla come baricentro della loro politica. Al limite, si ricorrerà al’evergreen del condono o altre forme più sostenibili. Pesa, naturalmente, anche l’argomento più cinico: la garanzia di venire prima degli stranieri nella concorrenza al ribasso sul mercato del lavoro e nel welfare, come protezione selettiva di ultima istanza almeno nell’accesso ai sussidi compassionevoli. Partiamo da questa aleatorietà. A me sembra che frazioni di elettorato, corrispondenti di volta in volta a componenti diverse e in parte sovrapposte di ceto medio impoverito o dei ceti popolari, scelgano chi promette di arrestare o temperare il declino, la caduta del potere d’acquisto, di preservare la tenuta dei redditi. Non si chiede un rilancio a cui i più non credono (di questo al limite si discetta nei convegni) o un radicale cambiamento di rotta. I tre principali protagonisti politici degli ultimi anni, seppur con toni, proposte, modalità differenti (cose che mi rendo conto hanno una loro importanza) hanno “vinto” quando hanno comunicato ad un elettorato sempre più infedele una qualche volontà di arginare la deriva delle condizioni materiali dei gruppi colpiti dalla crisi o impauriti dalle trasformazioni del capitalismo. A me sembra che questa domanda ponga al centro l’esigenza di una stabilizzazione, più che volontà di destabilizzare. L’innovazione, la “rivoluzione”, a fronte della destrutturazione dei legami che consentivano pratiche “di classe”, è percepita come una forza dei poteri economici a cui magari si fatica a dare un volto, ma la cui presa sul lavoro e sulle vite è vissuta materialmente. A scanso di equivoci, stabilizzazione va intesa come mediazione, argine, “guadagnare tempo”. Tutto ciò, infatti, non sminuisce la rilevanza delle questioni che appassionano quel che residua del vecchio popolo della sinistra, che sono ben lungi dal considerare secondarie: non lo sono evidentemente il razzismo, il patriarcato, l’ecologismo. Trovo superfluo dirlo qui, come se tra i lettori di questo blog ci fossero persone da convincere di ciò. Infine, se la politica è anche questione di simboli e produzione di significati, la Lega che oggi vince lo fa anchesu questo terreno. Non mi sembra però il caso di scambiare causa ed effetti, i compaesani del tabaccaio di Pavone Canavese che ha ucciso il ladro sparandogli alle spalle, sarebbero scesi in piazza con o senza Salvini, sebbene avere dalla propria il Ministro fornisca legittimazione.
Ciò detto, bisognerà rispondere alle questioni: perché la Lega ha guadagnato tutti questi voti e perché il M5S li ha persi? La Lega è in grado di consolidare e stabilizzare questo consenso?
Il M5S ha subito un calo di consensi impressionante; ci andrei cauto nel pronosticare una imminente estinzione (a meno di cause “endogene”), ma sono in un cul de sac, al punto che qualsiasi scelta possano compiere, nel breve sono destinati a pagarla. Perché hanno perso così? Non mi convince la tesi del tradimento del progetto originario. Né quella simile, per cui pagano l’atteggiamento accondiscendente verso la Lega. Può darsi, vorrei in fondo sperarlo. Nei due mesi precedenti le elezioni, però, i 5S compiono una svolta comunicativa, si contrappongono alla Lega, “dicono cose di sinistra”, ma non è che da ciò siano stati premiati, anzi! Il “tradimento” ci sarà anche stato, ma non mi pare la spiegazione principale. A me sembra che l’elettore pragmatico di cui si è detto, presti viceversa molta attenzione al “potere positivo”, la capacità di concretizzare, la credibilità di attuatore. Ad esempio, il M5S ha fatto del reddito di cittadinanza una bandiera, ma la traduzione pratica e la sua attuazione sono abbastanza deludenti, per quanto poi occorra chiedersi come sia percepita da chi ne beneficia; al Nord sono diventati una forza sotto il 10%, al Sud hanno perso molti voti ma sono tuttora il primo partito. Credo che se al governo non ti dimostri capace di mettere in pratica le politiche redistributive promesse, se manifesti insipienza, finisci per apparire destabilizzante per la composizione che ti vota più che per i poteri che dichiaravi di voler mandare a casa. Quel ceto medio declassato e i settori popolari che ne hanno sostenuto la fase ascendente, non è una composizione votata al conflitto. Il voto di protesta o “populista” non va letto come sostituto funzionale della lotta. Se usiamo come chiave di fondo l’uso pragmatico del voto, chi “vince” deve confrontarsi con la capacità di fare. I 5S non dimostrano capacità “realizzativa”, né a livello locale (a Torino stanno in fondo facendo cose non dissimili dai predecessori) né su scala nazionale. Questo pone in secondo piano anche gli elementi positivi o almeno ambivalenti che hanno introdotto nel dibattito. Posso dire che decreto dignità, reddito di cittadinanza e salario minimo siano proposte insufficienti o che producono effetti perversi, ma non posso ignorare come siano criticati soprattutto dal mondo imprenditoriale o dal sindaco di Gabicce (quello che “non si trovano più bagnini” perché i meridionali col reddito preferiscono non lavorare). Certamente, il fallimento M5S consegna un problema; il messaggio, forte e chiaro, per cui ai vincoli di bilancio e al primato degli interessi dominanti non possono darsi alternative. Più in generale, la capacità di realizzare, oggi, è in apparenza del tutto in mano al capitale, che si propone come solo motore in grado di fornire soluzioni pratiche ai problemi degli individui e delle comunità, si vedano ad esempio le retoriche con discreto appeal della green economy e del social impact, attraverso l’impresa e la forma-merce. L’idea che si possa ottenere qualcosa per via politica è bandita; il che ci riporta alla grande questione del conflitto e alla sua assenza.
