Gilets Jaunes: il senso del faccia a faccia

di ETIENNE BALIBAR (in dinamopress.it, dicembre 2018)

Nell’articolo che segue, Etienne Balibar analizza brillantemente l’impasse al quale il governo francese è stato costretto dalla mobilitazione dei Gilets Jaunes, dai suoi blocchi logistici e dai suoi scatti insurrezionali. Dopo aver tracciato la storia dell’arrivo al potere di Macron, le sue cause, la sua politica economica e la sua ideologia, Balibar insiste sulle condizioni di possibilità di un salto in avanti del movimento che possa sottrarlo ai rischi di isolamento politico e mediatico. Contro facili entusiasmi e altrettanto facili previsioni, la convergenza con altre lotte e rivendicazioni – ecologiste, femministe e antirazziste – è allora esaminata come priorità strategica da assumere nell’ambivalenza di un sollevamento popolare dai tratti inediti. Nella prospettiva di garantire durata e solidità al conflitto, la questione degli assemblaggi democratici orizzontali e della loro capacità di imporre un rapporto di forza favorevole con le istituzioni è posta al centro dell’analisi, mentre l’investimento e l’occupazione delle municipalità locali viene suggerita come opzione tattica per rovesciare ed anticipare la strategia di integrazione delle istanze di lotta e di rilegittimazione politica annunciata la scorsa settimana dal presidente Macron nel suo discorso alla nazione. A fronte alla crisi irreversibile dei corpi di mediazione sociale della V Repubblica messa a nudo dai Gilets Jaunes, questa proposta – così come la critica dei rischi impliciti nella pratica dalla violenza di massa – apre certamente un dibattito che merita di essere proseguito in vista dei prossimi passaggi che il movimento si troverà ad affrontare.
Il presidente ha dunque parlato. Ma a chi? Questa è la prima questione da porre. Senza volerlo, e senza nemmeno osar nominare chi l’aveva costretto a parlare – i famosi Gilets Jaunes – ha pronunciato con il contagocce parole di misurata contrizione e, come subito rilevato dalla stampa, ha “concesso” delle misure di alleggerimento del fardello finanziario che pesa sulla parte più povera della popolazione, ma “senza cedere” su nessuno dei punti che avrebbero segnato un cambiamento di rotta, accontentando il movimento di rivolta che, ormai da quattro settimane, sconvolge profondamente il paese.
Nei prossimi giorni si faranno i conti per vedere esattamente chi e cosa si guadagna nell’immediato e sul medio periodo e chi può quindi considerarsi soddisfatto. Una volta di più, Macron ha promesso che i cittadini avrebbero avuto spazio di parola in una “concertazione” su scala nazionale che lo vedrà andare in prima persona a contatto con gli eletti locali. Il discorso è stato poi corredato da due elementi che inquietano profondamente ogni democratico. Innanzitutto, un lungo proclama di severità contro il «disordine e l’anarchia» – «ho dato al governo istruzioni rigorose» – il che significa chiaramente che le manifestazioni sono sottoposte a una sorta di stato d’emergenza preventivo e che le brutalità poliziesche non saranno invece oggetto di nessuna restrizione. In seguito, è stato rievocato con forza il tema, di nauseabonda memoria, dell’identità nazionale, immediatamente tradotto in “questione migratoria”, una “questione” che non giocava nessun ruolo nel movimento dei Gilets ma di cui conosciamo gli echi nella destra ed estrema destra dello scacchiere politico.
Non credo che questo discorso e l’orchestrazione di cui è stato oggetto, per quanto susciti delle messe in guardia e un certo sarcasmo internazionale, permetta al presidente di uscire dall’impasse completa in cui si trova bloccato dopo un anno e sei mesi di esercizio del potere. Ciò apre due possibilità interessanti e, al tempo stesso, temibili. Ma per tentare di decrittarle, bisogna in primo luogo tornare schematicamente sulle condizioni del suo arrivo al potere e sui tratti salienti della politica che ha seguito e che nessuno aveva immaginato in questa forma.
 

ELEZIONI, LA TRAPPOLA DEL POTERE

Sul primo punto, ricordo soltanto che Emmanuel Macron è stato eletto non, come si è talvolta detto, per default, ma per opposizione a una candidata che la maggioranza del paese non voleva e di cui la prestazione televisiva aveva sancito il ridimensionamento (le cose possono cambiare oggi o domani, sempre per colpa sua). La sua candidatura era stata preparata da tempo da una rete d’influenza che si estendeva dalle alte sfere della finanza e della funzione pubblica fino a certi rappresentanti intellettuali e sindacali del liberalismo sociale. Una rete nella quale, tuttavia, un polo ha subito pesato in modo determinante. Perciò, il famoso “a un tempo”, vagamente hegeliano, della campagna elettorale si è sbilanciato a favore di politiche economiche e sociali neoliberali, in forma particolarmente aggressiva giustificata dalla parola d’ordine (ben poco originale) della “modernizzazione”, da tempo ritardata, e articolata con la “rifondazione” dell’Europa.
Se il suo predecessore aveva rapidamente ceduto alle ingiunzioni (e al ricatto, indubbiamente) dei circoli affaristici francesi e stranieri e al rigore budgetario proveniente d’oltre Reno e da Bruxelles, Emmanuel Macron ha provato invece a superarle con la pretesa deliberata di prenderne la co-direzione. Ma ciò che è stato più carico di conseguenze per la situazione presente è senza dubbio il modo in cui, data l’assenza di un partito o di un reale movimento politico, egli ha fatto eleggere sull’onda della vittoria e in ragione dell’abituale motivo dell’efficacia di governo, una maggioranza parlamentare fittizia, reclutata su curriculum e con metodi manageriali, senza autonomia né radicamento territoriale, ottenendo così di svalutare ulteriormente la democrazia rappresentativa, già mal ridotta a causa delle istituzioni autoritarie della V Repubblica.
