di DOMENICO BILOTTI (dicembre 2016)
Negli anni Ottanta si diceva che fosse un’avventura rischiosa mettersi a pubblicare editoria politica. La normalizzazione capitalistica stava riassorbendo in sé le spinte sociali dei decenni precedenti contrabbandando edonismo e disperazione.
Negli anni Novanta si diceva che fosse un’avventura rischiosa mettersi a pubblicare editoria periodica. La resistenza alla morte delle riviste di intervento sociale passava, dove passava, dalla riproduzione caotica di soggettività: l’avvenire puntuale non era contemplato.
Negli anni Duemila si diceva che fosse un’avventura rischiosa mettersi a pubblicare editoria cartacea. L’avvento di Internet, e le capacità di informazione e parimenti distrazione che ne hanno assistito il successo, rendeva superata l’idea di imprimere – inchiostro e tipografia – le proprie rivendicazioni su un registro durevole, sfogliabile, fresco di stampato.
Negli anni Dieci si diceva che fosse un’avventura rischiosa mettersi a pubblicare editoria specialistica. Le scienze sociali, svendute agli indici burocratici della contabilizzazione del sapere, potevano sopravvivere solo in verbose monografie o nelle testate già esistenti, spesso di derivazione e imitazione straniera.
I ricercatori e militanti che hanno dato vita a “Sud Comune – Biopolitica Inchiesta Soggettivazioni” sono perciò quattro volte folli e quattro volte a rischio.
Lo scrittore, giornalista e attivista cosentino Claudio Dionesalvi, sulle colonne de “il Manifesto”, ha parlato di “ricercatori eretici” che seguono e cercano lo spazio di una grammatica comune della soggettività, rigorosamente declinata, vissuta e studiata dal basso. Glossando l’autorevole recensore, bisognerebbe dire che l’eresia dietro “Sud Comune” non è rispetto alla loro ricerca sociale o alla loro impostazione metodologica, la quale certo è eretica, come eretico è ormai tutto quello che nasce fuori dal canone della produzione del consenso sociale. “Sud Comune” è rivista eretica rispetto alla stessa area politica da cui trae origine, perché, ostinata e contraria, si intesta il lavoro, per nulla leggero, dell’inchiesta, della riflessione, della discussione che non cede né al gioco della teoresi a tutti i costi né a quello dell’indifferentismo che tutto de-ideologizza in nome di una e una sola ideologia (seguire la corrente della morale sociale dominante).
Il successo, anche editoriale, dei lavori di Antonio Negri e Michael Hardt (“Impero”, “Moltitudine”, “Comune”), o dell’archeologia del sapere di derivazione foucaultiana, tratteggiata da Giorgio Agamben nel ciclo “Homo Sacer”, sembrava avere ipostatizzato per sempre la discussione critica sui presupposti della lotta sociale. O all’interno di questi indirizzi di studio o priva di una vera epistemologia scientifica. Il nucleo elaborativo dietro “Sud Comune” certo non rinnega l’operaismo italiano, certo non ignora la lezione, altrove sprecata, del primo Mario Tronti, che scendeva dal cocchio del “partito – principe della classe operaia” per andare a conoscerli sul campo questi nuovi operai che avrebbero movimentato gli anni Sessanta e Settanta. Eppure ci sembra che sia tra i pochi tentativi di riflessione collettiva che non si adagia sulle categorie già abbondantemente dissodate nei due decenni appena trascorsi, che si sono in gran parte limitati a riprendere e riformalizzare l’eredità dell’orda che aveva agitato l’Italia, illudendola di un nuovo assalto al cielo.
Proprio per questa natura critica, aperta, non occasionale, oltre che per l’affetto e per i rapporti umani che sempre sono il collante di qualunque aggregazione di idee (anche se alcuni scienziati delle rivoluzioni, sconfitti, asserivano il contrario), ci si permette di dare al progetto dei consigli non richiesti. E, si spera, non del tutto inutili, ancorché non richiesti.
In particolare, due temi sembra che dovranno essere affrontati proprio per smarcarsi dalle secche – invero mai così aride – della cd. “sinistra larga”, che allarga ormai da anni solo la lista delle sigle che la compongono e non il perimetro di realtà sociale cui si riferisce.
Innanzitutto, non lasciarsi catturare mai dalle infinite diatribe sulla forma partito. La costruzione della soggettività non passa da tempo sotto le insegne del partito. Non si vuole fare né lutto della scomparsa di una certa idea della democrazia dei partiti, né critica aprioristica (e, perciò, spesso inutile e calcolatrice). Semplicemente, non è la forma partito l’organizzazione da cui oggi passa la trasmissione delle istanze sociali. Probabilmente, già non lo era ieri, non lo è senz’altro ora, ora che la forma partito in fondo somiglia a quella del “comitato elettorale permanente”, che ricontratta l’adesione giorno per giorno, interesse per interesse. La discussione sulla forma partito ha pur radici antiche e nobili. Ricordiamo, persino tra i più giovani, le collane che in proposito vergavano le sigle trozkiste, il destino dell’internazionalismo socialista, le priorità dell’azione di classe. Il punto è che la classe di ieri aveva un immaginario comune già bell’e individuato, già performante. Occupare quell’immaginario significava esercitare l’egemonia. Ora no: l’immaginario è diviso, difforme, contraddittorio. La barriera tra proletariato e sottoproletariato è sempre più tenue e laddove funziona è la barriera tra i “penultimi” (gli ultimi ufficiali, rappresentati e complici nello Stato clientelare) e gli ultimissimi (quelli che un canale di rappresentanza de iure condito non lo hanno e né hanno in mente di costruirselo a breve).
E forse un’altra cosa che “Sud Comune” potrà e dovrà provare a fare è spiegarci come si declina al Sud la sofferenza da emergenza occupazionale, che vesti assuma. È sin troppo chiaro che, fatta salva tutta la retorica sulla soggettivazione metropolitana, il contrasto tra capitale e lavoro vissuto a Sud di Roma è un po’ diverso da quello vissuto a Nord di Stoccolma, o a Ovest delle Colonne d’Ercole o ad Est della prospettiva Nevskij. Qui, l’accesso al mondo del lavoro ha sempre più a che fare con la segregazione: non immette – come pure dovrebbe essere fisiologico nel funzionalismo weberiano, e non nel nostro sentire! – in un cursus honorum, semmai conduce in un labirinto dove ogni tappa intermedia è presentata come viatico necessario di un aggravarsi, fin dentro la vita del lavoratore, del rapporto debito-credito. In più, al Sud il terziario è sempre stato terziario fomentato dall’amministrazione e dalla selezione politico-elettorale dell’amministrazione. Questa strategia di controllo della domanda di benessere sociale poteva valere al tempo dell’indebitamento pubblico: oggi è costantemente in bilico, precarizzata, a rischio ischemico.
Né ci pare che a Sud si sia fatta molta autocritica sull’individuazione della struttura profondamente patriarcale del controllo disciplinare. Non solo il lavoro legale si confonde col lavoro illegale: prende dal nero le coloriture dei suoi contratti fantasma, del suo scaricare l’alea del profitto sulla prestazione e non sulla gestione dei mezzi di produzione. Senza reddito, non si va da nessuna parte. Le strategie di liberazione del reddito dalla rendita non possono, qui e ora, essere però le stesse di ieri e altrove.