Sull’inchiesta politica nei call center calabresi

di GRUPPO D’INCHIESTA SULLA PRECARIETA’ E IL COMUNE IN CALABRIA (in Quaderni di San Precario, n.4/2013)

Questo scritto nasce dentro l’esperienza d’inchiesta sulla precarietà e il comune in Calabria, portata avanti da un gruppo di compagni incontratosi al termine del seminario di ricerca “New welfare per un sud comune”, tenutosi a Cosenza tra dicembre 2011 e febbraio 2012. In quell’occasione ci siamo più volte domandati perché nel contesto regionale le lotte sociali, seppur presenti, non riuscissero a mantenere quella continuità necessaria per imporsi sullo scenario politico, ma fossero catalogabili piuttosto, classicamente, come ribellismo meridionale che, a seguito di esplosioni improvvise, incontra notevoli difficoltà a “fissarsi” nel territorio, ad unire intorno a sé, in un programma di medio-lungo raggio, quelle soggettività che sono state pur attente e coinvolte nel conflitto di breve durata. L’idea dell’inchiesta politica nasce intorno a questo interrogativo, nasce per capire perché le lotte in Calabria latitano o, meglio, perché non riescono ad avere continuità di obiettivi e programmi. L’inchiesta, in altre parole, ci è parsa utile soprattutto come strumento operativo per dare corpo alla questione da sempre fondamentale del “che fare?”. Come è stato lucidamente ricordato in alcuni appunti: Cogliere i conflitti quando ancora non ci sono, scommettere sulla loro radicalizzazione, è l’obiettivo politico dell’inchiesta “a freddo”. Anticipare le lotte significa organizzarle, porsi nella condizione di orientarle, politicizzarle, far loro assumere una direzione. Le pagine che seguono sono un resoconto delle questioni affrontate dal gruppo d’inchiesta negli ultimi sei mesi. Le finalità del testo riguardano la condivisione, con esperienze simili oggi attive in Italia, dei risultati e delle problematicità finora emerse nel corso del lavoro, al fine di favorire la critica e l’efficacia complessiva dell’inchiesta e dei processi di soggettivazione che questa implica. Una versione originaria dei paragrafi sullo sfruttamento del lavoro immateriale nei call center e sul tipo di organizzazione e controllo vigenti nei “discount della parola”, qui ampiamente riveduta e corretta, è stata pubblicata su Uninomade 2.0.
Fare inchiesta politica in Calabria, con gli operatori di call center, ha significato finora muoversi in tre direzioni, ognuna delle quali ha presentato difficoltà di differente grado e natura.
1) Costituire un gruppo d’inchiesta in grado di assumere il lavoro d’inchiesta come una nuova forma di militanza politica, privo dunque delle caratteristiche di liquidità tipiche di molti gruppi e associazioni meridionali e motivato a durare nel tempo.
2) Organizzare incontri con operatori incentrati sulle discussioni intorno alle condizioni di vita e lavoro nei call center. Il criterio che ha presieduto gli incontri è stato quello tipico delle esperienze di conricerca, per il quale si mischiano i ruoli di intervistatore e intervistato, cadono eventuali preconcetti scientisti e presunzioni accademiche e si mettono in comune i saperi e le esperienze delle singolarità coinvolte nell’inchiesta al fine di generare processi di soggettivazione. Durante gli incontri, e a cavallo tra questi, si è svolta (e si svolge) la terza attività che ci ha visti finora impegnati:
3) la ricostruzione delle tendenze soggettive all’interno del rapporto di lavoro e dello specifico settoriale. Tale ricostruzione ricopre un ruolo fondamentale nel lavoro complessivo ed è intesa come una premessa per favorire il passaggio dalla soggettivazione degli operatori di call center a una loro potenziale organizzazione politica. In ciò consiste l’obiettivo fondamentale dell’inchiesta politica. C’è ancora molta strada da compiere per il passaggio accennato. Nei call center siamo ancora alla prima problematica, quella dei processi di soggettivazione, che possiamo considerare una premessa indispensabile per un’azione politica incentrata sul comune. Riteniamo in tal senso che tramite la pratica d’inchiesta sia possibile accorciare le distanze che impediscono una ricomposizione politica dei soggetti precari. Tuttavia molti compagni calabresi, invitati a cimentarsi nel lavoro d’inchiesta, non hanno ritenuto utile impegnarsi in tal senso. I più sinceri e generosi continuano a privilegiare gli approcci tipici dell’aiuto umanitario, o della testimonianza, oppure si dedicano al lavoro di controinformazione nella speranza che questo possa influire nelle convinzioni (e quindi nei comportamenti) della cittadinanza. I dubbi circa l’inchiesta risiedono, a loro modo di vedere, nel fatto che questa è depotenziata in un territorio come il Mezzogiorno che da oltre mezzo secolo – eccezion fatta per i tumulti recenti, sono costretti ad aggiungere – è refrattario all’azione collettiva e alla lotta politica. Come abbiamo già avuto modo di commentare, dinanzi ad interrogativi del genere, tesi a “eternizzare” questo nostro determinato periodo storico, non abbiamo risposte preconfezionate, quello che sappiamo però è che l’unica risposta possibile non è di tipo logico, ma pratico. Solo immergendoci nel lavoro d’inchiesta, facendogli muovere i primi passi, è possibile trarre risposte conseguenti: sull’inchiesta politica nei call center calabresi 157 negarsi prima dell’esperienza è un atto di fede o una convinzione conservatrice. Per arrivare a Messene, come ricorda il vecchio sul ciglio della strada di Esopo, bisogna prima di tutto iniziare a camminare.