Ulteriore questione, la distribuzione territoriale del voto, che conferma tendenze acquisite. Una di queste, che non scopriamo oggi, è la frattura tra grandi centri urbani e resto del territorio. Le maggiori città, nonostante tutto, sembrano appannaggio del Pd, almeno nei quartieri benestanti e nelle Ztl, come qualcuno ha scritto. Non è una dinamica solo italiana. I Verdi, in Germania, ne costituiscono di fatto un succedaneo, che è potuto crescere sulle macerie della SPD. Hanno possibilità di ulteriore espansione? Secondo me faticheranno, perché rappresentano soprattutto quei ceti, anche se pongono questioni (qualità della vita e della riproduzione) che interessano tutti. In un certo senso, incarnano quel potere positivo, l’idea di fare, un ambientalismo pragmatico, che si lega con la Green Economy, in cui ogni elemento di critica al capitalismo è escluso.
Comunque, la geografia politica del ‘900 è scomparsa. La “Terza Italia” – che era una diversa via dello sviluppo industriale, ma anche una cultura politica e un voto – non esiste più. Il Pd resiste a malapena in Toscana, non nelle Marche o in Umbria. Permane una evidente spaccatura tra Mezzogiorno e resto del paese, che difficilmente si rimarginerà, perché non è solo questione di voto. Le regioni del Centro- Nord, al di là delle differenze tra economie più performanti e in crisi, tutto sommato convergono dal punto di vista produttivo e della composizione sociale. Esprimono domande abbastanza simili, anche la rappresentanza politica territoriale può ricomporsi – in effetti la Lega è prima partito quasi ovunque. Il Sud, invece, è un potenziale bacino di conflitto, lo abbiamo visto anche in Sardegna.
Il crollo M5S ha gonfiato il voto degli altri, per un banale meccanismo statistico. E’ evidente, ad esempio, che il PD non ha vinto le elezioni; ha perso in realtà circa 150.000 voti rispetto alle politiche, ma ha festeggiato il risultato. I dati dell’Istituto Cattaneo – da prendere con le pinze perché utilizzano metodologie e panel che probabilmente non rispecchiamo le trasformazioni sociali – dicono che non assorbe se non in minima parte voti in uscita dal M5S, semmai riceve voti dalla sua sinistra, tra chi aveva votato LeU o PaP alle politiche. A me sembra evidente che il frontismo antisalviniano è destinato a far convergere le preferenze verso i dem, che si pongono come baricentro di un polo alternativo alla destra. Hanno tutto l’interesse, oggi, a riportare il quadro in uno scenario bipolare, sebbene siano lontanissimi dal poter vincere delle consultazioni nazionali. Per loro, l’antisalvinismo è un balsamo, che rievoca i fasti dell’antiberlusconismo. Non mi sembra proprio un esito auspicabile. A sinistra cosa c’è da aggiungere? Ad ogni nuova consultazione le liste che vengono assemblate si allontanano sempre più dalla soglia di sbarramento. Mi sembra che in generale, sia la sinistra europeista sia l’euroscetticismo “buono” non stiano molto bene. Tutte o quasi le formazioni nate dal 2011 sono in difficoltà: Podemos raggiunge a malapena il 10% coalizzandosi con Izquierda Unida, forse perché ormai è percepita come una “normale” forza di sinistra. L’esperimento di Barcelona En Comú di Ada Colau ha perso le amministrative – anche se chiaramente la sfida contro i nazionalisti catalani era difficile; in Grecia l’esperimento di Syriza è al capolinea; in Francia era palese che la France Insoumise avesse il fiato corto; lo stesso Corbyn è rimasto schiacciato nel dilemma Brexit. Forse si è davvero chiusa una stagione, quella che Sciortino chiama “prima fase del neopopulismo”, che conteneva una versione progressista e a mio modo di vedere anche il cittadinismo M5S, anche se questo non ha radici nelle culture della sinistra.