Sul secondo punto, penso che bisogna evocare almeno quattro aspetti, che si sovrappongono tra loro e che meriterebbero un’analisi più approfondita. Il primo è la dimensione europea, determinante a causa della congiuntura e dell’interdipendenza dei sistemi economici e politici nazionali. È certo che la situazione è molto difficile, perché l’UE è entrata in una crisi esistenziale irreversibile, segnata al tempo stesso da una profonda disaffezione delle opinioni pubbliche e dall’entrata degli Stati, uno dopo l’altro, in una situazione di ingovernabilità, dall’allargamento gigantesco delle fratture tra le diverse regioni del continente e dall’ossificazione del conflitto tra i discorsi “sovranisti” ed “europeisti”, che tende a confondersi con l’antagonismo sociale aggiungendovi però dei connotati nazionalisti e addirittura xenofobi.
La necessità dell’unione dei popoli su scala continentale è tuttavia tale, sia per far fronte ai rischi finanziari globali e per impegnarsi nella transizione verso un’economia solidale in campo energetico, climatico e sul piano dei consumi, sia per ridurre le disuguaglianze e facilitare la circolazione degli individui (segnatamente i giovani) attraverso le frontiere, che avremmo potuto rallegrarci del fatto che Macron prendesse la testa di questo campo. L’ha fatto però in modo completamente irrealista e conservatore, senza porre né la questione del budget europeo né quella delle regole contabili dell’ortodossia economica, né infine quella dei beni comuni transnazionali e della democratizzazione profonda delle istituzioni comunitarie. In fin dei conti, ha dunque rinforzato lo status quo che ha portato all’esplosione quando si sarebbe dovuta invece formulare un’ipotesi di vera ri-creazione dell’Europa al servizio delle popolazioni, andando all’occorrenza controcorrente rispetto ai partners internazionali. Su certi punti, come la crisi dell’accoglienza dei rifugiati e dei migranti, Macron ha poi prolungato il doppio gioco senza scrupoli dei suoi predecessori, aggravandolo ulteriormente, cosa non senza conseguenze sullo spirito pubblico.
La politica europea non è evidentemente separabile dal blocco delle politiche economico-finanziarie che formano il cuore di ciò che potremmo chiamare il macronismo. Si tratta di una politica d’austerità rinforzata che non si presenta come tale (utilizzando invece un gergo esoterico asservito all’ideologia economica dominante, rimasta immutata dallo scoppio della crisi e nonostante le sue lezioni; “politica dell’offerta”, “competitività”, “limitazione della spesa pubblica”, “incitamento all’investimento dei patrimoni”, “abbassamento del costo del lavoro”, “flexsecurity”, “campioni del digitale”…).
La sola domanda effettiva che interessa davvero a Macron è la domanda esterna, o quella delle classi privilegiate che possono sopportare prezzi elevati per i beni di consumo fondamentali e aggiungervi addirittura degli extra, “alla tedesca”, a detrimento della vita e del potere d’acquisto della grande maggioranza della popolazione. Questo orientamento è suicidario, nel medio termine, per la stessa economia nazionale. Siamo logicamente agli antipodi del vigoroso neo-keynesismo che sarebbe necessario per riattivare delle attività collettive e delle qualificazioni individuali verso la trasformazione del regime di crescita, della formazione di massa degli individui e del riassetto dei territori che la crisi dell’antico modello industriale impone.
Gli indici di borsa e il valore azionario regnano sovrani e la forbice sociale cresce, creando poco a poco una sorta di società duale. Il servizio pubblico è la variabile di aggiustamento del bilancio, la funzione pubblica è il nemico dichiarato del governo. Il regime d’imposta, avendo abbandonato la progressività, diventa sempre più chiaramente un sistema di sovvenzione dei possidenti da parte degli spossessati (senza parlare del salvataggio delle banche da parte dei contribuenti in caso di crisi e della compiacenza rispetto all’evasione fiscale).
Arriviamo qui al terzo aspetto, senza dubbio il più sensibile perché ancor più vicino alla vita quotidiana. È quello che la rivolta dei Gilets Jaunes, precipitata dall’introduzione di una nuova tassa impudentemente dichiarata “ecologica” (mentre essa non interviene su nessuna delle attività pesanti divoratrici di carbone e non alimenta nessuna politica di sostituzione), ha fatto esplodere in faccia ai nostri governanti e ai loro consiglieri. La politica sociale, spesso essenzialmente repressiva e distruttiva, dunque anti-sociale, non è che l’altra faccia della politica economica. Indubbiamente, un regime capitalistico non è mai egualitario. Può tuttavia mantenersi temporaneamente dentro limiti di diseguaglianza quantomeno vivibili se la conflittualità sociale – ciò che si chiamavano un tempo “le lotte” – completata da politiche di interesse e coesione nazionale (che bisognerebbe oggi ripensare su scala continentale e oltre) frena la pauperizzazione e impone un certo grado di redistribuzione, tramite l’imposta o il servizio pubblico.