I. Sullo sfruttamento del lavoro immateriale

L’operatore precario di call center è un soggetto esemplare per quanto riguarda lo sfruttamento del lavoro immateriale. Esemplare, in questo caso, vuol dire tradizionale. Nuovi soggetti al lavoro e vecchie forme di sfruttamento, così potremmo sintetizzare i rapporti interni di un call center, dove gli operatori sono imbrigliati (loggati) in una rete informatica, comandati attraverso procedure simili a quelle della fabbrica taylorista e sfruttati sulla base del tempo come misura del valore lavoro. Il tempo è tutto in un call center, possiamo dire – in accordo con tutti gli operatori che hanno partecipato agli incontri d’inchiesta – che la vita dell’operatore è segnata dal controllo costante dei tempi. Sfruttamento tradizionale in questi termini, come sfruttamento di ogni secondo che l’operatore passa al videoterminale, al pari di quando il plusvalore veniva generato dagli operai alla catena di montaggio, perché, per dirla con una nota critica di Marx, “se l’operaio consuma per se stesso il proprio tempo disponibile egli deruba il capitalista” (Il Capitale, I III 8). Ma ciò che è richiesto all’operatore di call center è imparagonabile a quanto richiesto all’operaio massa della trascorsa stagione industriale: perché nei call center non si producono oggetti, ma si vendono servizi e assistenza, e per far ciò servono abilità non materiali, qualità che gli operatori acquisiscono attraverso l’educazione familiare, la scuola e le loro esperienze di vita e socializzazione. Si tratta di capacità linguistico-comunicative e relazionali, di competenze e conoscenze acquisite in ambito lavorativo e, soprattutto, extra lavorativo: saperi, sentimenti, versatilità, reattività, eccetera. In una 158 quaderni di san precario – nr. 4 parola, l’insieme delle facoltà umane che, interagendo con sistemi automatizzati e informatizzati (come nel caso dei call center) diventano direttamente produttive. Queste qualità sono indivisibili e inseparabili dal soggetto che le detiene. Non è più possibile, a fronte del lavoro di operatore di call center (così come per il lavoro immateriale in generale), applicare il primo principio dell’organizzazione scientifica del lavoro per il quale, come deposto da Taylor: La direzione si assume il dovere di raccogliere decisamente tutta la massa di conoscenze che nel passato erano patrimonio dei lavoratori e poi le registrano, le radunano e, in certi casi, le riducono a leggi, regole e perfino formule matematiche […] il primo di questi principi, quindi, può essere chiamato lo sviluppo di una scienza che rimpiazzi le vecchie conoscenze approssimative degli operai. Gli “organizzatori scientifici” del call center non possono radunare e formalizzare nulla, perché è impossibile separare l’operatore dallo strumento chiave che genera il valore; non possono, in altri termini, “rimpiazzare le conoscenze operaie” perché queste sono ormai qualità indivisibili dai soggetti che le detengono. È noto, infatti, che nel periodo della grande industria, in pieno regime fordista-taylorista, le condizioni della produzione erano esterne alla forza lavoro e tale separazione era essenziale per l’organizzazione di fabbrica e la disciplina operaia. Nel capitalismo cognitivo, invece, la separazione del lavoratore dal proprio strumento di lavoro è saltata in aria e la prestazione lavorativa, di fatto, è quasi completamente interiorizzata. Un’intervista condotta con un operatore, protagonista di una rocambolesca occupazione svoltasi lo scorso inverno in provincia di Cosenza, è esemplificativa di quanto stiamo dicendo: La capacità produttiva di ogni singolo operatore di call center sull’inchiesta politica nei call center calabresi 159 consiste in una serie di caratteristiche intrinseche provenienti comunque dalla propria forma mentis culturale, dal grado di istruzione e dalla capacità di saper ascoltare e saper cogliere nelle parole dell’interlocutore il momento opportuno per proporre la vendita del prodotto che si vuole piazzare. Non potendo intervenire direttamente sul principale mezzo di produzione, gli imprenditori dei call center definiscono le linee di comando a monte del processo lavorativo tramite sistemi informatici che permettono la gestione del contatto con il potenziale cliente e il controllo continuo dell’attività autonoma degli operatori. A questi ultimi viene cronometrata la giornata lavorativa in “secondi”, indipendentemente dalle abilità e doti messe in gioco durante le singole telefonate. Nei call center la “miseria della misura”, insieme all’elevato tasso di stress e al ricatto costante della riconferma del contratto di lavoro, si riverbera direttamente sulla vita degli operatori precari che, pur di ottenere un reddito intorno alla soglia di povertà relativa, vivono come se fossero sempre al lavoro, sotto un continuo e pressante controllo. Per usare le parole di un altro operatore, cacciato dall’azienda dopo un lungo periodo di mobbing: Tu sei controllato dal momento in cui sei sempre connesso, loggato diciamo noi. Praticamente essere loggato vuol dire essere sempre sotto controllo, nel momento che tu accedi al sistema informatico si sa tutto di quello che fai, con chi parli, cosa dici, quanto tempo ci metti per fare una chiamata, per dare delle risposte eccetera. Questo diciamo è il controllo di quello che fai durante la giornata, di quanto stai connesso e di cosa fai quando sei sul sistema… Ma anche quando si esce dal lavoro, ci dicono i partecipanti all’inchiesta, è come se si rimanesse in sede, “con quelle maledette cuffie addosso”. Così succede a Paolo che “agli amici o ai familiari che 160 quaderni di san precario – nr. 4 mi telefonavano rispondevo con lo script iniziale”. Oppure a Lina che “a casa sentivo squillare sempre il telefono, andavo a rispondere e non c’era nessuno”. Oppure a Roberto e Alessandro che quando non facevano contratti “il tutto si ripercuoteva nella giornata, stavamo nervosi anche fuori dal lavoro”. E così via per moltissime altre esperienze, che testimoniano che le barriere tra il tempo di vita e tempo di lavoro si sono definitivamente dissolte, che qualsiasi cosa avvenga in una delle due sfere si trova immediatamente a influenzare pesantemente anche l’altra. Nonostante, come abbiamo detto, siano le qualità degli operatori a garantire l’intero processo lavorativo, la percezione che ne hanno gli operatori stessi è sfocata e contraddittoria: il fatto che le “attività” quotidiane siano legate quasi esclusivamente alla dimensione relazionale (saper parlare, sorridere, stabilire empatia con i potenziali clienti); e che queste competenze siano state acquisite prevalentemente nel corso di esperienze singolari di vita, fa sì che si ritenga normale (se non addirittura giusto) che queste non siano contabilizzate nei magri compensi ricevuti dagli operatori, ma vengano portate da questi ultimi in dote all’azienda, come un dono che non necessita di contropartita. In altri termini, gli operatori non si percepiscono come lavoratori immateriali e tendono, loro malgrado, a giustificare lo sfruttamento sulla base del tempo di lavoro che stanno seduti davanti al videoterminale. In questa tendenza si palesa la condizione di pesante alienazione che vivono gli operatori, della quale vedremo alcuni aspetti particolari più avanti. Come è stato osservato con straordinario acume da Michael Hardt e Antonio Negri, la produzione odierna propone in forme nuove le caratteristiche dell’alienazione. Nei riguardi del lavoro affettivo e cognitivo, ad esempio, il lavoro aliena al lavoratore non solo il prodotto del suo lavoro, ma l’intero processo produttivo di modo che quando sono al lavoro, i lavoratori non percepiscono più come proprie le loro capacità cognitive, affettive e così via. Nei “discount della parola”, dunque, il valore è generato dai saperi relazionali degli operatori e dalle loro competenze tecnico-informatiche, saperi e competenze che rappresentano il “comune” sul quale i capitalisti dei call center generano i loro profitti, ma che non viene contabiliz
zato in alcun modo nei salari degli operatori.

