di Francesco Raparelli(dinamopress.it,maggio 2018)
«È giunta l’ora della piena leggibilità di Marx». Paolo Virno, tra i più originali filosofi materialisti del nostro tempo, usa Walter Benjamin per affermare l’attualità del Moro di Treviri. A duecento anni esatti dalla sua nascita, si torna a parlare di Marx, del Manifesto scritto con Engels per conto della Lega dei comunisti, della sua insuperabile diagnosi del capitalismo. La sua critica dell’economia politica ha costituito, come noto, il riferimento teorico decisivo del movimento operaio e delle sue lotte, inondando il Novecento quasi tutto a partire dalla rivoluzione del 1917. Marx – e questo lo racconta bene anche il film di Raoul Peck (Il giovane Marx) – fu innanzi tutto filosofo. Materialista. Del rapporto tra Marx e la filosofia si sono occupati a più riprese i marxisti eterodossi degli anni Venti, Lukács e Korsch tra tutti. Poi Marcuse e i francofortesi, insistendo sulla scoperta dei Manoscritti del 1844. Quindi, nell’immediato dopo guerra, Sartre e Merleau-Ponty in Francia; Della Volpe in Italia. Negli anni Sessanta, si è imposta la «cesura» strutturalista di Althusser e dei suoi allievi, mentre in Italia Marx è diventato un’arma teorica e politica decisiva per l’operaismo e le lotte autonome dell’operaio «massa» prima, di quello «sociale» a seguire (nei tardi Settanta). E oggi? Cosa ne è di Marx nel mondo dominato dalle multinazionali e dalla finanza? Cosa, quando il capitalismo comanda e sfrutta la forza-lavoro tramite gli algoritmi? «Proprio nella nostra epoca», chiarisce Virno, «Marx è finalmente leggibile oltre il marxismo».
Sono passati duecento anni dalla sua nascita e il modo di produzione capitalistico non ha smesso di dominare il mondo. Semmai, dopo il Novecento e con la crisi dell’ultimo decennio, il capitalismo ha rafforzato ovunque il suo potere. Ma molte sono state la trasformazioni, imposte dalle lotte come dalle discontinuità tecnologiche. Nella scena della Gig Economy e della finanza, il pensiero di Marx è ancora attuale?
Non solo è ancora attuale, ma è giunta finalmente l’ora della sua leggibilità oltre, e in buona parte contro, il marxismo. Il marxismo, in fin dei conti, ha dovuto combattere l’arretratezza. Nel caso della Russia, per esempio, favorire il processo di industrializzazione. Solo negli anni Sessanta abbiamo avuto un primo tentativo rivoluzionario in condizioni propriamente marxiane: grande industria, automazione, egemonia della classe operaia nelle lotte e nei processi di ricomposizione sociale. Ancora: negli anni Sessanta e Settanta, in Marx abbiamo trovato una potente verità sociologica; la sua diagnosi del capitalismo ci è servita per conquistare la fenomenologia dell’epoca, delle metropoli industriali e dei suoi conflitti più radicali.
Con il capitalismo contemporaneo, nel quale saperi, linguaggio, codici, immagini, relazioni sono le principali risorse produttive, ci avviciniamo finalmente al nucleo teorico più originale di Marx. Per un verso, il cervello sociale o il general intellect come «pilastro della produzione e della ricchezza». Per l’altro, quando è la stessa natura umana a essere messa a valore, conquista potente attualità l’antropologia da Marx tratteggiata. Se la capacità descrittiva del modo di produrre, imbattibile nei decenni della grande industria, oggi è in parte meno efficace, la filosofia di Marx – che, per intenderci, attraversa l’intera sua produzione teorica – diventa ora più che mai imprescindibile.
Con l’attenzione rivolta alle Tesi su Feuerbach e all’Ideologia tedesca (anch’essa scritta con Engels), puoi indicarci le nozioni più rilevanti – a tuo avviso – dell’antropologia filosofica marxiana? Ancora: in che modo, Marx, rinnova il materialismo?