Tutto avviene come se Emmanuel Macron avesse visto nella sua elezione un mandato finalizzato ad accelerare la “rottura”: quella del diritto del lavoro, della fiscalità progressiva, delle istanze di negoziazione e di rappresentanza professionale, del servizio pubblico e degli aiuti sociali. L’idea soggiacente queste politiche consisteva nel compensare la devastazione della società “civile” – con effetti potenzialmente demoralizzanti e di “dis-affiliazione” o di “insicurezza sociale” (Robert Castel) – con una miscela di propaganda “imprenditoriale” e di moralismo benpensante, senza pensare che ciò avrebbe invece prodotto un ritorno di fiamma…
Mi soffermo ancora un istante su questo punto, e faccio di esso il quarto aspetto dell’analisi. Non parliamo soltanto, all’antica, di dimensione ideologica del macronismo ma piuttosto di un carico simbolico che ha finito per esplodere con un’estrema violenza, perché si è scontrato con una situazione materiale divenuta intollerabile per un grande numero di persone. Chi ha sottolineato gli aspetti caratteriali del comportamento del Presidente ha certo ragione: la sua aggressività, il suo disprezzo per i “perdenti”, per gli “illetterati” e i “poveracci” che non ce la fanno. Si è spinto così lontano che il suo entourage ha dovuto avvertirlo degli effetti negativi sulla sua capacità di governo.
Ma penso che ciò non sia che la superficie di un problema più vasto, che la formula onnipresente nei rassemblements dei Gilets Jaunes traduce bene: «questi ci prendono per imbecilli». “Questi”, cioè tutta la tecnocrazia dominante in questo paese (che è anche, spesso, una plutocrazia), dal fantasma del “padrone degli orologi” e delle algebre fino a quei riformatori di programmi scolastici a colpi di bacchetta (o di ascia) e a quegli economisti “tolosani” che spiegano senza ironia nelle loro tribune e nelle loro note di sintesi che le difficoltà della Francia a «restare in corsa» dipendono dall’assenza di una «cultura economica di base» nei cittadini.
Avremmo torto a credere che ciò non sia stato percepito e soprattutto che la massa dei cittadini abbia dimenticato la differenza tra il postulato democratico, cioè la competenza del popolo, una volta dotato delle informazioni necessarie, sincere e intellegibili, e il postulato oligarchico della sua ignoranza e stupidità. Combinate questo risentimento con la sensazione di trovarsi “con le spalle al muro”, aggiungete un’impostura flagrante a proposito dell’ecologia (all’indomani delle dimissioni del ministro rumorosamente incaricato di difenderne i valori e che non ha nascosto il suo senso di tradimento) e otterrete una vera rivolta popolare, forse incerta sui suoi sbocchi, ma perfettamente cosciente del suo oggetto e perciò anche irrefrenabile fino a quando le sue ragioni non saranno state prese in carico chiaramente.
 

UN FACCIA A FACCIA

Bisogna allora guardare al modo in cui si presenta oggi il faccia a faccia che il Presidente ha eluso e non riconosciuto nella sua allocuzione, giocando una volta di più la carta della “altezza” e della sua “funzione”. L’oggetto di tale diniego ha almeno un doppio livello: si situa tra la sua persona, le sue parole (scarne, studiate, elusive), la sua postura in stile “Eliseo” e il gesto democratico dei Gilets Jaunes, che occupano strategicamente le rotatorie e i caselli di tutta la Francia, nonché occasionalmente le piazze e le avenues; si situa tra le capacità d’azione del governo e l’attesa dei cittadini o di un gran numero di questi, che esigono un cambiamento e non un catalogo di addizioni e sottrazioni. Tra le due c’è anche il fatto che l’opinione pubblica percepisce bene quando si gioca ai franchi tiratori, quando si fa finta di intervenire, quando si cerca un negoziato o si confida invece (anzi, si favorisce) la putrefazione del movimento. Le parole scambiate nelle piazze riflettono il senso e l’evoluzione di questa opinione pubblica da cui, in fin dei conti, tutto dipende.
Entra poi in gioco, evidentemente, una potente dimensione affettiva. Al di là dei proclami ripetuti dal deputato Ruffin, va considerato l’odio che la persona del Presidente, così come la sua modalità di esercizio del potere e lo stile di “governance” che incarna, ispira a una gran quantità di cittadini. Malgrado tutto ciò che se ne è detto, non c’è nulla di irrazionale in questo. C’è piuttosto la materializzazione hic et nunc, nella Francia del XXI secolo, di una verità politica conosciuta dai tempi di Machiavelli (un autore che Emmanuel Macron pare abbia studiato): il timore che i governanti esprimono è gestibile, può essere addirittura utile, a differenza dell’odio, a meno che il “principe” non intraprenda una conversione, un cambiamento ostentato della sua personalità (come si è talvolta visto in situazioni d’eccezione, sovente legate a esigenze di “salute pubblica”).
Dubito fortemente che questa conversione sia possibile, non solo per ragioni psicologiche, ma anche perché bisognerebbe – come alcuni dei suoi sprovveduti partigiani sostengono – che il nostro Presidente scambiasse in qualche modo una famiglia per l’altra, “tradendo” così chi l’ha “reso ciò che è” portandolo fino alle porte del potere, a favore di coloro ai quali durante la sua campagna elettorale  (condotta, bisogna ammetterlo, con efficacia e talento) l’aveva data a bere… Non è sicuramente abbastanza machiavellico per far ciò.
Ma soprattutto la dimensione affettiva si inserisce in una situazione oggettiva che non lascia vie di fuga. Lenin aveva un tempo evocato una celebre formula (per farne la caratteristica delle “situazioni rivoluzionarie”: non corriamo troppo però!) dicendo: la crisi è irreversibile quando quelli che stanno in alto non possono più governare come prima e quelli che stanno in basso non vogliono più essere governati come prima… Si tratta esattamente del nostro caso ed è ciò che si gioca dietro al discorso del 10 dicembre, tra consultazione e consigli avvertiti (ivi compreso quello dell’ex presidente Sarkozy) riguardo alla questione nevralgica della soglia, a un tempo finanziaria e simbolica, da superare o meno per risolvere il conflitto, o almeno tentare di posticiparne le scadenze.
