Di AMÉLIE POINSSOT e TONI NEGRI (in Euronomade, febbraio 2019)
Per il filosofo italiano Antonio Negri, i gilets jaunes si iscrivono in una tendenza che osserviamo, in Europa e nel mondo, a partire dal 2011, da Occupy Wall Street alla rivoluzione tunisina. «Siamo sull’orlo di una trasformazione mondiale», spiega il teorico della «moltitudine».
I gilets jaunes devono restare un contro-potere e, soprattutto, non trasformarsi in partito politico, afferma Antonio Negri. Il filosofo italiano, che vive à Parigi dal 1983, osserva da molto tempo i movimenti sociali nel mondo. In Assemblea, la sua ultima opera scritta nel 2018 con Michael Hardt, ha fornito una cornice filosofica alle occupazioni delle piazze pubbliche emerse in questi ultimi dieci anni. In Impero, pubblicato con lo stesso autore nel 2000, Negri ha inventato il concetto di “moltitudine”, che assume oggi una particolare pregnanza con il movimento dei gilets jaunes. Il movimento che si è sviluppato in Francia da novembre si caratterizza, a suo avviso, per una nuova forma di lotta che si fonda sulla fraternità.
Da una decina di anni, numerosi movimenti di protesta sono emersi, in Europa e nel mondo, fuori dai partiti o dalle organizzazioni sindacali. Cosa apportano di nuovo i gilets jaunes rispetto a ciò?
I gilets jaunes si inscrivono in questa tendenza alla quale assistiamo a partire dal 2011: dei movimenti che fuoriescono dalle categorie destra/sinistra come Occupy Wall Street, gli Indignados, o ancora il sollevamento tunisino.
Anche in Italia le persone si sono mobilitate, prima nelle università con il movimento dell’Onda, poi attorno ai beni comuni con l’opposizione alla TAV o alla gestione dei rifiuti a Napoli.
Ogni volta, si tratta di lotte importanti che non si posizionano né a destra né a sinistra, ma che poggiano su una comunità locale.
È qualcosa che ritroviamo nei gilets jaunes: c’è in questo movimento un senso della comunità, la volontà di difendere ciò che si è. Mi fa pensare all’«economia morale della folla» che lo storico britannico Edward Thompson aveva teorizzato nel periodo precedente la rivoluzione industriale.
Tuttavia, ciò che c’è di nuovo con i gilets jaunes è una certa apertura al concetto di felicità: siamo felici di stare insieme, non abbiamo paura perché siamo il germe di una fraternità e di una maggioranza.
L’altro aspetto importante mi pare sia il superamento del livello sindacale della lotta. Il problema del costo della vita resta centrale, ma il punto di vista categoriale è del tutto superato. I gilets jaunes sono alla ricerca di un’uguaglianza attorno al costo della vita e del modo di vita. Hanno fatto emergere un discorso sulla distribuzione del profitto sociale costituito dall’imposta, muovendo da una rivendicazione iniziale che era al contempo molto concreta e molto generale: la riduzione della tassa sul carburante.
Se ci fosse una vera sinistra in Francia, si sarebbe gettata sui gilets jaunes e avrebbe costituito un elemento insurrezionale. Ma il passaggio da questo tipo di lotta alla trasformazione della società è un processo terribilmente lungo e talvolta crudele.
Come interpretare la violenza vista in occasione delle manifestazioni parigine? Essa è diventata per alcuni l’unico mezzo al quale ricorrere per farsi ascoltare?
I gilets jaunes sono un movimento profondamente pacifico. Non considerano la violenza come un mezzo. Ho conosciuto bene i movimenti sociali degli anni ’70 in Italia. All’epoca, la violenza operaia mirava alla polizia e in ogni faccia a faccia tra le 100 e le 200 molotov colpivano le forze dell’ordine. Non è questo il caso.
I manifestanti non tirano le bottiglie molotov sulla polizia. Durante i cortei, che si dirigono dagli Champs-Élysées a Place de la Concorde, la situazione è violenta perché si impedisce di arrivare di fronte ai Palazzi, nonostante sia perfettamente legale. È nello scontro che nasce la violenza, essa non è teorizzata in quanto tale come mezzo d’azione.
Per me c’è una differenza enorme tra la colpa e la responsabilità. Le persone che sono venute a manifestare a Parigi non sono venute per picchiare o per fare dei danni. Non sono responsabili di questa situazione.