II. Sulla produzione di soggettività

Il sogno di ogni team leader è quello di avere a che fare con operatori produttivi che hanno fatto propri i valori aziendali. Il team leader sa bene, però, che si tratta di un sogno irrealizzabile. Nei periodi in cui le cose vanno bene, ossia quando si danno agli operatori retribuzioni intorno ai mille euro e, contemporaneamente, i margini di profitto aziendale sono elevati, il sogno appare come un ideale perseguibile. Nei periodi come il nostro invece – nel quale diminuiscono gli investimenti delle imprese committenti, e/o calano le vendite dei servizi agli utenti finali; oppure quando il rapporto di forza tra l’impresa committente e l’azienda call center è fortemente a vantaggio della prima (clausole stringenti, imposizione del raggiungimento di elevati obiettivi di vendita ecc.) – il sogno del team leader si tramuta facilmente in incubo e, con esso, i valori aziendali spacciati fino a quel momento come “vincenti e positivi” si rivelano a tutti gli effetti come costrutti ideologici. In questi periodi l’adattamento dell’operatore precario inizia a vacillare e il team leader, progressivamente, sveste gli abiti del consigliere e indossa quelli del capetto e del cronometrista. In tale stato di cose il processo di adattamento dell’operatore all’azienda si inceppa irrimediabilmente; e i valori aziendali, fino a poco tempo prima “convincenti”, rivelano il loro ruolo prescrittivo, indipendentemente dal fatto se ci siano le condizioni (oggettive e soggettive) che permettono all’operatore di rispondere adeguatamente alle richieste del team leader e dell’azienda. Quando ciò avviene la “farsa” della mission aziendale mostra tutta la sua materialità: i ritornelli dei dirigenti, per voce del team leader, sono sempre gli stessi a fronte di condizioni materiali e organizzative del lavoro sostanzialmente peggiorate. Si genera in questi casi una situazione di conflitto interno all’organizzazione difficile da pacificare (se non per brevi periodi contraddistinti dall’acquisizione di buone commesse), che spesso è caratterizzata da “esplosioni” di rabbia e dall’allontanamento, più o meno forzato, degli operatori più recalcitranti, non integrabili nel sistema aziendale; in una parola: inaffidabili. Proviamo adesso, con il supporto degli operatori e delle operatrici che hanno fatto propria l’esperienza dell’inchiesta, a descrivere in modo sintetico in cosa consiste il “processo di produzione” di un operatore di call center affidabile, partendo da chi svolge attività outbound (chiamare le persone per proporre la vendita di un prodotto-servizio). I momenti di tale processo, in generale, sono di tre tipi: percorsi formativi (a monte e durante il periodo lavorativo), incontri vis à vis con il team leader durante la giornata lavorativa (le “chiamate”), riunioni di gruppo con responsabili aziendali e/o con i team leader. I corsi di formazione, generalmente di breve durata, sono concepiti ed erogati al fine di selezionare gli operatori e valutare i potenziali di affidabilità dei singoli. Generalmente il corso comincia con la comunicazione degli obiettivi che un “bravo” operatore deve raggiungere grazie alla sua capacità di gestire in modo professionale il maggior numero di chiamate nel minor tempo possibile. Già dagli obiettivi sono ravvisabili le “pressioni” che l’operatore si troverà a susull’inchiesta politica nei call center calabresi 163 bire: da un lato quella dei “tempi” (pressione che permette al call center di realizzare i propri guadagni), da un altro lato quella della “professionalità” (pressione volta a garantire l’impresa committente del servizio). Il corso di formazione viene erogato al fine di supportare gli operatori con degli strumenti cognitivi che li aiutino a resistere a queste due pressioni, che non di rado si presentano come contraddittorie. Come scritto nelle dispense (e ribadito all’inizio) di ogni corso di formazione per operatore di call center: “L’operatore deve saper gestire correttamente la telefonata, deve saper affrontare le lamentele, superare le obiezioni e gestire i diversi tipi di clienti in base alla loro personalità”. Il tutto nel minor tempo possibile, ossia nel “tempo medio di conversazione”. I metodi e le tecniche per “gestire clienti in base alla loro personalità” sono praticamente i contenuti di un corso, contenuti che affondano le loro radici nelle scienze sociali americane inerenti la gestione dei conflitti nelle organizzazioni complesse: dalle teorie dell’assertività ai role playing, dai criteri di auto motivazione alle tecniche di vendita, dagli stress test a varie tecniche di autocontrollo, dai test di cultura generale ai test di logica e psico-attitudinali, e così via per un lungo elenco formulato ad hoc dagli psicologi e sociologi del marketing. Il corso di formazione, in poche parole, serve per convincere gli operatori di un paio di assiomi: il lavoro deve raggiungere determinati obiettivi e viene su questi valutato (principio di efficacia/efficienza); gli obiettivi possono essere raggiunti attraverso il miglioramento progressivo delle performance soggettive dell’operatore. Non ci sono altre dimensioni da prendere in considerazione. Il corso di formazione illustra i binari entro i quali l’operatore si troverà a svolgere la sua prestazione lavorativa, nella quale tutto dipenderà da lui, dalle sue capacità, dalla sua flessibilità, dal livello delle performance linguistico-relazionali che riuscirà ad esprimere. Di converso è ben noto che l’operatore non è un demiurgo, che la sua capacità di vendere dipende anche dalla capacità di acquistare di chi sta all’altro capo del telefono, dall’interesse che quest’ultimo dimostra verso il prodotto / servizio proposto. Detto altrimenti, la capacità commerciale dell’operatore dipende in larga parte dalle liste di clienti che il call center (spesso l’impresa committente) gli concede. Migliore è la lista maggiori saranno le vendite, e viceversa, come insegnano Al Pacino e Jack Lemmon in Americani di James Foley. Da questo punto di vista, facendo perno esclusivamente sulle qualità dell’operatore, il corso di formazione si trova di fatto a veicolare verso il basso le responsabilità dell’azione imprenditoriale (liste scadenti, clima teso, ecc.), che vengono imputate alle sole performance dell’operatore. Anche le “chiamate” e le “riunioni” svolgono la stessa funzione. Ma se i corsi di formazione a monte dell’esperienza lavorativa, data anche la loro breve durata, servono soprattutto per escludere a priori soggetti potenzialmente conflittuali (o inadeguati a irreggimentarsi nelle procedure e regole del call center), le “chiamate” e le “riunioni” svolgono la funzione di controllo continuo delle performance e dell’emotività degli operatori al lavoro. Servono sostanzialmente a ribadire l’ideologia dell’azienda, nel tentativo di “rifunzionalizzare” un operatore in calo di produttività o con disposizione conflittuale. Ecco un operatore con dieci anni di lavoro sulle spalle come descrive le chiamate e le riunioni: Quando hai una chiamata vuol dire che c’è qualcosa che non va […] la chiamata serve per dire: guarda che ti controllo, che non stai andando bene, che puoi rischiare, oppure può essere benevola, per dire: bravo, congratulazioni, siamo fieri di te, continua così e raggiungi sicuramente i tuoi obiettivi […] le riunioni invece avvengono quando ti riuniscono in una stanza e ti fanno i soliti trabocchetti: ma cosa è successo… Come mai non sull’inchiesta politica nei call center calabresi 165 state andando bene…, i nostri concorrenti a parità di qualità delle liste riescono a vendere molto di più… come mai… dov’è il problema… Fateci capire dov’è il problema. Allo stesso operatore quando gli viene chiesto cosa rispondono alle domande che gli vengono poste, se ai responsabili e al team leader fanno capire dov’è il problema, ecco cosa risponde: No! È proprio lì l’inganno. Il problema vero sono le liste di telefonate che ci danno, che magari fanno sc
hifo e non servono a due lire… Lo scarto dello scarto… Ma tu questo non lo devi dire, perché se lo dici la prima volta, poi una seconda volta e così via a quel punto sei mobbizzato… Loro lo sanno che sono le liste che fanno schifo ma il problema deve essere ribaltato sul lavoratore … Tu puoi dirgli tutto ma non che sono le liste, già da come impostano il problema “fateci capire”… “dov’è il problema”… Loro danno per scontato che il problema è nella capacità di vendita non in questioni oggettive come una lista di merda… Se invece gli dici e ripeti che il problema sono le liste prima o poi verrai fatto fuori in qualche modo. Quanto appena riportato è di estrema importanza. Non si tratta del caso di un singolo call center, ma di una pratica consolidata come espresso dalla maggior parte degli intervistati. Ci si trova impotenti, sull’orlo del precipizio, senza le argomentazioni per controbattere le posizioni padronali e con il morale a terra, svuotati delle “motivazioni” necessarie per “sorridere al cliente… e ragionare nell’ottica di quest’ultimo”. E ciò non può accadere, in quanto in aperto contrasto con la figura stessa di operatore che, come rilevato da Francesca e Nella (due giovani laureate con esperienza lavorativa nei call center) grazie ad un’indagine sul campo: …quello dell’operatore è un lavoro che ti costringe, giornal- 166 quaderni di san precario – nr. 4 mente, a vivere dietro una maschera di estrema cortesia, numerosi sorrisi e costante pazienza, necessari a gestire le innumerevoli telefonate che si ricevono nel contesto lavorativo di forte precarietà e alienazione. La produzione di soggettività che avviene nel call center, efficacemente programmata per mezzo di dispositivi organizzativi e informatici, come vedremo tra poco, presenta numerose lacune. È ambigua, contraddittoria; eppure in molti casi riesce, seppur parzialmente, a “modellare” gli stili e le condotte degli operatori. Siamo di fronte, come ha efficacemente spiegato la sociologia borghese, a “valori” che orientano comportamenti. Gli operatori, da questo punto di vista, pur riconoscendo le mille assurdità aziendali nelle quali sono immersi, pur criticando aspramente le tecniche di controllo e l’organizzazione del lavoro in generale, pur denigrando l’ideologia ufficiale che viene loro propinata, non pare, attualmente, che riescano ad opporre un’adeguata resistenza: la paura di perdere il lavoro, in un contesto dove la valutazione delle performance e dei diversi stati soggettivi è continua, sembra favorire la plasticità dei soggetti nei confronti degli strumenti adottati dall’azienda ai fini di assoggettamento. Da questa angolazione uno dei primi impegni dell’inchiesta politica nei call center è quello di far cadere definitivamente la maschera del “bravo operatore”. Maschera che è fonte di alienazione e sfruttamento, che nasconde le responsabilità del potere aziendale grazie alla capacità di sottomettere il lavoro cognitivo degli operatori ad obiettivi eterodeterminati e contraddittori.