Tutto si è visibilmente cristallizzato intorno a un’unica misura che, da sola, concentra l’antagonismo e continuerà a concentrarlo: o l’Imposta sulla Fortuna viene reintrodotta, sotto questo o un altro nome, e anche estesa in modo da coprire i carichi budgetari accresciuti di una politica sociale più equa e dei bisogni di una transizione energetica reale, oppure al contrario si assiste alla “santificazione” della sua abolizione, che sigla l’alleanza di Bercy (ministeri finanziari, ndt) e del CAC 40 (e di Wall Street), anzi di Neuilly (quartiere degli affari, ndt), e che implica di recuperare con la mano destra ciò che si concede con la sinistra. La risposta l’abbiamo già ricevuta: il Presidente non cederà, perché se lo facesse perderebbe il suo prestigio, il governo e i consiglieri, nonché ciò che resta della sua maggioranza. Sprofonderà sempre più nell’impasse, correndo il rischio di dover istituire veramente lo stato d’emergenza (per il momento qualificato come “sociale ed economico”, ma già accompagnato da un discorso “rigoroso” sull’ordine pubblico). Non è da lui che possiamo aspettarci una soluzione, se non la peggiore.

La situazione può dunque evolvere, sbloccarsi o avanzare soltanto dal lato del “movimento” stesso. Essa dipende strettamente da ciò il movimento è al momento e da ciò che diverrà. Come tutti (salvo quelli che detengono la scienza rivoluzionaria infusa) sono da questo punto di vista al tempo stesso appassionato e in attesa, tanto da partecipare alle iniziative di solidarietà e di difesa dei diritti democratici (anzitutto il diritto di manifestare liberamente e in sicurezza, senza essere vittime di manganellate indiscriminate e armi da guerra civile). Esprimo dunque delle opinioni necessariamente rivedibili, che possano alimentare il dibattito pubblico.
Non mi spingerò, per conto mio, fino a rivendicare un miglioramento del mio livello di vita, di cui non ho bisogno. Ne percepisco tuttavia l’urgenza assoluta, determinante, la vedo apparire come contrappunto di altri interessi, anch’essi fondamentali, e cerco allora di immaginare il punto di vista d’insieme di un movimento che riguarda tutta la società e, ormai, una parte essenziale del suo avvenire. In realtà, i francesi non interessati alla vittoria dei Gilets Jaunes, alla loro capacità di fermare le logiche neoliberali e di innescare una transizione democratica e sociale, sono una minoranza: abbiamo tutti un dovere di comprensione e un diritto di espressione, o piuttosto di ipotesi. Ciò può certo cambiare, ma si tratta del fatto massiccio, inaggirabile, del momento attuale.
Chi sono dunque, in tutto lo spessore e la molteplicità dei loro rassemblements [forme di riunione, assembramenti, ndt], i Gilets Jaunes? Le loro dichiarazioni, le descrizioni che danno di loro stessi, corroborate da qualche notevole inchiesta empirica effettuata in tempo reale (una pratica che basterebbe per rivitalizzare la funzione civica delle scienze sociali), mostrano che essi costituiscono un campione rappresentativo (e perciò altamente sostenuto) non della popolazione francese nel senso statico del termine (registrato dai censimenti delle categorie socio-professionali, età, sesso, residenza ecc.) ma di ciò che sta diventando, in ragione delle tendenze profonde del capitalismo contemporaneo, che le politiche poco sopra tratteggiate non hanno fatto che aggravare e rendere più percepibili.
Direi, per non complicare inutilmente il ragionamento, che essi incarnano e denunciano una precarizzazione generalizzata dell’attività e dei mezzi di esistenza, che investe oggi milioni di francesi e di immigrati di ogni formazione e di ogni provenienza geografica (a parte i “beaux quartiers” e certi giri “bobos”), perché sono colpiti da due tendenze pesanti caratteristiche del neoliberalismo, entrambe fondate sull’applicazione della “concorrenza libera e non falsata”: da un lato, la nuova legge bronzea della compressione dei salari, diretti e indiretti (di cui fanno evidentemente parte le pensioni), alla quale contribuiscono la globalizzazione e la mutazione tecnologica sregolata così come l’indebolimento delle organizzazioni sindacali; dall’altra, l’uberizzazione accelerata degli impieghi “manuali” e “intellettuali” che non dipendono da imprese territorializzate ma da piattaforme digitali che stabiliscono una concorrenza “mortale” tra gli individui (battezzati ora “autoimprenditori”)  e che i loro mandanti ottengono tramite l’intermittenza e il debito. Le due tendenze convergono, e lavoratori o impiegati di città, di banlieues e di campagna che non sono ancora alla canna del gas sanno che non tarderanno ad arrivarci, anche se il discorso ufficiale annuncia l’ingresso nel paradiso individualista noto come “Nazione Start-up”.
Ma questa rappresentatività socio-economica è raddoppiata da una rappresentatività politica che esprime l’originalità del movimento dei Gilets Jaunes e che non ha mancato di suscitare una gran quantità di interpretazioni, anzi di sfruttamenti. Prendendo atto del fallimento o della squalificazione della politica rappresentativa alla quale hanno concorso svariati fattori istituzionali e sociologici di lunga durata, senza dimenticare i metodi di governo del potere attuale che ricordavo poco sopra, i nostri Gilets hanno proposto una alternativa congiunturale al deperimento della politica, fondato sulla autorappresentanza (e dunque sulla presenza in prima persona) dei cittadini “indignati” sulla piazza pubblica, con il sostegno del vicinato e l’assistenza tecnica dei mezzi di comunicazione in rete.