Guardando ai gilets jaunes, sono stato piuttosto colpito dalla fraternità di questo movimento. Sono delle persone che si costruiscono come fratelli e sorelle. Come in una famiglia, tentano di regolare le controversie attraverso la discussione: è questo il referendum d’iniziativa cittadina. È un fenomeno totalmente nuovo, commisurato al collasso politico.
Stiamo assistendo all’emergenza di un nuovo corpo, visto che dal crollo del blocco comunista, le idee faticano a imporsi per far fronte al rullo compressore del neoliberalismo?
Dal canto mio, sono vent’anni che parlo di “moltitudine” precisamente per analizzare la dissoluzione delle antiche classi sociali. La classe operaia è stata una classe produttiva, legata a una temporalità e a una localizzazione: si lavorava in fabbrica e la città seguiva il ritmo della fabbrica. A Torino per esempio, i tram erano regolati sugli orari della giornata di lavoro.
Tutto questo è finito. Non sono nostalgico di quell’epoca, perché la fabbrica uccideva le persone. Certo, abbiamo perso il legame della produzione, il legame della giornata di lavoro, il collettivo. Ma oggi, abbiamo la cooperazione: e questa va ben oltre il collettivo.
La moltitudine non è una folla di individui isolati, rinchiusi in se stessi ed egoisti. È un insieme di singolarità che lavorano, che possono essere precari, disoccupati o pensionati, ma che sono nella cooperazione.
C’è una dimensione spaziale in questa moltitudine: sono delle singolarità che, per esistere, chiedono di essere in contatto le une con le altre. Non si tratta solo di quantità. È anche la qualità delle relazioni che è in gioco.
I sindacati hanno completamente mancato il movimento?
È stato lo stesso Laurent Berger, segretario generale della CFDT, a dichiarare che il sindacalismo è mortale. I sindacati sono diventati organi di Stato per gestire i salari e le prestazioni sociali. Non hanno alcuno spazio in seno ai gilets jaunes, a meno che non comincino a ricordarsi cos’è accaduto un secolo fa… Sono bloccati sulle categorie e la professionalizzazione.
Come comprendere la risposta dello Stato e la repressione poliziesca che ha colpito i manifesti – e di cui Médiapart si è fatta l’eco tramite diverse testimonianze delle vittime e il lavoro di David Dufresne?
Le autorità vivono allo stesso tempo un’incomprensione totale del movimento e una reazione di paura. Emmanuel Macron sa perfettamente che il suo potere è estremamente fragile. Il contrasto è impressionante tra il vuoto dei suoi discorsi e la gravità della sua gestione governativa. È un prodotto della democrazia francese privo di ogni senso della realtà.
In fondo, Macron è sulla linea di tutti i governi neoliberali in crisi: essi tendono verso il fascismo. In Francia, le istituzioni sono ancora sufficientemente forti per impedire che ciò accada, ma i metodi e le armi della polizia francese sono inquietanti. A differenza delle forze dell’ordine tedesche, che puntano più alla deterrenza, la polizia francese è ancora sul terreno dello scontro. Io lo interpreto come un elemento che fa parte di questa fragilità del potere.
Non c’è qui una distorsione tra, da un lato, l’aspetto avanguardista e fondamentalmente nuovo del movimento dei gilets jaunes e, dall’altro, l’aspetto retrogrado della risposta poliziesca, che ricorda i metodi degli anni ’60-’70 impiegati in diversi paesi europei?
Certo. Ma non possiamo sapere come il movimento dei gilets jaunes evolverà. Io guardo a ciò che sta accadendo a Commercy: è molto interessante assistere alla trasformazione delle rotonde in gruppi di lavoro. La trasformazione del movimento non verrà dall’esterno, ma dagli attori stessi.
Quanto alla questione se esso sfocerà in un partito politico… Dal mio punto di vista, sarebbe un errore, anche se questa via dovesse essere accettata dalla maggioranza.
Lei si aspetta, con i gilets jaunes, dei cambiamenti importanti nelle nostre istituzioni?
Questo movimento mi ha riempito di speranza, perché mette in atto una forma di democrazia diretta. Sono convinto da cinquant’anni che la democrazia parlamentare sia destinata al fallimento. Già nel 1963 scrivevo un saggio nel quale criticavo lo Stato dei partiti. La situazione non ha fatto che aggravarsi… E lo si ritrova oggi ad ogni livello: comuni, regioni, Stati. E ovviamente, in Europa. L’Unione Europea è diventata una caricatura dell’amministrazione democratica.