III. Sull’organizzazione/controllo

I call center hanno un’organizzazione verticale, gerarchica: all’apice c’è il “direttore”, che può essere supportato dai “manager” della formazione e da altre figure impiegate nelle risorse umane. A seguire troviamo i “supervisor”, che gestiscono e coordinano le attività. Accanto ai supervisor, ma più in basso, ci sono i “team leader”, che svolgono un ruolo di coordinamento, controllo e supporto dei gruppi di operatori a loro assegnati. Alla base troviamo gli operatori che, a loro volta, si distinguono a secondo delle attività svolte (inbound / outbound) e del loro inquadramento contrattuale (dipendente a tempo indeterminato, dipendente a tempo determinato, collaboratore a progetto e così via). Tale organizzazione esercita un potere costante ed omogeneo sugli operatori: ogni gesto, espressione, condotta, attività viene registrata e ne viene valutata la compatibilità ai valori e comportamenti adeguati al call center. La sorveglianza in un simile contesto svolge un ruolo preciso e duraturo, funzionale al “buon addestramento”. Il potere nei call center non solo assoggetta gli operatori, ma li rende strumenti stessi del proprio esercizio. Deve rendere tutto calcolabile e, a tal fine, mette in campo tecniche di sorveglianza multiple e incrociate, che consentono ai controllori (team leader e supervisor) di osservare senza essere visti. Si tratta di un potere che compara, gerarchizza, misura e indica la conformità da raggiungere: compara, perché le singole condotte vengono confrontate in relazione alla serie di comportamenti adeguati / devianti; gerarchizza, poiché differenzia gli individui in base alla regola / norma / programma / regolamento; misura, in quanto produce differenze quantitative tra gli operatori che vengono dunque classificati in base ai “valori” conformi alla mission aziendale; indica, dal momento che pone gli obiettivi inerenti la conformità che gli operatori devono raggiungere e, contemporaneamente, sanziona, poiché stabilisce le “punizioni” alle quali si va incontro quando non si segue una “condotta retta”. Nei call center i sistemi di controllo sono specializzati per rilevare ogni eccedenza dei singoli operatori rispetto al regime precodificato dall’organizzazione. I dispositivi che garantiscono il controllo e la sorveglianza riportano alla mente il panopticon di Bentham, la prigione a forma circolare, ad anello, al centro della quale c’è un cortile e una torre dalla quale possono essere osservati tutti i detenuti contemporaneamente. Come ha insegnato Foucault, il panopticon è la sintesi di tutti quei poteri che dominano sugli individui, dal momento che – inverificabile – induce nel detenuto uno stato cosciente di visibilità, che lo porterà a non assumere comportamenti devianti e a garantire, di fatto, il funzionamento automatico del controllo. La relazione tra il panopticon e i call center non è forzosa come qualcuno potrebbe credere: anche nei call center si è sotto il controllo di un potere che vede senza farsi vedere (quando ritiene sia il caso di diventare invisibile), mentre le celle sono le scrivanie, i detenuti sono gli operatori, i guardiani sono i supervisor, i secondini i team leader, le finestre della torre centrale sono i computer, attraverso i quali si esercita questo potere invisibile in grado di pervadere e invadere ogni momento della giornata. Come già rilevato alla fine degli anni novanta: Nei call center gli operatori sono costantemente visibili e il supervisore ha infatti il potere di perfetta resa attraverso il monitoraggio dello schermo del computer e, quindi, del suo utilizzo non necessario. Il controllo invisibile del supervisor possiede in altri termini le peculiarità del panopticon. Si presenta come un controllo chimerico, costante, supportato da strumenti elettronici e informatici di sorveglianza. Un potere che forma le squadre di operatori, li “logga” e li tiene sotto controllo in modi vari: dall’invio di “messaggi motivazionali” sul personal computer, al richiamo urticante dei team leader, all‘impossibilità di scambiare qualche parola con il collega di fianco, costretto anch’esso nella sua celletta, privo di qualsiasi forma di autonomia. La pervasività del controllo, insieme alla standardizzazione ossessiva delle procedure inerenti le attività degli operatori, configurano il call center – come abbiamo avuto modo di dire – come una nuova catena taylorista: che questa volta investe, insieme al corpo e alla mente, anche le parole e le emozioni. Gli operatori, inizialmente illusi di una qualche forma di autonomia sul lavoro, si trovano fin da subito dinanzi a compiti tecnicamente regolati, copioni scritti ai quali attenersi, script da seguire. Per superare la noia, l’irritazione e la frustrazione i più utilizzano l’umorismo e l’ironia… ma ce ne vuole davvero troppa!