Questa alternativa è notevole, soprattutto per il fatto che inventa una nuova modalità di articolazione della solidarietà locale, l’assemblea, e della convergenza nazionale, anche se ciò genera anche delle tensioni (si veda, ad esempio, l’episodio delle “minacce” contro la delegazione che si era proposta di incontrare il Primo ministro). Tra queste due rappresentatività – la rappresentatività delle tendenze in corso dell’evoluzione sociale e la rappresentatività politica dell’azione diretta e della parola non codificata (che implica, in particolare, di tenere a distanza gli apparati elettorali, e anche i semplici militanti organizzati anche quando potrebbero servire come solidali o portavoce) – tra queste due, ebbene, vi è evidentemente una risonanza, un parallelismo che non bisogna aver fretta di trasformare in una nuova “essenza” della soggettività collettiva, a titolo di “moltitudine” o di “plebe”. Bisogna, almeno credo, considerarla come il sintomo e l’attore potenziale di una congiuntura eccezionale, rapidamente evolutiva e forse creatrice, a patto che certe condizioni siano riunite.
 

TRE CONDIZIONI

Molte condizioni, in realtà. Poiché il movimento è al tempo stesso potente – grazie al sostegno che suscita, grazie alla sua disperazione e alla sua novità, grazie alla dimensione strategica del doppio “problema” che lo ha causato e innescato: l’ingiustizia fiscale, la contraddizione economica ed ecologica – ma è anche fragile, come ogni rivolta che vive sulla resistenza degli individui che la fanno, di cui nessuna organizzazione può assicurare le retrovie e contro cui si stanno poco a poco coalizzando le classi privilegiate, buona parte dei media e soprattutto la macchina dello Stato. A quali condizioni può durare, cioè vincere, visto che la sua stessa esistenza è diventata la posta in gioco della battaglia?
In maniera non limitativa, ne suggerirò tre: la convergenza con altri movimenti, meno originali ma non meno rappresentativi; la civiltà, o la capacità di resistere all’automatismo di una violenza mimetica rispetto allo Stato; infine e soprattutto, l’emergenza di un’idea politica che prolunghi l’invenzione congiunturale radicandola nelle istituzioni, e conferendole così la capacità di esercitare un “contro-potere”.
La questione della convergenza è evidentemente cruciale, in termini di durata e di efficacia. Bisogna distinguerla tanto dal semplice fenomeno dell’opinione pubblica (o, come dicono i sondaggisti, della simpatia e della solidarietà), di cui può comunque modificare l’orientamento, quanto da una fusione storicadei movimenti di resistenza e di aspirazione ad un’altra società, che sia sotto la forma di un’organizzazione emergente o, al contrario, di un’“insurrezione che viene”, anarchicamente cristallizzata intorno a una generica potenza di rifiuto o di destituzione. Ma, d’altra parte, bisogna certo sapere che la sua possibilità detiene le chiavi di un cambiamento profondo dei rapporti di forza e delle relazioni di potere in seno alla nostra società. Senza di essa, per quanto forte sia la motivazione (e resilienti le cause che l’hanno generato), il movimento dei Gilets Jaunes, rischia di trovarsi schiacciato tra due probabili effetti di isolamento: lo scoraggiamento e la radicalizzazione, nei quali affonderebbe la sua capacità politica.
Ma pensare una convergenza virtuale, allo stato nascente, richiama oggi alla prudenza nella formulazione e ad un’apertura nella direzione dell’evento e del suo imprevisto. Da un lato, direi che è necessaria una compatibilità tra le esigenze e le espressioni eterogenee. Essa non è garantita, perché non vi è altro che una “comunità” spontanea di domande sociali (di fronte a un “avversario unico”, che sarebbe il mostro neoliberale), e soprattutto perché è possibile ogni sorta di contraddizione congiunturale tra le logiche di cambiamento (di cui lo scontro tra i progetti di lotta contro il riscaldamento climatico e l’urgenza di un’energia a buon mercato per il consumo di massa è un buon esempio). Dall’altro, è necessaria una diversità assunta, riconosciuta, delle componenti, dell’aspirazione “popolare” alla democratizzazione sociale e politica, che autorizzi delle discussioni, anzi, delle negoziazioni, tra di esse, preservando però a ogni costo la singolarità delle loro origini e delle loro voci.

È per questo che si può in effetti parlare, con terminologia gramsciana, della costituzione di un “blocco storico” e del “rovesciamento d’egemonia”. Ma, soprattutto, non bisogna entrare nella concezione delle “catene d’equivalenza” immaginate dai difensori del “populismo di sinistra” ispirati dal pensiero di Ernesto Laclau, che vogliono tradurre tutte le domande in un solo linguaggio convenientemente idealizzato (e la cui contropartita, come detto chiaramente da Chantal Mouffe, è l’accento messo sulla potenza degli affetti, a discapito dei ragionamenti, e il bisogno di una leadership incarnata e personalizzata, che si vede d’altronde quanto poco corrisponda oggi alle aspirazioni del movimento).
Azzarderò ora nuovamente un’ipotesi utilizzando un’espressione di cui mi sono servito qualche anno fa, al momento della rivolta dei cittadini greci contro i diktat della troika europea: servirebbe piuttosto un contro-populismo, egualmente distante dalla politica oligarchica e antipopolare e dai populismi ideologici di sinistra o di destra. Un bell’enigma… Ora, ciò che mi sembra si veda nella congiuntura attuale è, da una parte, un formidabile valore d’allenamento di un movimento di rivendicazione e rivolta che rimette all’ordine del giorno l’idea della cittadinanza attiva; dall’altra, l’estrema diseguaglianza degli effetti che genera sull’espressione di altre domande di giustizia, eguaglianza ed emancipazione.