I gilets jaunes hanno fatto apparire una domanda reale di partecipazione da parte degli individui. Con i mezzi tecnici di cui noi oggi disponiamo, possiamo costruire una democrazia radicalmente differente. Pensiamo ai filosofi dell’Illuminismo… Non erano dei folli. Le persone che hanno inventato la democrazia erano persone normali. Si deve osare pensare, come diceva Kant.
Siamo sull’orlo di una trasformazione globale. Smettiamo di pensare che questo sia il regno di Trump e di Bolsonaro. Con Internet e le reti sociali, siamo entrati in un nuovo rapporto tra tecnologia e trasformazione dell’umano. Non ho mai pensato che il capitalismo fosse unicamente una catastrofe, un mondo di merci e di alienazione. Il capitalismo è un universo di lotte nelle quali le persone tentano di appropriarsi dei prodotti dell’umano sfruttati dai padroni.
I gilets jaunes devono restare su questo terreno di lotta, piuttosto che diventare un partito politico, essere inghiottiti dal sistema e trovarsi nell’incapacità di agire nella digestione che il potere farebbe di loro. Spero che rimangano un contro-potere.
I gilets jaunes non vogliono leader. Se il sistema parlamentare è in crisi, la crisi sarà superata con nuove forme di organizzazione. Non abbiamo bisogno di un Cohn-Bendit. L’ideale sarebbe di arrivare a una democrazia diretta nella quale non ci sarebbero intermediari. Gli intermediari impediscono la trasparenza.
Insomma, bisogna rivedere i nostri schemi di pensiero e inventare …
Si, ma nei gilets jaunes la pratica viene prima del pensiero. Per comprendere questo movimento, bisogna mettersi in una posizione di umiltà di fronte a ciò che sta accadendo. Non si potrà costruire una formazione politica come Podemos. Quest’ultimo, d’altronde, è stato incapace di recuperare da un punto di vista teorico ciò che gli spagnoli mobilitati facevano da un punto di vista pratico.
La creazione del partito non può ormai che portare a un fallimento: le principali personalità di Podemos si accoltellano alle spalle e si uccidono a vicenda per i nomi dei candidati alle prossime elezioni [il 17 gennaio, uno dei fondatori di Podemos, Iñigo Errejón, ha annunciato la sua intenzione di candidarsi indipendentemente dal partito alle regionali. Sarà candidato nella piattaforma del sindaco della capitale, Más Madrid – ndr médiapart]. La formazione di un partito politico è la fine di un movimento sociale.
È una valutazione che lei fa egualmente nei confronti del Movimento Cinque Stelle, nato circa una decina di anni fa in Italia e oggi membro di un governo accanto alla Lega, partito d’estrema destra?
In effetti, all’origine dei Cinque Stelle si trovavano delle persone provenienti dai movimenti autonomi, dalle lotte per i beni comuni, ma anche, più tardi, dei critici della riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi. Era contrassegnato a sinistra. A differenza che in Francia dove il movimento è esploso di un colpo, in Italia, si è distribuito nel tempo, le persone si sono formate poco a poco.
In seguito, con la loro abilità, il comico Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, hanno cominciato a fare un lavoro elettorale su queste mobilitazioni. Il potere si è progressivamente spostato verso coloro che padroneggiavano le tecniche politiche.
Dal momento in cui ha tentato di governare, sotto la direzione di Luigi Di Maio, il movimento Cinque Stelle è stato completamente fuorviato. Prendere il potere non è rivoluzionario. Ciò che è rivoluzionario, è essere capaci di distruggere il potere o, al limite, di riformarlo.
Da allora, ciò che il Movimento Cinque Stelle fa al governo è rivoltante. Il reddito di cittadinanza universale che aveva promesso lo scorso anno durante la campagna elettorale è diventato una legge sulla povertà: il reddito è attribuito solo a una parte dei disoccupati ed è soggetto a obblighi disciplinari. Così, alla terza offerta di impiego, il beneficiario è obbligato di accettarlo, quale che sia la distanza alla quale essa si trovi dal suo domicilio.
I Cinque Stelle sono stati sopraffatti dall’avidità, dalla bramosia del potere. Si sono alleati con dei veri fascisti (la Lega) che sono, allo stesso tempo, dei profondi neoliberali. Il fascismo è il volto politico del neoliberalismo in crisi. Ma c’è una giustizia elettorale: il Movimento Cinque Stelle perderà molti voti alle elezioni europee del maggio prossimo.
(traduzione di Francesco Brancaccio per Dinamo Press)
Questo articolo è stato pubblicato in francese su Mediapart il 29 gennaio 2019 e in italiano su Dinamo Press.