IV. Sul malessere del lavoro

È capitato a chi scrive di essere stato mandato “a quel paese” da una operatrice di call center al termine di una telefonata animata, svoltasi una sera intorno alle 20.30. Altri amici ci hanno raccontato di aver vissuto la stessa esperienza: si tratta di casi in cui l’operatore non c’è l’ha fatta, non ha resistito. Al termine della giornata, con un sonoro vaffanculo, ha dato sfogo a settimane di stress, trasgredendo la regola fondamentale del proprio lavoro, ripetuta fino alla noia nei corsi di formazione e messa nero su bianco nelle dispense a proposito dell’empatia: “Per riuscire a gestire le obiezioni è necessario evitare assolutamente lo scontro con il cliente e mettersi dalla sua parte. Questo non significa dargli ragione, bensì creare le condizioni per un dialogo”. Quando raccontiamo della telefonata sgradevole a una amica psicologa che lavora nei call center da più di cinque anni, subito ci dice che la telefonata sicuramente non proveniva dalla postazione di lavoro, in quei casi – sotto l’occhio vigile del team leader – non si sbotta quando un cliente ti aggredisce, cosa che avviene quotidianamente e di frequente, al limite ci si mette a piangere, di solito di nascosto, al termine della telefonata. Le rispondiamo che forse è meglio sbottare con una parolaccia che mettersi a piangere, ma lei non è d’accordo e replica che, a partire dalla sua esperienza, quando si arriva a trattar male i clienti vuol dire che si è accumulato un tale livello di stress e così tanta negatività che è il caso di abbandonare immediatamente il lavoro, pena il rischio di seri esaurimenti nervosi. Aggiungendo che lei ha avuto tre amiche che, via parolaccia o via pianto, sono passate direttamente dal call center al lettino dello psicanalista. Il problema del disagio e dei disturbi psicofisici generati dal lavoro nei call center è stato ribadito a più riprese dagli operatori che hanno sottolineato il fatto che non è difficile che si vengano a creare quelle situazioni che gli psicologi chiamano “ingiunzioni paradossali”, ossia situazioni in cui l’intimazione di un superiore, nel caso di un team leader, mette il lavoratore in una posizione insostenibile, una posizione per cui se realmente obbedisce all’ordine che gli è stato rivolto di fatto disobbedisce. Per fare degli esempi: come già accennato, alle obiezioni di un responsabile relative a un calo di produttività, se l’operatore si giustifica chiamando in causa le “liste scadenti” di fatto esce fuori dal seminato perché il problema, a priori, è inquadrato come inerente le performance. Ancora: se durante una telefonata, prolissa a causa del cliente, l’operatore fa proprio il principio della cordialità e cortesia (rispetta dunque i criteri di qualità imposti dall’impresa committente alla società di call center) e non riattacca entro un certo limite temporale ribaditogli dal team leader, disobbedisce pur avendo di fatto rispettato una parte del codice aziendale. Di converso, se aderisce ai criteri quantitativi imposti dai responsabili del call center per bocca del team leader, è probabile che la qualità della sua prestazione sia insoddisfacente e quindi passibile di valutazioni negative da parte dell’impresa committente. E così via. Ecco sull’inchiesta politica nei call center calabresi 171 perché si generano situazioni insostenibili, perché comunque vada, obbedienza e disobbedienza sono dimensioni che, in certi casi, diventano indipendenti dai valori che hanno ispirato il comportamento effettivamente mantenuto. È il caso adesso di soffermarsi su queste situazioni insostenibili, e su come queste derivino dallo specifico organizzativo dei call center, in quanto rivelatrici del fatto che nel nuovo capitalismo, di cui il lavoro di call center è un caso esemplare, declassamento e precarietà non sono solo il frutto dell’inasprimento dello sfruttamento più classico ed economico del termine, ma vanno anche di pari passo con un’alienazione crescente del lavoro.

V. Inbound / outbound

L’obiettivo centrale dell’azienda, è noto, è quello di gestire il maggior numero di chiamate per ottenere maggiori margini di guadagno. Non importa se l’operatore condivide l’ideologia ufficiale o se le pressioni con le quali convive siano divenute nel tempo insostenibili. Bisogna comunque dire che il livello di pressione, stress e negatività a cui sono sottoposti gli operatori di call center è differente a seconda del lavoro effettivamente svolto: livello maggiore (e di gestione particolarmente complessa) se si tratta di operatori outbound, livello minore, e di gestione meno complicata, se si tratta di operatori inbound. Questo, come rilevato in quasi tutti gli incontri tra il gruppo d’inchiesta e gli operatori, non dipende dal fatto che nel primo caso è l’operatore ad eseguire la telefonata mentre nel secondo si trova a riceverla e fornire assistenza a un cliente, quanto piuttosto sembra dipendere dal contenuto sociale della telefonata stessa. Gli operatori outbound, in altri termini, ritengono che l’empatia da stabilire con il cliente sia molto difficile da raggiungere dal momento che essi stessi giudicano scadente la qualità del prodotto o del servizio che stanno propinando. Sono costretti cioè a chiamare le persone, a mettersi “dalla loro parte”, a creare una condizione di dialogo con l’unico intento di strappare un contratto, quando già sanno che quel prodotto / servizio è una fregatura. In questi casi ciò che disturba molto gli operatori è che il loro lavoro ha le finalità tipiche dell’“inganno”, un inganno che gli permette di incrementare il modesto salario mensile ma li pone anche in una situazione incresciosa dove non è possibile mantenere alcuna remora morale. Da questo punto di vista, il lavoro outbound, nonostante le diverse strategie aziendali predisposte a neutralizzare tali remore, non riesce a far aderire gli operatori alla mission aziendale, non riesce in altri termini a farli immedesimare del tutto nelle logiche e pratiche del call center. Come ha raccontato un’operatrice che ha partecipato agli incontri d’inchiesta: “La cosa più frustrante è quella di raccontare la storiella dell’uva al cliente. In breve, imbarcare la gente…”. Dello stesso tono le parole di Alessandro, un altro operatore partecipante agli incontri: Noi dovevamo prendere minimo 12-13 telefonate. Tu non puoi chiudere una telefonata in tre minuti e magari far capire a un cliente in modo corretto quello che deve fare, non ci riesci, e allora che devi fare? Devi imbrogliarlo. Il controllo, e non il consenso, diventa a questo punto l’elemento necessario ai fini della produzione. Per tali ragioni, il “teatrino” messo in piedi dai vertici aziendali durante i corsi di formazione e/o prima di un’assunzione viene miseramente a cadere agli occhi e nella mente dell’operatore, così come vengono a cadere quei modelli identificativi e di condivisione nei quali gli operatori sono stati irreggimentati. Preferiscono il lavoro inbound perché riescono a tolsull’inchiesta politica nei call center calabresi 173 lerare meglio lo stress e le negatività che questo comporta. Nell’inbound, inoltre, hanno la percezione che le loro “qualità” sono messe al lavoro per fini di assistenza, quindi utili al cliente e all’impresa in generale. L’outbound, di converso, è la terra degli ultimi, di chi si affaccia al call center con necessità materiali precise e si trova dinanzi un’organizzazione gerarchica con ruoli strutturati, nella quale potrà trovare posto se sarà rispettoso dei comandi, flessibile nelle prestazioni e negli orari, e, qualora ce ne fosse bisogno, abile nell’arte del raggiro.