Tra gli effetti positivi, metterei senza esitazioni il fatto che le “marce per il clima” dell’8 dicembre non solo non sono state ridimensionate o dissuase dalla manifestazione simultanea dei Gilets Jaunes ma ne hanno anche approfittato per fare sentire con più forza l’idea che non ci sarà nessuna transizione ecologica senza un’enorme spinta di giustizia sociale e di ripartizione dei costi. Da qui seguono gli incontri che si sono effettivamente prodotti qua e là tra cortei differenti. Con molta più prudenza situerei invece le possibili convergenze con il sindacalismo d’opposizione, operaio e contadino, perché non considero ovvio che la sua crisi storica sia sinonimo di sparizione programmata ed è evidentemente nel fuoco della congiuntura critica che le sue capacità militanti potrebbero rigenerarsi, se possono. Ci sono alcuni segni che vanno in questo senso.
Leggerei in senso opposto, invece, il fatto che la giornata di lotta contro le violenze sulle donne (24 novembre) abbia visibilmente sofferto, nel suo sostegno come nella visibilità mediatica, della concorrenza con il movimento dei Gilets Jaunes in pieno slancio. Ciò non significa che ci sia incompatibilità ma che si confrontano registri molto eterogenei, discorsivamente e affettivamente, ideologicamente e socialmente – non necessariamente per sempre, tanto più visto che tutti gli osservatori concordano nel sottolineare come un vero segno di cambiamento d’epoca la presenza attiva delle donne nel movimento dei Gilets, anche se su altre linee di mobilitazione e rottura.
E riserverei come grande variabile, forse decisiva, la questione di sapere se e come una convergenza può aver luogo tra il movimento dei Gilets Jaunes e la rivolta della gioventù dei quartieri popolari, la cui esistenza è dominata dalla disoccupazione, dalla segregazione urbana e scolastica, dall’assenza di servizi pubblici e le devastazioni del razzismo di Stato. Il movimento dell’ “antirazzismo politico” che denuncia questo razzismo istituzionale (e segnatamente la discriminazione nel caso dell’abitare e sul lavoro, le violenze poliziesche contro i giovani “non-bianchi”) si è diviso tatticamente nel rapporto con i Gilets: una parte (con il collettivo “Rosa Parks”) ha cercato di mantenere una propria indipendenza per affermare l’irriducibilità dell’oppressione razziale, l’altra (con il “Comité Adama”) ha preferito fare immediatamente appello a una fusione o compenetrazione.
Non so davvero cosa succederà… Una politica del peggio messa in atto dal governo può consistere nel moltiplicare le brutalità e le umiliazioni verso i giovani delle banlieues (come abbiamo visto nell’ignobile caso del liceo di Mantes-la-Jolie) per spostare il conflitto dal lato dell’intensità massima e fargli assumere forme più violente, al limite dell’incontrollabile. Un’evoluzione auspicabile (utopica forse?) consisterebbe nella messa in opera di una conversazione, forse a distanza, forse intermittente, tra i cittadini che danno voce in primo luogo alla violenza sociale e quanti dànno voce alla violenza razziale, di cui è evidente la sovrapposizione, ma il cui discorso e i cui affetti non sono gli stessi.
Ciò significa anche che le questioni “identitarie” che il Presidente vuole ora giocare non possono essere neutralizzate all’infinito e tutti conosciamo gli slittamenti che possono produrre. Bisogna riconoscerli come tali. Può darsi che i liceali e gli studenti che hanno cominciano a scioperare, rivendicando il rifiuto dei dispositivi di esclusione e segregazione scolastica e affermando l’eguaglianza dei diritti degli studenti di tutte le nazionalità e di tutti i colori, giocheranno in questa vicenda, come in altri tempi, un ruolo di mediazione e di catalizzazione… La convergenza è un problema e ciò significa al tempo stesso un orizzonte di possibilità e un nodo di contraddizioni, nel quale ognuna di esse può essere sfruttata per disaggregare il sostegno al movimento.
Infine, la questione della violenza, dunque, con la quale bisogna confrontarsi. Nel momento in cui scrivo, l’attentato terroristico di Strasburgo è appena avvenuto creando un’emozione e una tensione più che comprensibili. E come in altre circostanze, il governo (seguito in parte dalla stampa) sembra non poter resistere alla tentazione di strumentalizzarlo, combinando, a fini di occultamento, l’appello all’unità nazionale e il dispiegamento securitario, che può essere usato in vari modi. La violenza principale, permanente, onnipresente, alla quale bisogna sperare che i nostri concittadini non si abituino, è la violenza poliziesca e giudiziaria. Essa viene da lontano: pensiamo alle brutalità contro gli studenti che protestavano contro la Loi El Khomri [la Loi Travail I] sotto il precedente governo, all’uccisione “legalizzata” del giovane Rémi Fraisse, allo smantellamento con la forza della ZAD di Notre-Dame des Landes, alle svariate violazioni delle libertà individuali e collettive da parte delle forze dell’ordine, alle condanne inique e sproporzionate. Essa si appoggia sugli elementi fascistizzanti della polizia e li incoraggia (si pensi al caso Benalla…). Essa tenta in questo stesso momento di creare un’atmosfera di paura intorno alla prossima manifestazione dei Gilets Jaunes [quella di sabato scorso, ndt], come in attesa di un confronto diretto e distruttivo.