L’antropologia di Marx è caratterizzata da due tesi fondamentali, connesse tra loro. La prima: tratto distintivo dell’Homo sapiens è la necessità di trasformare ricorsivamente l’ambiente per prolungare la propria esistenza. (‘Ricorsivamente’ significa: una trasformazione che si applica sempre di nuovo ai risultati delle precedenti trasformazioni). Marx chiama prassi l’attività di una specie che, oltre a vivere, deve garantire le condizioni di possibilità della sua stessa vita. Chiama ‘prassi’, cioè, l’autoproduzione della vita. È la prassi a qualificare forme e modalità della rappresentazione concettuale, non viceversa. La prassi è la funzione (in accezione blandamente matematica) di cui la cognizione è un argomento. Ogni materialismo-naturalismo che assuma come punto di partenza l’Homo cognitivus è, a giudizio di Marx, irrealistico e stucchevole. Più attendibile risulta, a suo giudizio, l’idealismo hegeliano che, sia pure attribuendola al Geist, mette a tema «l’attività», «l’autoproduzione».
La seconda tesi: la natura umana non è esemplificata da un singolo membro della specie, consistendo piuttosto «nell’insieme di relazioni» che si stabiliscono tra una pluralità di singoli (si veda la sesta delle Tesi su Feuerbach). Di più: anziché connettere delle singolarità già date, «l’insieme di relazioni» costituisce i singoli in quanto tali. La natura umana è situata in ciò che, non appartenendo in solido ad alcuna mente individuale considerata isolatamente, esiste solo nella relazione tra molti. Parlare di natura umana significa, per Marx, sviluppare una filosofia del “tra”, o meglio, una ontologia della relazione.
Un’interpretazione riduttiva del concetto di ‘produzione’ ha spinto molti – pensiamo, tra gli altri, a Hannah Arendt o a Jürgen Habermas – a contrapporre una nozione disincarnata e liberale di praxis al materialismo marxiano. Quale contromossa, con Marx?
L’azione in quanto autoproduzione della vita contiene in sé, ancora indifferenziate, la poiesis (produzione di oggetti materiali), la praxis (attività senza opera che ha il proprio fine in se stessa), l’episteme (conoscenza di ciò che non può essere diverso da come è). Si tratta, cioè, di una determinazione antropologica fondamentale che precede (logicamente) l’articolazione dell’esperienza in ambiti determinati (lavoro, politica, teoria). Ciò che né Arendt né Habermas sono riusciti mai a capire.
Di più: il primato accordato da Marx all’azione (= autoproduzione della vita) non va confuso, in particolare, con un primato del lavoro. Al contrario, Marx punta a districare l’attività umana dalla forma-lavoro. In Miseria della filosofia ha scritto: «Non ha senso parlare di una liberazione del lavoro. In quasi tutti i paesi del mondo il lavoro è libero e, proprio in quanto libero, mostra di essere una disgrazia. Il punto cruciale è, semmai, la liberazione dal lavoro».
Per Marx, inaccettabile e farsesca è la distinzione/contrapposizione habermasiana tra agire strumentale e agire comunicativo. La trasformazione ricorsiva dell’ambiente è gremita di ethos, tonalità emotive, simboli, propensioni estetiche ecc.; e, viceversa, il Geist, la cultura, il pensiero ipotetico e controfattuale, i riti ecc. risultano indecifrabili se sconnessi dall’autoproduzione della vita.
L’ontologia della relazione, sulla quale prima giustamente insistevi, è la chiave per afferrare il contributo originale e dirompente che Marx ha dato alla filosofia del linguaggio e della mente: concordi?
Identificare la natura umana con l’insieme delle relazioni che istituisce gli stessi termini correlati, cioè gli individui, implica che il linguaggio sia tutt’uno con la coscienza e con il pensiero. Con la coscienza: «Il linguaggio è la sola coscienza che esiste anche per gli altri uomini e dunque è la sola esistente anche per me stesso» (Ideologia tedesca). Con il pensiero: «Le idee non vengono trasformate in linguaggio, quasi che il loro carattere individuale esistesse in modo assoluto e il loro carattere sociale esistesse accanto a esse nel linguaggio, come i prezzi accanto alle merci. Le idee non esistono separate dal linguaggio» (Lineamenti fondamentali per la critica dell’economia politica).