VI. Stress / Burnout

Con una frase ad effetto, ma vicina al vero, possiamo parlare di operatori “usa e getta”. Nei call center ci si “ammala” di lavoro, dal momento che si convive con pressioni di diversa natura che la tecnologia invece di ridurre tende ad aumentare. Come ha sottolineato il medico del lavoro Michele Piccardo: Ben pochi lavoratori dei call-center assomigliano a quelli rappresentati nella pubblicità. Le voci gentili di uomini e donne a cui esponiamo, spesso invano, i nostri problemi tecnici o a cui chiediamo informazioni o che cercano di venderci un prodotto di cui non abbiamo bisogno vengono da un mondo del lavoro moderno e tecnologico dove le persone continuano ad ammalarsi “di lavoro”. Per evitare o almeno ridurre questi danni probabilmente sarebbe sufficiente far sì che sia il lavoratore a governare e utilizzare la tecnologia invece del contrario. Il call center è rumoroso. Tutti gli operatori tendono ad avere un tono di voce alto nelle conversazioni, da un lato perché ciò rientra nella logica della comunicazione telefonica, da un altro lato perché tutte le voci presenti nella sala si sovrastano. Da questo punto di vista possiamo paragonare l’ambiente del call center a un centro commerciale nei periodi di grande affluenza. Tutti gli elementi richiamati comportano malessere fisico e mentale e implicano una considerevole perdita di energie. Nella vita da operatore di call center ci si può ritrovare emotivamente esausti, in condizione di burnout. Burnout vuol dire “non farcela più”. La traduzione letterale è “consumarsi”, quella figurativa può avere più di un significato, i principali sono “esaurirsi” e “scoppiare”. Burnout indica l’insoddisfazione e l’irritazione quotidiana, la prostrazione e lo svuotamento, il senso di delusione e di impotenza di molti lavoratori e lavoratrici relazionali. Il burnout induce gli operatori a diventare apatici, cinici con i propri “clienti”, indifferenti e distaccati dall’organizzazione complessiva dell’azienda; così come è causa di alti tassi di turn over e di assenteismo sul lavoro. Burnout è alienazione. L’insoddisfazione e l’infelicità lavorativa è figlia dello stress vissuto dagli operatori che si affaticano a mantenere il controllo. Come ha affermato Lina in uno degli incontri del gruppo d’inchiesta: Lo stress, lo stress si avverte, c’è uno stress mentale ed anche fisico, oltretutto quello mentale si riversa sul fisico, c’è chi ha crisi di pianto, crisi di vomito, chi ha mal di testa, perché avere sempre questo fiato sul collo, la persona che ti sta dietro e come ti sente parlare al telefono ti dice chiudi, chiudi, chiudi… Le crisi di pianto ti vengono perché ti dicono “se tu non produci non sei nulla, non vali niente” così ti dicono e davanti a tutti. Quindi già è una mortificazione che te lo dicono davanti a tutti, perché se almeno te lo dicessero a tu per tu, in altro modo, non gridando davanti alla sala… Il lavoro nei call center viene considerato dall’azienda come lavoro non qualificato, per il quale le qualità soggettive e relazionali degli operatori – in realtà, chiavi di volta dei profitti aziendali e della valorizzazione complessiva del call center – hanno un’importanza del tutto relativa. In questo ambiente, dove i tempi lavorativi sono deumanizzati, vi è una costante: stretta sorveglianza tecnologica e ripetitività lavorativa. Il controllo elettronico favorisce l’aumento di produttività degli operatori e supporta i manager a mantenere elevato il numero delle chiamate e, compatibilmente, la qualità delle stesse. Questi ultimi sono i principali sostenitori della sorveglianza e del monitoraggio elettronico continuo, nonostante i disturbi psicofisici e la dimensione costrittiva che questi generano. A tal proposito sono significative le parole di una telefonista di Telecontact, call center catanzarese con circa 600 dipendenti, riportate in LaCina siamo noi: Penso di essere rimasta intrappolata, la mia paura più grande è di non riuscire più ad uscire da lì. Questo è un lavoro che ti lega e ti fa morire. Quando ti siedi al call center pensi sempre che sia per qualche mese, poi non ti alzi più. Capisco la gente che a un certo punto prende una mitraglia e fa una strage. L’ultima frase può sembrare forte, ma si tratta soprattutto dello sfogo di una donna avvocato alla quale non è possibile lasciare un lavoro “che ti lega e ti fa morire”. Nessuna strage è ancora avvenuta nei call center, la cosa più frequente è che le pressioni diventino insopportabili e, di conseguenza, qualcuno vada in escandescenze e venga portato via in ambulanza; oppure, al trabocco della goccia, può capitare che un operatore mandi affanculo i responsabili aziendali e vada via gridando e sbattendo la porta. Più raramente si verifica qualche colluttazione. Qualche volta, a seguito di casi del genere, qualcuno si rivolge al sindacato, fino ad allora un perfetto sconosciuto, per ottenere un risarcimento. Questi sono quelli che non ce la fanno più e scelgono la fuga, per i team leader “sono quelli deboli, incapaci di misurarsi con gli obiettivi del lavoro”. La maggior parte degli operatori incontrati ha raccontato storie di pressioni terminate in escandescenze, storie da loro vissute come eccezioni, che confermano però la regola di una vita sotto stress.

VII. Alcune conclusioni

L’analisi fin qui compiuta è stata possibile grazie alla elaborazione svolta in comune con gli operatori e le operatrici, che ci ha permesso di dibattere e approfondire i punti di vista che via via sono emersi negli incontri di questi ultimi mesi. Siamo partiti dalle trasformazioni del lavoro e abbiamo evidenziato il conflitto tra la natura postfordista del lavoro immateriale svolto dall’operatore di call center e la struttura di stampo taylorista in base alla quale sono organizzati i servizi telefonici di vendita e assistenza. Questo, in poche parole, è il Leitmotiv di questo documento che testimonia, in forma sintetica, la questione del valore-lavoro nei call center e le conseguenze alienanti (controllo, flessibilità e precarietà) subite dagli operatori. Ci siamo chiesti come sono percepite le qualità degli operatori (da loro stessi e dagli altri soggetti aziendali) e “come”, “perché” e “quando” queste qualità diventano conflittuali, si motivano alla lotta. Nel capitalismo cognitivo la precarietà è in primo luogo soggettiva, quindi esistenziale e generalizzata. La precarietà è condizione soggettiva in quanto entra direttamente nella percezione del singolo in modo differenziato a seconda delle aspettative, dell’immaginario e del sapere acquisito. Una delle drammaticità della condizione precaria, come è stato più volte ribadito, è che non esiste un processo omogeneo di “presa di coscienza”, mentre esistono strade molteplici per attivare processi di soggettivazione; dal momento che, per usare l’efficace slogan gridato in una manifestazione da un operatore, “siamo tutti precari ma ognuno lo è a modo suo”. Negli incontri abbiamo toccato con mano cosa vuol dire che la precarietà è una condizione strutturale del nuovo rapporto tra capitale e lavoro immateriale, che è ciò che lega la cooperazione sociale (divenuta ormai fondamentale per ogni tipo di produzione) alle gerarchie finanziarie. Abbiamo iniziato a vedere da vicino come i saperi, i linguaggi e gli affetti prodotti dalla cooperazione sociale vengono messi al lavoro e sfruttati da chi riesce a valorizzarli in termini capitalistici. Per tali ragioni siamo convinti che il reddito di base, individuale e incondizionato, sia una proposta politica chiave anche per gli operatori di call center, adeguata al livello di sfruttamento al quale sono sottoposti. Perché il reddito di base farebbe saltare in aria, nel caso specifico, tutti quei piccoli e medi call center che vivono grazie a collaboratori con retribuzioni da fame. E imporrebbe, inoltre, alle realtà di grandi dimensioni di aumentare i magri salari che dispensano, costringendole a riconoscere (almeno in parte) quelle qualità comuni produttrici di valore capitalistico delle quali abbiamo discusso. L’inchiesta sulla precarietà e il comune in Calabria è nata per favorire processi di soggettivazione ed estenderli ai diversi bacini del lavoro precario della regione. I call center ci hanno spinto finora ad affrontare prevalentemente la questione della precarietà, ma non ci hanno visto abbandonare, nemmeno provvisoriamente, la tematica del comune che, va da sé, è di estrema importanza ai fini dell’inchiesta politica. Per quel che ci riguarda, infatti, è nel comune che si trovano le condizioni di un nuovo modo di produzione della ricchezza sociale, a partire dal quale è fondamentale ripensare le categorie della politica e del conflitto. È il comune che ci proietta in una dimensione storica, oltre il privato e il pubblico, della quale già avvertiamo le tendenze e i numerosi segnali. Dal punto di vista dell’inchiesta sui call center le tematiche del comune e del reddito di base aprono un nuovo capitolo, ci riportano alla soggettività dei lavoratori immateriali e agli “aspetti qualitativi irriducibili” del loro operare: problematizzano, in altri termini, la questione della loro composizione politica. Noi riteniamo fondamentale che quest’ultima si dia nelle lotte per il comune e che non venga dissolta, come avviene miseramente oggi, nelle battaglie per il lavoro.