Questo punto pone un problema fondamentale, strategico e tattico. Lo dico senza giri di parole: credo che la simmetria di violenza di Stato e contro-violenza “popolare” sia una trappola mortale rispetto alla quale bisogna trovare collettivamente i mezzi per sottrarsi. Le chiavi non sono tutte in mano al movimento ma quest’ultimo, come chi vi partecipa, deve fare una scelta. Conosco e comprendo l’argomento che sostiene che, senza un’irruzione violenta, il potere non avrebbe preso coscienza dell’esistenza di un faccia a faccia. Ma vorrei far osservare che l’elemento decisivo non è stata la violenza stessa, ma il fatto che quest’ultima non abbia causato una diminuzione del sostegno dell’opinione pubblica, come è stato misurato dai sondaggi. Ora, questo fenomeno è strettamente congiunturale, non ha nulla di permanente o consolidato. Allo stesso modo, conosco e comprendo l’analisi concreta che mostra come gli attacchi contro i poliziotti o i saccheggi dei negozi non siano stati praticati dai soli “casseurs” organizzati (o Black Blocs, che dir si voglia) o da delinquenti, coinvolgendo anche dei manifestanti che sono stati indotti a una “giusta” collera contro i rappresentanti e i simboli di una società ingiusta dall’accumulo di umiliazioni e dai colpi subiti. È ciò che, per inclinazione e per calcolo, Macron ha stigmatizzato nel suo discorso, pretendendo di dissociarli dal buon popolo. Ciò non toglie però che la teoria che pone un’equivalenza o una simmetria tra la violenza economica o “strutturale” subita e la violenza politica o “insurrezionale” predicata e premeditata, come se la seconda fosse non soltanto una vendetta contro la prima ma un modo per farla cessare, sia falsa storicamente e pericolosa politicamente. Bertolt Brecht può pure aver scritto una bella frase spesso citata: «peggio di svaligiare una banca è fondarne una», ma ciò non toglie che sia una fesseria, quantomeno nella congiuntura attuale. Le banche se la ridono di fronte a una succursale danneggiata e tutti i cittadini hanno un conto in banca, anzi, un conto in rosso.
La violenza fisica in quanto contro-violenza, antistatale o anticapitalista, non crea nessun rapporto di forza favorevole e ancor meno una “coscienza rivoluzionaria”. Al contrario, mette la decisione finale alla mercé delle pistole a proiettili di gomma (flashballs), delle granate e forse dei blindati. Essa ha potuto creare in altri tempi dei movimenti di simpatia (non parlo, beninteso, delle situazioni coloniali e delle guerre di liberazione); basta un morto (come nel 1986) o delle manganellate di massa (come nel maggio ’68), a condizione che ciò non fosse pianificato in anticipo. Ma nel luogo e nel momento attuale vedo troppi inconvenienti irreversibili: essa costituirà rapidamente un fattore di disaffezione pubblica sfruttabile da parte del potere, soprattutto se vi si aggiungono le difficoltà economiche imputabili al movimento; essa situerà tendenzialmente il conflitto sul terreno dell’accettazione o del rifiuto dello “Stato”, cosa che non ha nulla a che fare con la sua posta in gioco reale; infine, essa favorirà l’avvicinamento di estremisti di destra e di sinistra, sotto il pretesto che «il nemico del mio nemico non può non essere il mio nemico» (se ho capito bene questa formula azzardata di cui si è servito Eric Hazan). È necessario che il movimento dei Gilets Jaunes, profondamente civico, mantenga il privilegio della civiltà o della non-violenza, per quanto ciò possa sembrare difficile per alcuni dei suoi partecipanti o dei suoi sostenitori e per quanto perverse possano diventare le strategie di provocazione atte a sconfiggerlo. Si tratta di non cedere al ricatto del caos, di non coltivare la paura in seno al movimento, ma di mostrare una forza intelligente e superiore alle manovre, indispensabile oggi per aprire delle grandi possibilità strategiche.
 

ALLA RICERCA DI UN’IDEA POLITICA

Ma per far ciò è anche necessario che si sviluppino rapidamente delle prospettive credibili d’azione collettiva, di dibattito e di confronto tra le diverse sensibilità, o addirittura tra le diverse ideologie, all’opera nel movimento, degli incontri con altre domande sociali per la costruzione di un rapporto di forza in seno alle istituzioni.
Tali prospettive, lo si è detto da più parti e sono d’accordo, non risiedono nelle elezioni a venire (che vedranno ineluttabilmente l’avanzata dell’estrema destra, tanto più che si tratta di elezioni “europee”); esse riguardano invece una pulsione democratica radicale, evidentemente presente nel cuore dell’invenzione dei Gilets Jaunes: È ciò che chiamavo poco fa la loro alternativa al deperimento della politica. Ma una pulsione non è sufficiente, essa ha bisogno di uno sviluppo continuativo e dunque di un’idea politica, questa volta nel senso di un’intelligenza delle situazioni, dell’occasione da cogliere, delle leve da impugnare. Cerchiamo dunque quest’idea, o piuttosto vediamo se una delle parole d’ordine che circolano su internet o altrove non abbia già trovato il nome giusto.
A questo proposito, una parola colpisce nel segno: quella di “Stati Generali”, che evoca la parte per il tutto (virtù dell’educazione nazionale alla francese…), il grande momento storico della costituzione del “popolo politico” di fronte ai ceti privilegiati, parola convocata evidentemente anche per il paragone insistente – che il potere ha per primo resuscitato – tra il potere presidenziale e la tradizione monarchica.
Non siamo qui nel famoso «costume antico», evocato da Marx in alcuni testi celebri, di cui il movimento di massa si servirebbe come schermo immaginario sul quale proiettare il suo desiderio di rivoluzione. Ci troviamo piuttosto nel confronto che si disegna tra le due estremità del grande ciclo che hanno percorso, da noi, l’epoca moderna e le istituzioni del liberalismo e che segnala a ogni passaggio l’allargamento delle esigenze e della forma stessa della partecipazione agli affari pubblici.
