di TONINO PERNA (in Manifesto, marzo 2019)
Gioia Tauro, il grande porto del Mediterraneo per il transhipment, avrebbe avuto bisogno di investimenti. Dopo gli accordi con Pechino, può chiudere i battenti
La Via della seta andrebbe chiamata la via del kapitale cinese, ma sarebbe piuttosto volgare e poco evocativo. Oggi, la Cina comunista è diventata la più convinta sostenitrice del “libero mercato”, della globalizzazione dei mercati, esattamente come fece l’Inghilterra nel XIX secolo dopo aver fatto la rivoluzione industriale ed essere stata fervente sostenitrice del protezionismo nel secolo dei Lumi. Certo, mantenendo il controllo del cambio della propria valuta, mantiene una gestione politica del rapporto con le altre economie e, con uno Stato e governo forte, che non ha bisogno di consensi elettorali, può fare programmi di lungo periodo.
ALL’INTERNO di questa strategia va vista la recente visita del presidente cinese che ha scelto l’Italia come porta d’accesso ai ricchi mercati del Centro Europa. Anzi ha scelto due porti di accesso dove investire: Genova e Trieste. In questo modo le navi portacontainers provenienti dall’Asia, quei grattaceli che attraversano gli oceani e arrivano nel Mediterraneo dal mar Rosso, possono velocemente arrivare nel cuore dell’Europa che conta, grazie all’efficienza che la gestione di questi porti e le sue infrastrutture consentono.
TAGLIATO fuori da questo flusso di merci è tutto il Mezzogiorno che pure aveva in Gioia Tauro, fino a pochi anni fa, il principale porto del Mediterraneo per il transhipment e che avrebbe avuto bisogno di grandi investimenti per essere rilanciato. Entrato in crisi in quest’ultimo decennio, con questi accordi con la Cina, principale cliente, il porto di Gioia Tauro può chiudere battenti e mandare a casa migliaia di addetti! Tra le cause c’è sicuramente quello che più volte è stato denunciato: non c’è collegamento con la rete ferroviaria, che a sua volta è obsoleta e non compete con l’alta velocità per trasportare le merci vengono nel resto della Ue.
Certo, tra gli accordi si parla di apertura all’export delle arance (per fare un dispetto alla Spagna che non ha voluto firmare un memorandum col gigante cinese), e si sceglie Palermo per un fantomatico hub turistico per il Mediterraneo. Un contentino dato anche al Sud, dove il M5S, che ha voluto fortemente questo accordo con il governo cinese, ha la sua base elettorale. Ma si tratta solo di buoni propositi.
LA PARTE più interessante per le ricadute economiche, quella turistica, è tutta da studiare ed elaborare. Attualmente i 15 milioni di turisti cinesi che hanno visitato l’Europa l’anno scorso fanno, mediamente, un giro veloce delle capitali europee (più Venezia e qualche altra città d’arte), ed in Italia stanno mediamente un giorno e mezzo. Anche se includessero Palermo, si tratta di un turismo di massa mordi e fuggi (come facciamo noi europei quando visitiamo la Cina e pensiamo in dieci giorni di conoscerla) che incide ben poco in termini di occupazione e di valore aggiunto.
SOLO SE L’ITALIA avesse una seria politica mediterranea, se guardasse verso Sud, verso l’Africa e non sempre verso la Germania e il Nord America, potrebbe avere un senso parlare anche di hub turistico mediterraneo.
Ovvero: elaborare con gli altri paesi della sponda sud una strategia economica, culturale e politica. Ma tant’è: questa è la pochezza di visione in cui siamo immersi., la visione di un governo e, soprattutto, di un movimento arrivato al poter grazie ai voti dei meridionali.