VIII. Appendice. Operatori e imprese di call center in Calabria In Calabria ci sono oltre 10.000 addetti al call center, circa 5.700 dipendenti, prevalentemente part-time al 50%, con un contratto di 20 ore settimanali, inquadrati al secondo o terzo livello del Ccnl telecomunicazioni. Il salario corrisposto è di circa 650 euro. I collaboratori a progetto censiti sono invece quasi 3.000 e guadagnano mediamente, tranne rare eccezioni, tra i 300 e i 400 euro al mese. È il caso di ribadire che non si tratta di dati “certi” (peraltro poco significativi per quel che ci interessa) ma di riferimenti indicativi delle quantità. Ciò perché il settore dei call center calabresi ha un alto tasso di turnover, dovuto soprattutto al sorgere e morire, negli ultimi anni, di piccole e medie imprese (più di venti dai 30 ai 100 operatori), che vivono con saltuarie commesse di sub-appalto, acquisite dopo una gara al massimo ribasso.

Occupati nei call center per territorio e condizione occupazionale

 circoscrizioni

Imprese

Lavoratori
Dipendenti

Collaboratori
a progetto

Totale

Operatori

Catanzaro

9

3.235

490

3.725

Cosenza

19

1.937

1.890

3.827

Reggio Calabria

11

672

418

1090

Calabria

39

5.844

2.798

8.642

* I dati di Catanzaro comprendono anche quelli di Crotone (1 impresa = 1.200 occupati) e Vibo Valentia (2 imprese = 330 occupati)

Tra il 2008 e il 2009, agli inizi della crisi, queste imprese sono divenute numerose e precarie, spesso morenti, altre volte risuscitate con nuovi nomi e lo stesso management. L’area di Cosenza è stata il luogo che ha visto nascere e morire il maggior numero di piccole-medie imprese di call center. In anni recenti, ne sono cessate una ventina, ma rimane ugualmente la provincia con il maggior numero di imprese. Imprese precarie, dei servizi immateriali, che forniscono i grandi gruppi nazionali ai quali sono indissolubilmente legate in termini di commesse, senza però nessun vincolo di rapporto. A Cosenza lavora il 70% dei collaboratori a progetto, il resto è diviso quasi alla pari tra le altre due province. Cosenza Valley è definita dal management, per indicare il luogo dove lo sfruttamento intensivo degli operatori frutta maggiori profitti, in quanto il lavoro immateriale costa meno e le implicazioni giuridiche del rapporto con gli operatori sono quasi inesistenti. Non è un caso che la multinazionale Almaviva, sbarcata a Cosenza con il “salvataggio” (acquisto) di Call&Call, chieda la cassa integrazione di 632 dipendenti nella sede di Roma, e allo stesso tempo preveda un piano di 250 assunzioni nella sede cosentina. In generale, su 2.800 collaboratori a progetto presenti nella regione, quasi 2.000 lavorano a Cosenza. L’aria di Catanzaro, di converso, è il cuore del settore dei call center. È qui che sono presenti le imprese principali: 2-3 call center (su 9) definiscono praticamente l’intero settore: oltre 5 mila occupati (degli ottomila regionali), più di 1.500 dei quali nella sede di Cosenza. Si tratta di società per azioni detenute dai soggetti politico imprenditoriali più forti del territorio: Abramo (Customer Care Spa), sindaco catanzarese di destra, che occupa circa 2.800 lavoratori immateriali subordinati (oltre la metà nel proprio collegio elettorale), sindacalizzati con un accordo di stabilizzazione; Infocontat Spa, con sede legale a Roma e 12 sedi operative in altrettanti paesi 180 quaderni di san precario – nr. 4 calabresi, con un buon portafoglio clienti (Poste, Telecom, Wind, RCS, Mediolanum, eccetera) e 1.000 operatori a Catanzaro (più altri 620 a Cosenza). La diretta concorrente di questi due gruppi, la Phonemedia, è fallita di recente dopo aver ricevuto circa 10 milioni di euro di finanziamenti pubblici, lasciando in cassa integrazione oltre 2.000 operatori, alcuni dei quali ancora oggi non hanno ricevuto alcuna indennità. A livelli occupazionali inferiori incontriamo la Telecontact, call center del gruppo Telecom, che conta 600 operatori dipendenti ma svolge un ruolo strategico in termini di acquisizione di commesse da case madri esterne e poi lavorate o date in sub appalto. Altre 4 imprese, senza dipendenti, si attestano tra i 50 e i 100 collaboratori e rappresentano la base del settore. Catanzaro è stata definita, a mò di slogan, come la “periferia di Bangalore”. Bisogna dire, a conferma dell’usura di certe categorie, che Catanzaro è periferia ma è anche centro, rispetto a Cosenza Valley, dove si delocalizza a caccia di forza lavoro immateriale precaria a un ottimo prezzo! Ed è centro anche rispetto a Tirana e Bucarest, dove sono presenti più filiali di call center calabresi, attratti dal costo del lavoro immateriale ancora più basso della vicina Cosenza.

Call center per territorio e classe di occupati

classe
occupati

Catanzaro

Cosenza

Reggio
Calabria

TOTALE

fino a 49 (1)

1

6

5

12

50 – 99

3

2

3

100 – 199

1

4

0

5

200 – 399

1

1

3

400 – 599

1

2

3

600 – 999

2

1

3

1000 e oltre

3

1

4

TOTALE

12

17

8

30

Dal punto di vista delle dimensioni delle imprese, del tipo di agglomerati e delle condizioni professionali degli operatori, Reggio Calabria è un caso a sé. Oltre 1.000 operatori, meno della metà collaboratori a progetto; tre imprese di medie dimensioni (200-250 operatori) e otto piccole imprese (30-100 operatori). Le prime hanno sede legale fuori dalla regione (Milano è la sede legale esterna privilegiata). Si tratta della System House, società nata nel 1981, cresciuta nell’ambito del Bic Calabria, con sede legale a Roma e sedi operative a Reggio Calabria, Crotone e Santo Stefano d’Aspromonte. La Call&Call, già proprietaria di una sede nel Cosentino (oggi Almaviva), è quella che occupa nel reggino, a Locri, il maggior numero di dipendenti, oltre 260. Un altro call center, la Giary Group, ha mandato 58 persone in cassa integrazione, delle quali però, garantisce il sindacato, è previsto il rientro, dal momento che non si tratta di un’azienda fallita. A definire ulteriormente il quadro reggino c’è la Esg, società romana controllata da Antonio Persici e dalla moglie, Mariarosa Rossi (nominata onorevole da Silvio Berlusconi e sua segretaria personale), che dal 2007 al 2010 ha ricevuto dal Comune di Reggio Calabria quasi 5 milioni di euro per il servizio di contact center “Chiamareggio”, prima gestito da due società partecipate dal Comune.