Ciò che trovo particolarmente interessante in quest’idea è che sia stata formulata in relazione alla questione della giustizia fiscale (e, di conseguenza, al livello della vita e delle prestazioni sociali), al “centro” o in “periferia”, da parte di intellettuali e di politici, e da parte dei Gilets Jaunes bretoni che si sono riuniti a Carhaix per metterla in moto l’8 dicembre scorso, e che si rivedranno presto. Nella tradizione dei “Cahiers de doléance” essa coniuga l’idea di una redazione collettiva dal basso con l’esigenza di uno sbocco nazionale, di una governamentalità delle scelte economiche e dell’imposizione, che non riduca più i cittadini all’alternativa di subire o rivoltarsi. Ma altre iniziative ugualmente costruttive impiegano invece un linguaggio diverso, come quello dei Gilets Jaunes di Commercy dans la Meuse, che parlano di assemblee o di comitati popolari e mettono conseguentemente l’accento non sul “rialzo” delle domande o sulla governamentalità ma sulla democrazia locale diretta e sull’esperienza vissuta dell’eguaglianza. C’è poi il caso della “Maison du peuple” di Saint-Nazaire, installatasi nella vecchia sede del Pôle Emploi [centro per l’impiego] in attesa di demolizione, nella quale si organizzano di giorno in giorno delle iniziative autogestite del movimento, secondo la lunga ed eroica tradizione delle lotte operaie e dell’autonomia. Sono cose contraddittorie? Non spetta a me decidere prematuramente e presuntuosamente, benché io abbia tendenza a vedervi una complementarità più che una cacofonia. Se il movimento tiene, lo vedremo.
Ma, per l’appunto, penso che tutte queste formule nelle quali si esprime potentemente la «presa di parola» collettiva (come scriveva de Certeau nel maggio ’68) e la volontà di uscire da una posizione “subalterna” nella società e nella vita pubblica abbiano bisogno di un radicamento istituzionale per costruire un contro-potere effettivo di fronte al monopolio tecnocratico corazzato di competenza economica, di forza pubblica e legittimità giuridica. Mi sembra che questa stessa idea sia stata in parte proposta da Antonio Negri, salvo che io non parlo di “doppio potere” ma di “contro-potere”: non siamo nel 1917 (e non ci saremo senza dubbio mai più). Trovare un ancoraggio istituzionale non vuol dire “entrare” nell’ovile delle istituzioni, sotto il gioco dei quadri amministrativi e rappresentativi, delle delegazioni e delle concessioni.
Può essere, al contrario, cogliere una possibilità dischiusa e rovesciarla contro la sua strumentalizzazione discendente e condiscendente. Suggerisco quindi che questa prospettiva potrebbe concretizzarsi, in particolare, aprendo una dialettica dell’autorappresentanza e della governamentalità, a patto che le municipalità (cominciando da quelle che hanno dato l’esempio: le più sensibili all’urgenza della situazione e le più aperte all’invenzione democratica) decidano ora di aprire le loro porte all’organizzazione locale del movimento e si dichiarino pronte a rilanciarne le esigenze fino al vertice dello Stato. La legittimità dei comuni francesi è assolutamente inattaccabile fino a quando restiamo in una Repubblica e la funzione strategica che svolgono nella comunicazione tra potere e cittadini (dunque tra cittadini e potere) dal momento in cui il parlamento è ridotto a una camera di registrazione e a un luogo di duelli oratori tra governo e opposizione, è stata esplicitamente riconosciuta dal Presidente. In verità, esse si situano potenzialmente al cuore del faccia a faccia apertosi, poiché la sola concessione democratica fatta finora consiste nell’annuncio di un tour presidenziale «regione per regione» nei municipi che «portano la Repubblica sul territorio», per raccogliere tramite la loro intermediazione, le domande dei cittadini… Ma i sindaci sono precisamente ciò che vogliono i cittadini o ciò che gli si chiede d’essere. E non vi è nessuna ragione, nel cuore di una crisi in cui la responsabilità di un dirigente politico appare schiacciante, di attendere che sia lui stesso a dettare le modalità, il momento e i limiti della consultazione di cui ha bisogno per rilegittimarsi. Al contrario, il luogo “naturale” della cittadinanza attiva, dove fin dall’origine e dal principio del potere costituente (il popolo) e dei poteri costituiti (gli eletti di base) possono scambiarsi ruolo e mezzi, deve assumere tutta la sua autonomia e rivendicare le sue prerogative.
In questo modo, il faccia a faccia eluso lunedì scorso si imporrebbe nei fatti. È così che la democrazia si inventa e che forse, in fin dei conti, un regime può cambiare. Dalla rotatoria al municipio, passando per la piazza pubblica, il cammino non è lungo. Ciò non significa tuttavia che sia facile percorrerlo. Manifestazioni, assemblee popolari, contro-potere municipale, Stati Generali o suoi equivalenti moderni, è questa forse la quadratura del cerchio che bisogna risolvere nei giorni e nelle settimane che verranno. Ma bisognerà probabilmente farlo rapidamente perché da una rivolta che nessun si aspettava sorga un’idea politica di cui tutti hanno ora bisogno. È stata ingaggiata una volata e dobbiamo trovare i mezzi per vincerla. È questa l’ipotesi che, modestamente, intendo sottomettere alla discussione.
 
Articolo apparso in francese sul sito Mediapart
Traduzione di Matteo Polleri per DINAMOpress