Come va intesa la mente individuale in una ontologia della relazione (secondo la quale la natura umana coincide con il “tra”)? L’errore non sta, beninteso, nel prendere a punto di partenza la singola mente, ma nel misconoscere o rimuovere i suoi caratteri relazionali o transindividuali (attenzione: si tratta di caratteri definitori, non complementari). Per ‘transindividuale’ non bisogna intendere le proprietà presenti in ogni individuo, ma ciò che attiene unicamente alla relazione tra individui, senza inerire a nessuno di essi in particolare. La transindividualità è il modo in cui si articola, all’interno della stessa mente individuale, lo scarto tra individuo e specie. Essa è uno spazio potenziale ancora vuoto, non un complesso di proprietà positive. Nel singolo, gli aspetti transindividuali della natura umana si presentano inevitabilmente come incompletezza, lacuna, potenzialità. Questi caratteri difettivi, e però innati, segnalano che la vita della mente è, fin dall’inizio, una vita pubblica.
A leggerlo bene, il Capitale, è denso di affondi metafisici. Ce lo hai insegnato nel tuo Ricordo del presente, riflettendo sul concetto di ‘forza-lavoro’. Ovvero: la dynamis (aristotelica) al mercato; ancora, «la somma di tutte le attitudini fisiche e intellettuali esistenti nella corporeità» come merce. Attraverso questa nozione, poi, hai radicalmente messo in questione quella di ‘biopolitica’, introdotta da Foucault e, spesso, abusata nel dibattito politico e filosofico contemporaneo…
L’origine non mitologica della biopolitica va rintracciata proprio e soltanto nel modo di essere della forza-lavoro. La mera facoltà di produrre risulta «inseparabile dalla immediata esistenza corporea dell’operaio» (Lineamenti…). Ogni qual volta intende procacciarsi la forza-lavoro, il capitale si imbatte in un corpo vivente. Quest’ultimo, in sé, non conta nulla sotto il profilo economico, ma è l’inaggirabile tabernacolo di ciò che davvero conta: «la somma delle attitudini fisiche e intellettuali», l’insieme di facoltà o dynameis. Il corpo vivente, spogliato di qualsiasi dote che non sia la pura vitalità, diventa il sostrato della capacità produttiva, il segno tangibile della potenza. Se il denaro è il rappresentante universale dei valori di scambio, la vita è l’equivalente estrinseco del solo valore d’uso «non materializzato in un prodotto».
L’importanza pratica assunta dalla potenza in quanto potenza nel rapporto di produzione capitalistico, la sua inseparabilità dalla «immediata esistenza corporea»: ecco il fondamento esclusivo del punto di vista biopolitico. Se la vita come tale è presa in cura e governata, è perché essa funge da sostrato di una facoltà, la forza-lavoro, che costituisce la merce decisiva della nostra epoca. Per il solo fatto di essere comprata e venduta, questa potenza pura, ancora disapplicata, chiama in causa anche il ricettacolo da cui è indisgiungibile, ossia il corpo vivente; di più, ne fa l’oggetto a tutto tondo di innumerevoli e differenziate strategie governative.
Va da sé che la vita, presa in cura come generico sostrato della potenza, è una vita amorfa, ridotta a pochi tratti essenziali, metastorica. La biopolitica è un aspetto particolare e derivato dell’inscrizione della metastoria nel campo dei fenomeni empirici; una inscrizione che contraddistingue storicamente il capitalismo.
Elargendo il salario, il capitalista vuole comprare la forza-lavoro, o potenza generica, non il corpo vivente. A differenza della vita dello schiavo, quella dell’operaio non ha pregio alcuno: «Come schiavo il lavoratore ha un valore di scambio, ha un valore, come libero lavoratore invece non ha nessun valore; solamente la disposizione sul suo lavoro, prodotta dallo scambio con lui, ha valore» (Lineamenti…). Se schiavitù, niente biopolitica. Se compravendita della potenza in quanto potenza (cioè della forza-lavoro) tra soggetti liberi e uguali, allora e solo allora biopolitica. Non bisogna confondere la biopolitica con il possesso del corpo altrui, con la sopraffazione illimitata, con l’equiparazione della vita a un bene economico ecc. Questi fenomeni non hanno di per sé alcuna rilevanza politica. Finché la vita biologica ha un valore economico, la disposizione su di essa riguarda soltanto l’oikos, la dimensione privata (come accade per il possesso di un mulo o di un tavolo). La gestione della vita diventa un fatto pubblico-politico, là dove essa, non avendo più alcun valore economico, è il sostrato (o il segno tangibile) di quella potenza che, di per sé, è priva di una sua propria presenza-realtà.