NOTE

1. Cfr. S. Cominu, G. Roggero, “Verso la scuola estiva di UniNomade: appunti per il workshop su inchiesta e conricerca”, Uninomade 2.0 25/08/2012, .

2. F.M. Pezzulli, “Prime note per un’inchiesta politica nel Mezzogiorno”, Uninomade 2.0 09/02/2012, .

3. “La deposizione di Taylor davanti alla commissione speciale della Camera dei Deputati [25/01/1912]”, in F.W. Taylor, L’organizzazione scientifica del lavoro (Milano: Comunità, 1952): 269. 4. A dire il vero, l’ottusità degli organizzatori scientifici dei call center li porta a “radunare” le conoscenze degli operatori e a formalizzarle in degli schemi preconfezionati di gestione delle telefonate. Tali script, ridicoli se non fosse drammatico il cinismo col quale vengono imposti agli operatori (in quanto anch’essi fungono da dispositivi di valutazione e controllo), indicano i “comportamenti” verbali e non verbali da intrattenere durante ogni colloquio telefonico (sorrisi, timbro della voce, enfasi, meraviglia, velocità / lentezza delle frasi ecc.).

5. Cfr. M. Hardt, A. Negri, Comune (Milano: Rizzoli – Bur, 2010): 145.

6. La contraddittorietà delle pressioni spesso influisce negativamente sulla “autoattivazione” degli operatori, ossia sugli interventi attivi a fronte di anomalie produttive che tendono ad abbassare la qualità del servizio erogato. Intervenire, infatti, per quanto possa essere automaticamente strutturato, può non convenire all’operatore che rischia di sforare oltremisura il tempo medio di conversazione, quindi trasgredire agli ordini (interessi) del call center. Di converso, di recente, le imprese committenti impongono all’operatore – al termine di ogni telefonata – di propinare un questionario sulla qualità del servizio erogato che influisce direttamente sulla valutazione del singolo operatore.

7. Paolo Greco (“Analisi di un call center”, Uninomade 2.0 27/05/2011, ), descrive il modo in cui viene suddiviso il tempo (TMC: tempo medio di conversazione; NR: tempo in cui si è occupati in altra conversazione; WAIT: tempo di attesa tra due chiamate; NOT Ready non telefonico: tempo in cui si sta gestendo il back office) e di come tale divisione, oltre a garantire maggiori profitti al call center, sia funzionale “ai fini di controllo e di pressione nei confronti degli operatori”.

8. Americani è un film straordinario che descrive la vita di alcuni venditori di immobili e le pressioni che questi sono costretti a subire da parte del team leader e dei responsabili dell’impresa. Seppure le figure narrate non sono operatori di call center veri e propri, ma venditori (che lavorano comunque abbondantemente con il telefono), il ribaltamento delle responsabilità aziendali sui singoli operatori è descritto in modo esemplare. Quando Jack Lemmon dice al giovane rampante (inviato dall’impresa per motivare – in modo aggressivo e terroristico – un gruppo di venditori) che le “liste sono scadenti”, la risposta di Alec Baldwin è la seguente: “Le liste sono scadenti? No, tu sei scadente!”. Tra gli operatori calabresi di call center e i venditori americani di immobili probabilmente le differenze sono molte, ma l’impostazione di fondo dei rapporti interni all’organizzazione e i modi di superamento delle criticità paiono davvero molto simili, esclusivamente a carico degli operatori.

9. S. Fernie, D. Metcalf, “(Not) Hanging on the Telephone: Payment Systems in the New Sweatshops”, CEP Discussion Paper (London: LSEPS) 390, 1998 (), p. 9.

10. Cfr. C. Vercellone, “La legge del valore nel passaggio dal capitalismo industriale al nuovo capitalismo”, Uninomade 2.0 26/01/2012, : “[…] il controllo si sposta sempre più a monte e a valle dell’atto produttivo stesso, facendo del controllo totale del tempo e dei comportamenti dei salariati la posta in gioco centrale. Esso si concretizza nella moltiplicazione di tutta una panoplia di strumenti di valutazione della soggettività del lavoratore e della sua conformità ai valori dell’impresa, inducendo spesso sull’inchiesta politica nei call center calabresi 183 quelle che in psicologia si chiamano ingiunzioni paradossali […]. Bisogna notare che una delle dimensioni più pregnanti di questa evoluzione non è il solo inasprimento dello sfruttamento nel senso più classico ed economico del termine. Declassamento e precarietà vanno anche di pari passo con un’alienazione crescente del lavoro. Essa proviene da una contraddizione sempre più profonda fra la potenza di agire iscritta nella dimensione cognitiva del lavoro, da una parte, e l’obbligo di sottomettersi a obiettivi etero determinati e spesso in contrasto netto con i valori etici dei lavoratori”.

11. P. Pierantoni, A. Guarnieri et al., Idee per un cambiamento. Una ricerca sulle condizioni di lavoro nella realtà dei call center (Genova: Inail – Cgil, 2007, ): 72-102 (cit. 92). In generale il malessere lavorativo viene distinto in due tipologie generali: stress psico-fisico (causato dalla monotonia e ripetitività dei compiti, intensità dei ritmi, saturazione dei tempi intesa come il rapporto tra il tempo di pausa e tempi di esecuzione dei compiti, e selfcontroll nelle relazioni pubbliche); stress ambientale (dovuto all’ambiente lavorativo: la qualità tecnologica degli strumenti audio-video, l’ergonomie delle postazioni, disturbi oculo-visivi, microclima e ventilazione, disturbi muscolo-scheletrici).

12. F. Fubini, La Cina siamo noi (Milano: Mondadori, 2012).

13. I lavori di Andrea Fumagalli sul reddito di base (o reddito d’esistenza) sono diversi e di particolare importanza. Vedi, tra gli altri “Il reddito di base come remunerazione della vita produttiva”, in Uninomade 2.0 15/11/2011.

14. È sorprendente il ritardo culturale dei partiti di sinistra e dei sindacati in merito alla proposta di un reddito di base individuale / universale e incondizionato. Testardamente interessati a ragionare e lavorare con le categorie classiche del capitalismo industriale sono ciechi dinanzi alle novità (finanziarie e biopolitiche) del capitalismo cognitivo. Per restare al nostro ambito, la scoperta della “mirafiori calabrese” e della crescita che “è coincisa con una sorta di deregulation” li porta a concludere che il problema fondamentale risieda nella “regolamentazione con un salario fisso dei contratti a progetto” (Cfr. Corriere della Calabria II 68, 2012). Come se un simile progetto in Calabria fosse oggi realizzabile o avessero la forza reale di poterlo compiere.

15. Non esistono rilevazioni sistematiche sul numero di operatori di call center. La fonte dei dati sui call center regionali più affidabile e aggiornata è quella curata da Raimondo Chirillo (Cgil che vogliamo), che ringraziamo per il supporto nella ricostruzione della tipologia di imprese di call center calabresi. Dal canto suo, il Corriere della Calabria cit., senza citare alcuna fonte dei dati, ritiene che nella regione ci siano almeno 15.000 addetti: la metà dei quali a Catanzaro. Meno di 5.000 sono quelli a tempo determinato e indeterminato. Oltre 7.000 sono quelli con contratti precari, 2.000 sono quelli con ammortizzatori sociali. 16. Cfr. la ricostruzione di G. Turano, in L’Espresso 13/09/2012.