Al di fuori della sinistra, molti commenti hanno enfatizzato la tenuta e addirittura il nuovo slancio che il progetto europeo avrebbe ricevuto dalle consultazioni: tutti i salmi finiscono in gloria, ma questo giudizio non mi sembra motivato. L’Europarlamento è frammentato, l’asse popolari-socialdemocratici è in crisi ovunque e per governare deve chiamare in soccorso liberali e verdi. La sfida “sovranista” non ha dato la temuta spallata, ma si poteva seriamente pensarlo? Quanta propaganda è stata fatta su questo rischio? In realtà, il nuovo Europarlamento è più “euroscettico”, per usare questa espressione, di quello uscente. Credo poi che i voti, come le azioni di Cuccia, vadano “pesati” e non solo contati; anche se per il futuro quelli inglesi non conteranno, la vittoria di Farage, come quella leghista e del RN francese, hanno un peso politico che è difficile trascurare.
Le Lega ha vinto, sarà in grado di consolidare un blocco sociale nazionalista e reazionario? Più della pretesa deriva fascista, della Lega dovrebbe preoccupare il fatto che si presenti come interlocutore affidabile, in grado di dare almeno parziale seguito al suo programma economico e sociale. C’è una Lega – spesso in frizione con Salvini – che governa in Lombardia, Veneto, di fatto in Piemonte – nonostante il governatore di Forza Italia, sette assessori saranno leghisti – e si sta preparando allo scontro vero in Emilia Romagna. In questi territori hanno radicamento e un ceto politico-amministrativo legittimato. Neanche loro rappresentano una risposta stabilizzata: agiteranno la flat tax, forse aspetteranno le elezioni in Emilia per spingere sull’autonomia delle regioni. In ogni caso dovranno rendere conto su quanto effettivamente realizzato. Credo semmai che il progetto leghista misurerà le proprie possibilità soprattutto in relazione all’evolvere del quadro internazionale. Occorrerà valutare quanto l’antieuropeismo di Salvini, finora verbale, possa funzionare come leva per spostare le sue basi di consenso dalle politiche fiscali o dell’immigrazione su un terreno più apertamente nazionalista. Occorre qui essere consapevoli del carattere singolare del “sovranismo” di Salvini, che di fatto si propone come sponda europea dell’amministrazione USA. A me ha colpito che Giorgetti, in un’intervista a poche giorni dalle elezioni, accusava il partner di governo, più che su questioni interne, per la posizione assunta sul Venezuela, di sostegno a Maduro. Insomma, sovranismo è un termine che rischia di avere poco significato. Noto peraltro una contraddizione in questa scelta americanista, poiché l’insediamento storico della Lega ha un’economia fortemente intrecciata e dipendente dal capitale manifatturiero tedesco. Fino a quale punto una forza di governo potrà non considerare questi interessi?
Cosa succederà ora? E’ difficile azzardare previsioni nel breve. Non credo ad una improbabile (al limite è più facile che si spacchino) svolta del M5S, magari intorno a Fico, né che un ritorno alle origini possa riportarli in auge. Ciò non significa che siano destinati a scomparire. Però difficilmente riusciranno a superare l’impasse. Se escono dal governo devono dichiarare fallimento. Stando al fianco di Salvini, ne diventano il partner subalterno. Si andrà avanti finché alla Lega converrà avere dei consorziati, ma prima o poi vorrà ratificare appieno il suo consenso. Votare conviene anche ad altri (allo stesso Zingaretti), anche se non è detto che il partito del Presidente – a cui vanno ascritti Conte e Tria – sia disposto ad assecondare queste spinte. Il medio periodo dipenderà anche dall’evoluzione della situazione economica, ossia dal ripresentarsi della crisi in forma di recessione conclamata o di crescita zero, in cui siamo già inseriti. In realtà, una fase recessiva è ormai data per certa, ma il contesto è profondamente mutato, le risorse scarseggiano e difficilmente economie come quella cinese potranno funzionare, come fecero dopo il 2008, come polmoni per il rilancio della produzione mondiale. E’ chiaro che questo scenario potrebbe saldare l’instabile legame di parti importanti dei settori colpiti dalla crisi con la Lega di Salvini. Non si può sottovalutare la possibilità che il risentimento di questi ceti dal voto pragmatico, infatti, possa stabilizzarsi in una prospettiva apertamente nazionalista. Non è tuttavia un progetto semplice neanche per la Lega, se si parte dal presupposto che il processo di ritirata del ceto medio abbia prodotto una frattura, nel senso della fine della co-appartenenza culturale, simbolica, ideologica, tra questi strati, che formano una parte significativa della condizione proletaria odierna, e le classi dominanti. Il problema è che questa frattura sembra produrre ancor più individualizzazione, piuttosto che ricomposizione. La variabile in grado di sparigliare il quadro, la sola che potrebbe riaprire su scala allargata una contesa sulla gestione della crisi, sarebbe l’irrompere di conflitti in grado di combinare nuova questione salariale e temi della riproduzione sociale, come credo si possa definire il movimento dei gilet jaunes, possibilmente in una dimensione non solo nazionale. I movimenti non si possono pianificare o prevedere, anche se si possono in qualche modo anticipare e “organizzare”.